08 luglio 2009

Quale politica senza antropologia?

di Vittorio Possenti
I problemi di identità umana sono oggi più importanti dei problemi di etica: così sostiene il filosofo tedesco Jürgen Habermas. Condivido e traduco: le questioni antropologiche risultano più decisive di quelle morali. Uomo, chi sei? È sempre più difficile rispondere a questa domanda, ma è anche sempre più importante: non vi è alcuna antropologia che non sia politicamente rilevante in maniera estesa.
Dobbiamo prendere coscienza di un fatto singolare: se per lunghe epoche le fondamentali questioni sono state teologiche, adesso abitiamo in un tempo in cui i problemi centrali riguardano l’uomo.
Nazismo e comunismo sovietico pur così diversi erano accomunati da un errore radicale sull’essere umano. Il fatto che le concezioni dell’uomo siano molte e tra loro in conflitto crea nuovi problemi nella sfera pubblica: non solo il pluralismo antropologico si aggiunge al noto pluralismo etico, ma il primo risulta me- no gestibile in quanto neuroscienze, evoluzionismo, biotecnologie producono a getto continuo un’alta instabilità e pluralità dell’immagine dell’uomo.
L’effetto è uno stordimento in cui non è chiaro dove rivolgerci, mentre vi è bisogno di una ’stabilizzazione antropologica’ al momento ardua, e che può provenire da un’immagine filosofica e religiosa dell’uomo. Ma per varie filosofie l’idea di una verità sull’uomo è diventata poco interessante.
L’acuta centralità della questione antropologica dovrebbe rinnovare il nostro quadro concettuale e le fondamentali urgenze. Ne segnalo due. A lungo si è ritenuto che per risolvere i problemi della vita civile sia necessaria un’etica pubblica capace di regolare i dilemmi morali che incalzano; un’etica capace di esprimere un minimo comune denominatore che consenta di con-vivere e non solo di coabitare. Questa posizione, pur mantenendo validità, non è sufficiente: tanti problemi scottanti non possono ricevere soluzione adeguata senza un’intuizione sull’uomo, e lo stesso consenso etico richiede di trovare un terreno comune sull’uomo. Questa presa di coscienza sconcerta al punto che alcune posizioni vorrebbero lasciarla da parte e mantenersi rigorosamente entro il perimetro dell’etica, incorrendo però in un rifiuto del principio di realtà, tanto alta è l’impossibilità di procede- re se non siamo almeno in parte d’accordo su chi sia l’uomo. La bioetica e i suoi comitati sono costantemente alle prese con questioni del tipo: l’embrione è un ’signor nessuno’? Il malato di Alzheimer una quasi- persona? Il soggetto in coma vegetativo persistente una non-piùpersona? Che cosa si deve intendere per dignità della persona?
Destinata all’irrilevanza o alla negatività appare dunque la politica senza l’antropologia, che entra dovunque: dalla famiglia al matrimonio, dalle biotecnologie ai diritti umani. Da qui scaturisce la seconda urgenza: reintrodurre l’antropologia nella politica, da cui la concezione liberale moderna dello Stato l’aveva espulsa. Dopo l’epoca classica dell’illuminismo e del liberalismo che ancora era ispirata dall’idea di natura umana e di ’diritti naturali’, storicismo, tradizionalismo, positivismo rifiutarono qualsiasi norma di tipo antropologico attestante una natura dell’essere umano. Il liberalismo politico contemporaneo si è reso conto tardivamente del problema ed ha cercato di rimediare, ricorrendo però ad una nozione ’ridotta’ di persona. Tale è la strada adottata da John Rawls e da Martha Nussbaum che, procedendo secondo una definizione delle funzioni e capacità della persona, è esposta alla difficoltà di cogliere in maniera integra la sua realtà. Il liberalismo contemporaneo non è ancora riuscito a superare il gap antropologico anche per il sospetto che nutre per l’idea di natura umana. Esso enumera e difende i beni del cittadino, non quelli dell’essere umano come tale. Il suo orientamento antropologico si condensa in alcuni punti tra cui: la persona non esisterebbe prima e indipendentemente dalla relazione; essa sarebbe un costrutto culturale in cui l’elemento biologico e sessuato non ha peso; la dignità della persona dipenderebbe da un’attribuzione di valore che compiamo in base ad una decisione, ma che rimane non giustificata. Questi assunti derivano dalla scepsi sul concetto di natura umana, ritenuto convenzionale e nominale. Altre correnti si rendono conto dell’impatto del problema, ma cercano di decostruire il concetto di persona, ritenuta un’ideologia che separa diritto e vita ( Roberto Esposito ), oppure adottano teorie futuribili affabulatrici in cui l’uomo non ha alcuna natura ma si autoprogetta senza limiti ( Aldo Schiavone ).
La grande controversia contemporanea sull’humanum , che dà il segno specifico alla nostra epoca, va orientata verso una ’seconda svolta’. Come le religioni da varie decine d’anni entrano nuovamente nella sfera pubblica dopo secoli in cui in Europa furono decisamente privatizzate, lo stesso dovrebbe valere per l’idea di uomo e di 'natura umana': il carattere dei dilemmi contemporanei le riconduce alla ribalta dopo il lungo periodo in cui si era deciso di neutralizzarle. Ma chi raccoglierà la sfida e offrirà la soluzione? Il maggiore fattore di 'consenso' antropologico è tuttora il cristianesimo, non lo scientismo che piuttosto forma un canone materialistico e perfino disfattistico dell’uomo.
Anzi il principale contributo che il cristianesimo come fede e come cultura offre alla società è più un’immagine dell’uomo che un consenso etico: l’idea di un essere dotato di logos, di spirito immortale, di una ’natura’ sua propria in cui si radica la sua ricerca del bene, dell’altro e di Dio. In tal modo l’idea di natura umana viene richiamata in servizio come base dei diritti umani e della dignità della persona. Il liberalismo tradisce la sua origine se emargina questa idea come superata e 'metafisica'.
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Jürgen Habermas
(1929-), filosofo e sociologo tedesco. Nel suo libro « Il futuro della natura umana. I rischi di una eugenetica liberale » ( Einaudi), ha condannato la « strumentalizzazione della vita » attraverso gli esperimenti sugli embrioni umani, invitando i legislatori e la comunità scientifica a limitare l’attività ai fini terapeutici.
John Rawls
(1921- 2002), filosofo americano, tra i più importanti esponenti del liberalismo politico nel ’ 900. All’interno di uno Stato pluralista come quello moderno, per sciogliere nodi come i conflitti in campo bioetico Rawls auspica un « consenso per intersezione » al fine di elaborare decisioni il più possibile condivise.
Martha Nussbaum
(1947-), filosofa statunitense, studiosa di etica e filosofia politica, propone un approccio metodologico che cerca di determinare quali principi di base, e conseguentemente quali adeguate misure, possano dare luogo a una vita umana dignitosa.
Roberto Esposito
(1950-), filosofo e storico delle dottrine politiche, nel suo libro « Terza Persona » ( Einaudi), propone un superamento del concetto cristiano di « persona » , in favore di un’indagine sulla categoria di « impersonale » , come via per riattingere l’originaria unità dell’essere vivente.
Aldo Schiavone
(1944-), storico e saggista, è sostenitore di una visione in fieri della « persona » , e del fatto che i dilemmi bioetici che sorgono nelle zone grigie create dalla tecnica non possono essere risolti appellandosi al principio di indisponibilità della vita.
«Avvenire» dell’8 luglio 2009

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