di Giuliano Ladolfi
Leggo con grande interesse, e con un preciso desiderio di apprendere, gli studi di psicologia adolescenziale, perché mi aiutano nel lavoro di educatore a contatto con più di mille studenti. E se poi chi scrive presenta l’autorità e l’esperienza di Gustavo Pietropolli Charmet («Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi», RomaBari, Laterza 2009), il confronto con la realtà in cui opero si presenta immediata e continua.
Eppure durante la lettura, nel riflettere sul discorso dello psicologo, aumentava la consapevolezza che il ritratto da lui delineato si poneva in antitesi con la realtà da me vissuta quotidianamente nei colloqui e nelle relazioni con l’adolescente contemporaneo.
Senza dubbio condivido molte parti di carattere generale, come quelle riguardanti il bisogno di ricerca di identità, la crisi della personalità, il cambiamento del rapporto con l’adulto, come pure la constatazione della diversità del percorso adolescenziale odierno rispetto alla generazione precedente.
Tuttavia il modello del «Narciso» non corrisponde alla totalità della mia esperienza. Non sono all’oscuro che il comportamento identificativo-sentimentale dei genitori rispetto all’atteggiamento precedente di carattere educativo abbia accresciuto una tale componente, del resto caratteristica di quell’età, ma questo non ne ricostruisce l’intero perimetro psicologico.
Quotidianamente mi trovo a lavorare con adolescenti seri, determinati, generosi, altruisti, capaci di vivere e di richiedere autenticità e coerenza, desiderosi di condividere con gli adulti un progetto educativo, impegnati nel volontariato, creativi, in grado di comunicare entusiasmo, nonostante la loro timidezza, la loro sensibilità, la loro debolezza di fondo, ala loro fragilità psicologica, la loro difficoltà di gestire la responsabilità connessa con l’autonomia e la libertà.
Mi sono allora domandato dove vada cercata la diversità di esperienza. Nella certezza della relatività della mia conoscenza (difficilmente mi confronto con casi-limite), ho riscontrato in questo lavoro, frutto «della lunga e simpatetica esplorazione del mondo dell’adolescenza», un’impostazione «iatratica» (mi si conceda la coniazione del neologismo «iatrite», cioè «malattia del medico») che consiste nell’elaborare modelli tratti dalla patologia e nell’applicarli all’intera società o ad una precisa categoria. Questa pratica risale a Freud, il quale, dopo aver ideato la psicanalisi come terapia, ne ha esteso le problematiche allo sviluppo di ogni individuo.
Pur nella consapevolezza che ogni modello interpretativo è limitato e parziale, sono convinto che esistono gerarchie di modelli e assumere quello patologico per una descrizione universale e necessaria appare rischioso e spesso deviante. Non è un caso, infatti, che l’opinione comune, ripresa dai mass media, dai divulgatori e dai teorici puri, diventi patrimonio generale e induca a ritenere, per limitarci a questo caso, che tutti gli adolescenti siano unicamente «spavaldi e fragili».
L’effetto «riflettore», proprio del mondo della comunicazione, che seleziona il reale in base a criteri eccessivamente semplificatori, non aiuti gli educatori (genitori, insegnanti, sacerdoti, allenatori ecc.) a guardare con realismo alla complessità di un mondo estremamente ricco di potenzialità ideali, che, se condivise con fiducia, aiutano a formare una personalità equilibrata e ricca di valori umani.
Eppure durante la lettura, nel riflettere sul discorso dello psicologo, aumentava la consapevolezza che il ritratto da lui delineato si poneva in antitesi con la realtà da me vissuta quotidianamente nei colloqui e nelle relazioni con l’adolescente contemporaneo.
Senza dubbio condivido molte parti di carattere generale, come quelle riguardanti il bisogno di ricerca di identità, la crisi della personalità, il cambiamento del rapporto con l’adulto, come pure la constatazione della diversità del percorso adolescenziale odierno rispetto alla generazione precedente.
Tuttavia il modello del «Narciso» non corrisponde alla totalità della mia esperienza. Non sono all’oscuro che il comportamento identificativo-sentimentale dei genitori rispetto all’atteggiamento precedente di carattere educativo abbia accresciuto una tale componente, del resto caratteristica di quell’età, ma questo non ne ricostruisce l’intero perimetro psicologico.
Quotidianamente mi trovo a lavorare con adolescenti seri, determinati, generosi, altruisti, capaci di vivere e di richiedere autenticità e coerenza, desiderosi di condividere con gli adulti un progetto educativo, impegnati nel volontariato, creativi, in grado di comunicare entusiasmo, nonostante la loro timidezza, la loro sensibilità, la loro debolezza di fondo, ala loro fragilità psicologica, la loro difficoltà di gestire la responsabilità connessa con l’autonomia e la libertà.
Mi sono allora domandato dove vada cercata la diversità di esperienza. Nella certezza della relatività della mia conoscenza (difficilmente mi confronto con casi-limite), ho riscontrato in questo lavoro, frutto «della lunga e simpatetica esplorazione del mondo dell’adolescenza», un’impostazione «iatratica» (mi si conceda la coniazione del neologismo «iatrite», cioè «malattia del medico») che consiste nell’elaborare modelli tratti dalla patologia e nell’applicarli all’intera società o ad una precisa categoria. Questa pratica risale a Freud, il quale, dopo aver ideato la psicanalisi come terapia, ne ha esteso le problematiche allo sviluppo di ogni individuo.
Pur nella consapevolezza che ogni modello interpretativo è limitato e parziale, sono convinto che esistono gerarchie di modelli e assumere quello patologico per una descrizione universale e necessaria appare rischioso e spesso deviante. Non è un caso, infatti, che l’opinione comune, ripresa dai mass media, dai divulgatori e dai teorici puri, diventi patrimonio generale e induca a ritenere, per limitarci a questo caso, che tutti gli adolescenti siano unicamente «spavaldi e fragili».
L’effetto «riflettore», proprio del mondo della comunicazione, che seleziona il reale in base a criteri eccessivamente semplificatori, non aiuti gli educatori (genitori, insegnanti, sacerdoti, allenatori ecc.) a guardare con realismo alla complessità di un mondo estremamente ricco di potenzialità ideali, che, se condivise con fiducia, aiutano a formare una personalità equilibrata e ricca di valori umani.
"Avvenire" dell'8 agosto 2009
Un fenomeno recente
RispondiEliminaInvìcredilbile ma... sessant’anni fa gli adolescenti non esistevano come gruppo generazionale a sé! La parola "adolescente" è diventata di uso comune intorno all’epoca della seconda guerra mondiale. Prima dell’età industriale, gli adolescenti lavoravano in campagna con i genitori finché si sposavano e veniva loro dato o ereditavano un pezzo di terra. L’adolescente non cercava la propria identità: era un contadino a partire dal momento in cui era abbastanza grande da lavorare nei campi. Era un bambino o una bambina finché si sposava; dopo, il bambino diventava un adulto.