27 luglio 2009

I diritti dell’uomo nella tradizione ebraico-cristiana

In questo studio, letto alla tavola rotonda sui diritti dell’uomo indetta a Oxford dall’Unesco (11-19 novembre 1965), l’autore dimostra come soltanto la fondazione in Dio della libertà conferisce ai diritti dell’uomo un valore proprio e inalienabile, preservando dalle aberrazioni che la riflessione culturale teologicamente sradicata ha drammaticamente prodotto nella storia
di Cornelio Fabro
La ricerca dei diritti dell’uomo è la scoperta che l’uomo fa di se stesso nel destino sempre aperto del suo «essere-nel-mondo». La caratteristica di questa ricerca su se stesso, a differenza di quella che l’uomo intraprende sul mondo e su Dio, è (o sembra) che qui l’interrogante o l’interrogato, il soggetto o l’oggetto od anche — in senso ancor più forte — il contenente e il contenuto coincidono in quanto alla fine è l’uomo che parla e giudica dell’uomo, ossia di se stesso. Eppure non si tratta affatto di un circolo vuoto o di una vana tautologia: lo sarebbe forse se l’uomo fosse una semplice «cosa», come gli esseri che si trovano nel mondo e che sono totalmente oggettivi come elementi della natura, e lo sarebbe anche se l’uomo fosse Dio ovvero l’Assoluto come spirito ch’è totalmente soggettivo ossia possesso pieno e perfetto della propria libertà.
L’uomo si presenta a se stesso e nello sviluppo della cultura come posto «in mezzo» fra la natura e Dio, come convergenza e tensione di oggettività e soggettività e quindi come ambiguità del rapporto ch’egli ha da istituire con la natura e (eventualmente) con Dio. L’uomo ha perciò da conoscere se stesso nella tensione di questa libertà che sta a fondamento dei suoi diritti come singolo e come nucleo esigenziale della socialità in cui e chiamato a vivere e ad esplicare le proprie possibilità (1).
È comunemente accettato che il mondo classico greco-romano ha considerato l’uomo in rapporto al mondo e come immerso nella natura, secondo quella che si potrebbe dire ad un tempo la prospettiva cosmica ed estetica del suo essere, prendendo questi termini nel più largo margine intenzionale quando si pensa soprattutto all’opera dei massimi filosofi greci di cui non ha cessato e non cessa ancora di alimentarsi la nostra civiltà. Non a torto Hegel, dal punto di vista che intendiamo appena suggerire, ha classificato per naturale e naturalistica la religione orientale e greca nella quale la divinità altro non è che la proiezione o rappresentazione delle molteplici e sconcertanti forze della natura the si dirigono verso e contro l’uomo (2). Non si vuol dire con questo che il mondo greco, che costituisce la prima forma organica (Gestalt) del regno della ragione, ignori la richiesta della libertà e dei diritti dell’uomo — basti ricordare sia l’etica aristotelica e soprattutto quella stoica che prelude al cristianesimo e si rivolge all’uomo essenziale senza distinzione di classi, sia il passo decisivo fatto in questo senso dal diritto nomano — ma s’intende solo di precisare che la tipica concezione di quel mondo non aveva né lo spazio vitale né i mezzi per realizzare tale libertà perché tanto l’uomo come gli dèi erano bloccati nella loro volontà dalla necessità (αναγχη, μοιρα - fatum) invadente del cosmo. La vanità di ogni aspirazione era sigillata dalla chiusura della storia secondo la legge cosmica dello «eterno ritorno» grazie alla quale ogni civiltà — qualunque fosse stato il suo splendore — non poteva evitare il proprio tramonto per lasciare il posto ad una nuova la quale avrebbe ripetuto il medesimo ciclo.
Così la libertà umana, di cui si sentiva con crescente passione l’urgenza indispensabile, finiva per essere travolta anch’essa dalla «ruota» del divenire cosmico: «fortuna» e «caso», cioè l’assenza di ogni consistenza sia nel positivo come nel negativo dell’esistenza, si dividono nel mondo classico le vicende della storia e nessuno alla fine ha più diritto di lamentarsi e di dolersi, poiché gli stessi dèi dovevano piegarsi davanti alla ineluttabilità del fato: ad Enea, dopo la caduta di Troia, non resta che portare con sé in Italia i «vinti penati» (3). In questo senso, con la terminologia kantiana, si potrebbe dire che il mondo classico ha conosciuto ha libertà fenomenica, ma non quella noumenica: esso ha ben intravisto i diritti dell’uomo come un bene universale per tutti e per ciascuno, che scaturisce dall’istinto della sua natura razionale, ma sembra non sia riuscito a superare l’orizzonte del tempo perché questo era chiuso nella necessità cosmica, come si è detto. Si deve tuttavia riconoscere la generosità di questo sforzo per attingere la libertà da parte del pensiero classico: la sua opera non è stata ne vana né inutile poiché esprimeva, sia pure con molta fatica e non senza difetti e lacune, la comune aspirazione dell’umanità che voleva riscattarsi dal mondo fisico della violenza: per questo non a caso, l’etica e il diritto che sorgeranno nelle vane scuole cristiane nel mondo greco e latino faranno largo posto, ancor prima della Scolastica latina, ai principi della concezione classica dell’uomo.

Preludio ebraico alla libertà cristiana
Quest’osservazione preliminare, e quasi semplicemente interlocutoria, potrebbe avere un doppio significato per mettere a fuoco l’argomento del nostro studio. Anzitutto, non solo la concezione cristiana, che muovendo dall’Oriente aveva aperto davanti a sé il destino dei popoli dell’Occidente, non respingeva ma si avvaleva delle aspirazioni e dei contributi del mondo classico: ma si può ammettere che anche la concezione ebraica quale si esprime nei libri sacri del vecchio Testamento, non ignora le aspirazioni e i risultati che si erano manifestati nel complesso e grandioso ciclo dei popoli semitici sia di quello sviluppatosi nel medio Oriente dal quale precisamente si era mosso Abramo per venire nella terra promessa, come di quello egiziano sviluppatosi nella terra del Nilo dalla quale si muoverà il massimo legislatore Mosè per fare ritorno alla terra dei padri. Poi — e questo significato non è in fondo che un approfondimento del primo — questo convergere di mondi apparentemente opposti alla concezione ebraico-cristiana dell’uomo come quello orientale estrabiblico e quello classico estracristiano tolgono all’opposizione stessa il carattere di una rigorosa separazione e suggeriscono un’affinità che si potrebbe chiamare in divenire ovvero in continuo progresso sul piano esistenziale della libertà.
È sempre l’irresistibile aspirazione alla libertà che lega insieme le invocazioni bibliche rivolte a tutte le nazioni per il ritorno a Dio, quali si leggono p. es. specialmente nei salmi e nei profeti, e le dichiarazioni della Pacem in terris di Giovanni XXIII sulla fratellanza di tutti gli uomini e sulla eguaglianza di tutti i popoli. Ciò suggerisce, ci sembra, un’interrogazione ed una risposta od un’osservazione più propriamente introduttoria al nostro preciso argomento: il carattere chiuso ed esclusivo, ch’è ritenuto proprio della concezione ebraica, come poteva provocare e continuarsi nella concezione universalistica ch’è propria del cristianesimo? Come mai una «chiusura» così qualificata qual è data dalla scelta ben precisa di un popolo segregato da tutti gli altri, poteva trasformarsi in un’apertura universale ch’è un invito a tutti i popoli senza distinzione di razza e di origine? L’osservazione che l’interrogazione suggerisce è semplice e fondamentale, cioè quella che la distinzione o segregazione presente, invocata nella concezione ebraica, ha carattere storico e strumentale il cui fine è di preparare l’avvento di quella libertà di tutti e di ognuno ch’è il dono e il diritto di ogni uomo per riconoscersi uguale nella comunità universale.
Il complesso problema dei diritti dell’uomo è diversamente sentito, com’è ovvio, nelle varie civiltà e nei diversi periodi della stessa civiltà e questo vale anche per la costellazione etico-religiosa a cui si limita il nostro scritto: il progresso innegabile che segna indubbiamente la dichiarazione dell’ONU è venuto al termine di un lungo processo di maturazione nella concezione della persona umana, superando la violenza delle esagerazioni sia del collettivismo come dell’individualismo. Avremmo potuto seguire o l’ordine indicato nel testo della dichiarazione dell’ONU approvato il 10 dic. 1948 la quale proclama (in continuità con la dichiarazione dei «diritti dell’uomo» della Rivoluzione francese) che tutti gli uomini nascono liberi e uguali in dignità e nei diritti. Oppure si potevano prendere in esame e discutere le situazioni esistenziali di diritto che hanno suscitato maggiori conflitti nella storia: quali i problemi interessanti l’esercizio della libertà, della schiavitù, la posizione della donna, la libertà di religione, il principio della tolleranza, ecc. Ci è sembrato che questa seconda via fosse la più indicata per la sua maggior aderenza alla vita vissuta: ma, data la straripante ampiezza e complessità dei temi concreti, ci siamo limitati a rilevare il senso che ha avuto e deve avere nella tradizione ebraico-cristiana il diritto fondamentale alla libertà, che ha avuto la sua formula negativa nel problema della «schiavitù», ossia della situazione che investe in proporzioni variabili e nelle forme più insidiose ogni epoca ed ogni forma di civiltà dai secoli più remoti fino ai nostri giorni.
Nulla meglio dell’epopea biblica della creazione ci dà l’idea, più di qualsiasi tipo di mitologia, dell’unità del genere umano e quindi di quell’universalità radicale dei diritti dell’uomo per i quali oggi la coscienza di tutti i popoli e su tutti i continenti e impegnata come mai nella storia dell’umanità (4). Senza dover fare opera strettamente teologica, noi possiamo dal racconto biblico della creazione e dei primordi dell’umanità rilevare i seguenti caratteri che costituiscono quella che si può chiamare la struttura ontico-esistenziale dell’uomo: A) la creazione universale secondo tutte le dimensioni dell’esistenza (di tempo e spazio); B) la caduta universale secondo le dimensioni totali della storia di oggi e sempre; C) la libertà universale secondo l’esigenza universale senza distinzioni (5).
A) Nulla meglio del nucleo biblico della creazione può presentare sia l‘inconfondibile dignità dell’uomo che fa capo alla sua spiritualità e libertà, sia i limiti ch’egli con l’abuso di questa libertà ha causato a se stesso mediante la caduta e la perdita della grazia e di alcuni fra i privilegi originari che Dio gli aveva concessi fin dal primo momento della creazione stessa.
Come molti altri racconti di popoli semitici, ma con maggior sobrietà e dignità, la Bibbia attribuisce a Dio l’origine dell’uomo. Il tratto principale del racconto biblico della creazione ha due o tre momenti:
a) l’uomo è creato soltanto da Dio, senza intermediari: il corpo è formato con le mani di Dio dalla terra e l’anima gli è infusa direttamente da Dio ed ha quindi una natura strettamente spirituale;
b) la creazione e un atto assolutamente nuovo e libero: non è quindi un processo di emanazione necessaria da parte di Dio, né in senso classico (emanatismo neoplatonico), né in senso moderno (dottrina degli attributi di Spinoza, armonia prestabilita di Leibniz, creazione eterna per identità dialettica di finito e Infinito secondo l’idealismo metafisico trascendentale di Fichte-Schelling-Hegel...);
c) la creazione dell’uomo ha carattere assolutamente universale, poiché Adamo è il primo uomo padre di tutti gli uomini dal cui corpo Dio trae il corpo di Eva che sarà la madre di tutti gli uomini: e da questa prima coppia, secondo il racconto biblico, l’origine di tutto il genere umano e i figli di questa coppia andranno via via occupando tutti i continenti (6) (Cfr. Gen. 3, 20 e la genealogia di Gen. 4, 1, 17-24; Sap. 10-1; Act. 17, 26; Rom. 5, 12). Secondo gli esegeti, il termine hâ-âdam ch’è usato nel racconto della creazione ha significato collettivo ed abbraccia tutto il genere umano ed è insieme un singolo nella linea del quale nascerà poi Noè (Gen. 5, 1-28,32); abbraccia quindi non solo uomini e donne, ma anche tutte le razze che poi saranno disperse ai quattro punti dell’orizzonte. Nulla quindi nel racconto biblico dell’androgino ipotizzato di Platone e da alcuni rabbini: la donna è creata da Dio per essere l’aiuto di Adamo come «ossi dei suoi ossi, carne della sua carne» (Gen. 2, 21,23) cioè come il complemento indispensabile e la compagna della sua vita. Allora, uguali nella natura, tutti gli uomini sono uguali nei diritti e la donna — anch’essa corpo e spirito come Adamo — ha gli stessi diritti fondamentali dell’uomo, benché sia destinata nella costituzione della famiglia a essere soggetta a lui. La fonte pertanto dell’uguaglianza degli uomini è la loro comune natura e la comune origine nella comune destinazione di occupare la terra e di godere liberamente dei suoi frutti. I progenitori inoltre, secondo il racconto del Genesi, godevano anche di una particolare amicizia di Dio il quale aveva creato per loro uno speciale giardino di delizie perché l’uomo «lo lavorasse e custodisse» (Gen. 2, 15) e nel quale non disdegnava di scendere anche lui e di trattenersi con la prima coppia come un padre con i figli (Gen. 3, 8).
B) La caratteristica della condizione dell’uomo nella narrazione biblica, che sta a fondamento della concezione ebraico-cristiana è precisamente il suo carattere ontico-esistenziale che sta a fondamento dei suoi attributi metafisici. L’uomo è certamente un essere spirituale, ma non si è fatto da sé, non si è fatto dal nulla; questi concetti propri del mito sono completamente assenti dal testo biblico. L’uomo invece è creato direttamente da Dio, mediante un atto libero di Dio il quale delibera prima di creare e crea per pura generosità: per questo il filosofo mussulmano Avicenna ha potuto affermare che Dio è l’agente perfettamente liberale; che a Dio solo compete di donare per pura generosità.
Il racconto biblico ha perciò un carattere strettamente personale: non solo nel senso che Dio opera nella creazione come persona, ma che Egli si comporta anche in seguito come persona, lasciando l’uomo nel possesso e nel libero uso delle perfezioni e dei diritti che gli aveva concessi. Ciò si vede alla evidenza del racconto della caduta la quale fa il «pendant» da parte dell’uomo alla creazione da parte di Dio. Cerchiamo di mettere a fuoco le implicazioni esistenziali del racconto biblico, che si stacca nettamente sia dalle mitologie del mondo semitico e classico sulle origini, come anche dalla concezione del pensiero moderno. Carattere comune infatti alle concezioni mitiche è sia il dualismo metafisico sia l’antropomorfismo: Dio non è padrone dell’essere come tale, ma esprime solo l’aspetto positivo della luce che lotta contro le tenebre e il male che è il suo eterno antagonista. Dio opera perciò a guisa d’uomo nell’arco e nelle dimensioni del tempo e non in arce aeternitatis; nella sua azione poi Dio è nel mito soggetto a una catena, più o meno lunga, d’intermediari. Di qui la libertà, sia in Dio come nell’uomo, è gravemente handicappata e limitata per il fondo oscuro e insuperabile al quale essa resta legata e condizionata. Di conseguenza anche la caduta dell’uomo che si può presentare in quelle narrazioni mitiche, ha carattere di necessità cosmica ineluttabile e inevitabile ed è perciò privata del carattere suo più deciso di valore e responsabilità morale.
Parimenti, nella concezione del pensiero moderno, la possibilità e la realtà della caduta viene concepita non come atteggiamento della persona, ma come la finitezza dell’essere umano ed è identificata senz’altro con essa: una concezione analoga, nell’età moderna, è il radikales Bösen neben dem Guten di Kant (7) che rinnova nella sfera razionale il dualismo costitutivo della concezione mitica e identifica la libertà con la razionalità.
Invece il racconto biblico dell’origine del peccato e del male è tutto situato nella sfera della trascendenza e della libertà. Il peccato è commesso davanti a Dio e contro Dio, è commesso con reale consapevolezza da parte dell’uomo. Il peccato è commesso in tensione di libertà: nella triplice tensione dell’uomo con Dio, con se stesso e col mondo. È commesso come crisi e caduta della libertà in duplice direzione verso la natura esterna, ch’è rappresentata dal frutto dell’albero proibito, e verso la natura spirituale, ch’è rappresentata dal tentatore cioè dallo spirito decaduto e nemico di Dio (sotto l’apparenza del serpente). Mai dramma, concepito da mente umana, si avvicinò per la profondità veramente trascendentale delle sue dimensioni al doloroso realismo ed insieme alla grandezza spirituale del racconto biblico dove l’uomo può ben contendere con Dio e ribellarsi a lui, ma non può salvarsi senza il suo misericordioso intervento. Con la caduta di Adamo ed Eva è caduto tutto il genere umano, cosi che ogni uomo contrae dalla nascita nel suo spirito una debolezza congenita a fare il bene e un’inclinazione umiliante al male nelle passioni dell’orgoglio e della concupiscenza. Tutto il Genesi si diffonde, spesso con crudo realismo, nel racconto delle prevaricazioni dell’uomo nelle sue prime età. Contro l’esplicito senso del racconto biblico, lo gnosticismo moderno afferma invece con Kant che la natura umana non ha subito lesione alcuna e che nulla è cambiato da allora fino ad oggi. Infatti Kant dichiara nella piena maturità del suo pensiero e per analogia con l’esperienza: si deve «presupporre» (voraussetzen) che la natura (umana) al suo primo inizio non era né migliore né peggiore di quel che la troviamo oggi». (8) Siamo perciò agli antipodi della concezione biblicoteologica.
C) Di qui — cioè dalla qualità sia della creazione come della caduta dell’uomo — si possono afferrare tanto il senso come le dimensioni della libertà dell’uomo, la quale dà il fondamento e il senso dei suoi diritti dai quali deriva la possibilità della sua vita e la realtà stessa della storia. E si tratta senza dubbio di una «libertà universale» sia per intensità come per estensione, non però nel senso kantiano e moderno che identifica libertà con spontaneità (Autonomie, Ich denke überhaupt, du sollst...) e perciò finisce per coincidere con la necessità. L’universalità della libertà nel racconto biblico è infatti attestata dal fatto che Dio mette l’uomo ad una «prova» di obbedienza (Gen. 2, 16): l’affermazione della dipendenza nella libertà dal fatto che Adamo ed Eva fanno la scelta ciascuno per proprio conto (Gen. 3, 2 ss., 6): l’affermazione della libertà nella responsabilità dal fatto che Dio rimprovera del tutto Adamo ed Eva separatamente (Gen. 3, 9 ss., 13); affermazione della caduta dal fatto che Dio castiga Adamo ed Eva come responsabili del loro peccato (Gen. 3, 16 ss., 23 s.); affermazione della sanzione dal fatto che la libertà nell’alternativa di bene e di male riappare subito nei primi due figli dei progenitori, Caino ed Abele, ed il senso della libertà è confermato dalla condanna e dal castigo inflitto al fratricida Caino. Inoltre è in una forma che si potrebbe dire «a raggio universale» che Dio col castigo del diluvio ha inteso mostrare ancora la sua disapprovazione per l’abuso della libertà da parte dell’uomo ed iniziare un nuovo patto con un gruppo umano, quello di Noè, che fosse a Lui più fedele. Il patto verrà rinnovato, con un piano storico più preciso, con la vocazione di Abramo col quale si dà inizio al «popolo messianico».

Fondazione in Dio dei diritti dell’uomo
Due sono i poli della libertà umana e sono gli stessi due protagonisti della «storia sacra» a cui ci siamo riferiti: si potrebbe dire che questa storia, nell’avanzare drammatico e sconvolgente dei primi nove capitoli del Genesi (la «Historia primaeva»), procede per fatti essenziali i quali suggeriscono dei doveri e diritti essenziali per l’uomo. Li accenniamo in forma schematica, per mettere in maggior risalto la loro evidenza in forma quasi assiomatica e dialettica: per il fatto che Dio ha creato l’uomo dal nulla, Dio nella concezione biblica ha e mantiene il diritto assoluto (di governo e di giudizio) sull’uomo come primo Principio e ultimo Fine: l’uomo non può essere l’ultimo Fine di se stesso, benché debba operare (tutto) allo sviluppo e al perfezionamento di se stesso (Gen. 2; 15; per il fatto che Dio ha infuso nell’uomo lo «spirito della vita» (Gen. 2, 7) ed ha creato l’uomo «a sua immagine e somiglianza» (Gen. 1, 26), l’uomo è dotato di un’attività spirituale e libera ed ha quindi il diritto fondamentale, ed a suo modo assoluto, delle libere scelte in tutta la sfera del reale, anche di rifiutare Dio e di scegliere contro Dio: di fronte alla natura, di fronte agli altri uomini e di fronte a Dio stesso. E l’uomo, come si è visto, non ha mancato di valersi subito di tale diritto, ma purtroppo a suo danno; infine per il fatto che Dio ha creato l’uomo libero e per il fatto che l’uomo ha subito abusato della sua libertà e per l’evidenza della storia questi è portato più all’abuso che non al buon uso della libertà. Tali contesti mostrano che l’uomo non si può salvare da sé, ossia che l’uomo non può salvare l’uomo. C’è quindi nella concezione biblica una concezione della libertà dell’uomo estremamente dialettica la quale ha, come e chiaro, la sua corrispondenza nella concezione dei diritti dell’uomo: da una parte la libertà dell’uomo è essenzialmente indirizzata a Dio, come prima Causa, col quale nessun altro principio può competere, e come ultimo Fine col quale nessun altro bene può paragonarsi. Ma, d’altra parte, è appunto questo assoluto rapporto all’Assoluto che libera la libertà dell’uomo nel pieno possesso di se stessa (9). Ed è precisamente siffatta fondazione in Dio, ed essa unicamente, che conferisce ai diritti fondamentali dell’uomo un Valore proprio e inalienabile.
Però, si deve subito aggiungere, in virtù del principio della creazione la concezione ebraico-cristiana dei diritti dell’uomo introduce una distinzione fondamentale, quella fra diritto oggettivo e diritto soggettivo. Il diritto oggettivo è quello di conformità al dovere che risulta dall’ordine metafisico costituito dalla creazione stessa ed è espresso mediante una precisa legge naturale che l’uomo poi esplicita ed applica mediante l’uso retto della ragione. Il diritto soggettivo, invece, è l’inalienabilità della libertà propria dell’uomo in quanto tale: esso permette all’uomo non solo di fare il bene, ma anche di scegliere il male, di ribellarsi a Dio ecc., e sta a fondamento della sua responsabilità e consapevolezza.
L’ambito del diritto oggettivo (naturale) è quello appunto della legge naturale secondo la quale tutti gli uomini, per la loro comune origine ed in virtù della comune natura spirituale, sono sullo stesso piano. Su questo piano, pari sono riconosciuti nella Bibbia i diritti fondamentali fra i due sessi, fra i popoli di varie stirpi e fra individui della stessa società: quali il diritto alla vita, alla famiglia, alla proprietà richiesta per vivere, all’esercizio delle proprie libertà. È condannata quindi in radice la schiavitù, la guerra di pura conquista, la discriminazione morale dei sessi…
Se non che — e questo è molto importante da notare — in virtù del carattere teocentrico della religione biblica e della caduta dell’uomo, questi può subire una diminuzione di siffatte libertà a titolo di castigo. Così di Canaan, che aveva deriso il padre Noè, è detto: «Maledictus Canaan, servus servorum erit» (Gen. 9, 25). La stessa soggezione della donna all’uomo ha il carattere di castigo (Gen. 3, 16). Com’è noto, presso il popolo ebraico, come presso gli altri popoli semiti, era consentita la schiavitù soprattutto dei popoli conquistati, ma la legislazione mosaica domandava la mitezza e la clemenza del padrone, in ricordo di quanto i padri avevano sofferto nella schiavitù di Egitto (Dt. 5, 15). Quanto poi ai servi ebrei, essi nell’anno sabbatico dovevano essere lasciati in libertà e accompagnati con abbondanti doni: «Gli farai parte delle benedizioni che l’Eterno, il tuo Dio, ti avrà elargite. E ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che l’Eterno, il tuo Dio, ti ha redento» (Dt. 15, 12-15). Nell’antica legislazione, il servo fa parte della famiglia e, se circonciso, può mangiare l’agnello pasquale (Ex. 12, 44). Nel codice che regola più particolarmente questa materia, non solo il padrone non ha sui servi diritto di vita e di morte, ma se ne sarà la causa, è reo di delitto; se il avrà feriti, dovrà rimandarli liberi (Ex. 21, 2-27). La letteratura talmudica sviluppa la casuistica di questa legislazione, specialmente fra gli schiavi che non erano di origine ebraica: pagani e cristiani. Infatti nel Medio Evo, specialmente in Spagna, molti giudei si arricchirono col mercato di schiavi cristiani (sec. X-XV) specialmente dell’Andalusia, ai quali imponevano la circoncisione (10).

Cristianesimo e libertà civile
L’insegnamento fondamentale del nuovo Testamento e che la vera schiavitù è quella del male e del peccato che rende l’uomo servo del mondo e della concupiscenza e l’allontana da Dio ed è solo la grazia di Criisto che fa l’uomo veramente libero (Rom. 6, 17-18): S. Paolo, tutto proteso alla liberazione dello spirito dal peccato, sembra non dare eccessiva importanza alla libertà civile, pur raccomandandola: «Ognuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato. Sei tu stato chiamato essendo schiavo? Non curartene, ma se puoi divenir libero è meglio valerti dell’opportunità. Poiché colui che è stato chiamato dal Signore, essendo schiavo, è un affrancato dal Signore; parimenti colui ch’è stato chiamato essendo libero, è schiavo di Cristo. Voi siete stati riscattati a prezzo: non diventate schiavi degli uomini. Fratelli, ognuno rimanga dinanzi a Dio nella condizione nella quale si trovava quando fu chiamato» (I Cor. 7, 2 1-24).
Nel nuovo Testamento, perciò, benché non si possa trovare una condanna esplicita della schiavitù, brilla chiara come mai in nessuna etica o religione l’affermazione della fratellanza e dell’amore in Dio per Gesù Cristo di tutto il genere umano, di tutti i popoli e di tutti gli uomini: essa supera qualsiasi precetto ed impone non solo di trattare il servo come fratello, ma di amare perfino i nemici e di fare loro del bene (Mt. 5, 21 ss.). S. Paolo proclama che tutti gli uomini battezzati formano un solo corpo di cui Cristo è il Capo, siano essi servi o liberi (ειτε δουλοι ειτε ελευθεροι I Cor. 12, 13. Cf. Eph. 6, 5-9; Gal. 3, 28; Col. 3, 22-24).
Lo stesso S. Paolo, nella commovente lettera a Filemone, prende le difese dello schiavo fuggitivo Onesimo e nel rimandarlo convertito a Filemone gli raccomanda di perdonarlo e di riceverlo «non più come schiavo, ma come fratello diletto» (v. 16).
La mancanza di una condanna esplicita della schiavitù come tale può avere serie ragioni: 1) il Signore ha lasciato alla Chiesa lo sviluppo dei suoi insegnamenti secondo le opportunità e possibilità dei tempi; 2) l’abolizione immediata della schiavitù nell’impero romano, qualora fosse stata possibile, avrebbe portato alla disgregazione della società nelle sue istituzioni fondamentali; 3) la Chiesa nei primi secoli (di persecuzione) era tutta penetrata della speranza della prossima venuta di Cristo e dell’avvento del suo Regno. Così l’assestamento della società terrena poteva avere scarsa importanza.
È chiaro poi che la Chiesa non disponeva dei mezzi esteriori per fare quella immediata trasformazione; essa raccomandava ai padroni di trattare gli schiavi come fratelli e ai servi di vedere nei padroni, come in generale nell’autorità, l’autorità di Dio e Cristo stesso. Non deve sorprendere se la storia della liberazione dalla schiavitù nel mondo cristiano orientale ed occidentale, fino alla sua abolizione nel secolo XIX, sia molto complicata nelle sue leggi e incerta nei suoi passi. Va rilevato che la Chiesa nella sua interna costituzione abolì, fin dai primi tempi, ogni discriminazione in conformità del detto di S. Paolo (Gal. 3, 28). Nella Chiesa primitiva gli schiavi godevano di tutti i diritti, privilegi, facoltà degli altri fedeli liberi; partecipavano senza discriminazione alcuna alle assemblee liturgiche, ed una volta liberati potevano diventare chierici e anche vescovi.
È noto che papa Callisto I portava le stimmate di schiavo fuggitivo; molti schiavi e schiave convertirono alla fede i loro padroni e contribuirono alla propagazione del Vangelo; molti incontrarono il martirio (per esempio le sante Felicita e Blandina, Potamiena..., i santi Teodulo, Agricola e Vitale, Proto e Giacinto).
Ma la Chiesa cercò anche di risolvere sul piano civile e politico il problema della schiavitù. Così si adoperò in tutti i tempi per emancipare coloro che per diritto di guerra o per altri motivi eran divenuti schiavi, alienando e vendendo per tale scopo anche i vasi e le suppellettili sacre, adoperandosi come poteva perché i padroni lo facessero spontaneamente. Non meno efficace fu l’influsso della morale e della spiritualità cristiane sulle cause prossime della schiavitù condannando la cupidigia dei piaceri e delle ricchezze, nobilitando gli affetti familiari per impedire l’esposizione dei bambini e soprattutto nobilitando il lavoro con l’esempio di Gesù Cristo e degli apostoli.
L’influsso della concezione cristiana sul riconoscimento di diritti fondamentali dell’uomo ebbe la sua espressione giuridica sia negli Atti dei Concili, sia nella legislazione degli imperatori cristiani: già nel Codex Theodosianus, e poi con Giustiniano, sono emanate ben precise disposizioni che facilitano in ogni modo la liberazione degli schiavi e che mitigano con privilegi, concessioni, diritti di asilo e protezione le condizioni degli schiavi. Il movimento di liberazione continuò in tutto il Medio Evo e si estese alle genti barbariche del Nord che accettavano l’influsso della Chiesa e del diritto romano fino a far scomparire in pratica la schiavitù antica e a concepire nuove forme di dipendenza più consone alla crescente consapevolezza della dignità dell’uomo.

Precarietà del diritto avulso da Dio
La perdita totale dei valori di libertà faticosamente conquistati dal mondo moderno nella scia della fratellanza universale, secondo la concezione biblica e gli sforzi della predicazione della giustizia e carità cristiana, furono radicalmente negati e travolti sia dalla «lotta di classe» (Klassenkampf) fondata sulla violenza fisica e morale da parte del comunismo ateo, sia dalla dottrina della razza del nazionalsocialismo germanico che portò agli errori della seconda guerra mondiale. Ma il disumano errore non poteva vincere e così al prezzo di fiumi di sangue e di lacrime, di montagne di macerie e di distruzioni, l’uomo ha riconquistato una libertà più profonda ed una consapevolezza phi matura della propria dignità che egli oggi deve difendere contro la minaccia dei nuovi e vecchi totalitarismi. L’immensità stessa delle sofferenze della guerra ha contribuito ad avvicinare le diverse classi sociali e a ridurre le loro opposizioni. La sua estensione ha coinvolto, più o meno direttamente i popoli di tutti i continenti, ha mostrato agli uomini la necessità di una unità supernazionale che fosse in grado di superare ogni barriera di razza, di religione e di cultura per ritrovarsi insieme nello sforzo di costruire un mondo pin giusto ed umano. Di qui l’orizzonte si è finalmente schiarito nel fatto più saliente del nostro tempo: cioè la proclamazione della Carta dei diritti dell’uomo da parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (1948).
Ci si può domandare però se l’affermazione di tali fondamentali diritti sia riportata ad un adeguato fondamento ontologico che garantisca il loro valore universale secondo un senso assoluto che non vada soggetto ad alcun arbitrio. Essi sono bensì presentati come appartenenti alla natura umana. Però la stessa natura umana, quando sia lasciata a se stessa senza essere riferita ad un’origine trascendente in Dio come Spirito puro ch’è creatore del mondo e padre di tutti gli uomini, può ammettere una pluralità di interpretazioni varie ed opposte le quali mettono in pericolo od almeno in continua contestazione l’esistenza ed il senso di quei «diritti», con le rispettive applicazioni in campo sia etico come sociologico-politico. Senza un riferimento al primo Principio trascendente, anche il «concetto dell’uomo» si dissolve nella costellazione storica (è zeitbedingt): allora ogni principio dell’azione umana si risolve in un patto o convenzione storica contingente la cui consistenza resta sempre precaria e non va più in là di una vaga aspirazione. In siffatta mancanza di orizzonte, la stessa affermazione basilare della libertà si dissolve in una vaga aspirazione ch’è incapace di determinare nella pratica dei rapporti individuali, sociali e politici, le proprie istanze: per esempio il diritto di proprietà, indispensabile allo sviluppo della persona come centro originario di libertà, non può prescindere dalle esigenze sociali; la libertà religiosa non può fondarsi sul presupposto dell’eguaglianza di valore (che porterebbe necessariamente al giudizio d’indifferenza) di ogni religione, ecc.
Il razzismo nazista vedeva nell’uomo concepito come «creatura di Dio» dalla concezione ebraico-cristiana il principale nemico da abbattere. Esso celebrava, con più o meno ragione, come suoi ispiratori i formatori della coscienza tedesca nella rivolta contro l’ortodossia religiosa cristiano-cattolica, cioè gli esaltatori della «coscienza germanica»: Eckhart, Böhme, Lutero, Leibniz, Herder, Hegel, Nietzsche, Ranke, Spengler, Bismarck, H. Chamberlain… Al posto dell’universale dignità e fratellanza di tutti gli uomini, esso ha sostituito la separazione in virtù del «mito del sangue» (Blutmythus) che doveva consacrare la razza germanica al dominio del mondo sul fondamento del faustiano: «Io voglio e basta!» (Allein, ich «will») (11).
Anche se non siamo ancora in grado di valutare tutta la portata reale che ebbero nella realtà queste pazze parole e le insensate idee ch’esse esprimevano, possiamo perô in qualche modo affermare che senza lo sfondo culturale dei filosofi della linea germanica, ora indicato, difficilmente esse avrebbero avuto tanta presa sul popolo germanico e potuto esaltarlo nella grande maggioranza oltre i limiti dei sentimenti più elementari dell’umanità. Quando si pensa alla glorificazione della «azione pura» di Goethe (Am Anfang war die Tat); quando si ricorda la celebrazione hegeliana dello «Spirito germanico» (germanischer Geist) come lo spirito del nuovo mondo il cui scopo è la realizzazione della Verità assoluta come l’autodeterminazione assoluta della verità, che ha per contenuto la sua stessa forma assoluta (12) che doveva sostituirsi alla concezione cristiana; quando si ricorda la proclamazione frenetica della «vo1ontà di volere» (Wille zum Wille) come «volontà di potenza» (Wille zur Macht) di Nietzsche..., non si può non ricercare le responsabilità più sostanziali che implicano — almeno sotto qualche aspetto — un’intera tradizione culturale. Si tratta di rendersi conto che il pensiero moderno, a cominciare proprio col cogito cartesiano, rimette nelle mani della volontà e dell’azione le sorti della verità dell’essere e del senso dell’uomo (13). Allora, se l’essenza della cultura moderna è il volontarismo, non tocca meravigliarsi se poi la verità è identificata con l’azione e il diritto con la forza, come — dopo il crollo del nazismo — continua ora a fare il comunismo mondiale ateo, erede di Hegel e Feurbach. Non a caso pertanto un po’ dovunque le esigenze più profonde dell’umanità reagiscono al fondo filosofico di questa cultura che ha portato il mondo sull’orlo dell’abisso.
La crisi del mondo è una crisi di diritti in quanto e insieme una crisi di doveri ed è una crisi di doveri in quanto prima è una crisi delle fondazioni cioè dei princìpi, che le filosofie del «puro umano» chiuso, nell’orizzonte umano e terrestre, hanno fatto vacillare. Un’esigenza radicale ed elementare di salvezza sospinge oggi il fondo della coscienza di tutti gli uomini — con la fine del colonialismo e con esso di tutti i residui della schiavitù — ad invocare una giustizia più umana per attuare la pace. Perciò la coscienza dell’umanità in questo periodo postbellico, si apre all’esigenza del dialogo e del colloquio nel senso e consenso di una fraternità universale qual è stata promossa da John F. Kennedy e da Giovanni XXIII, il papa dell’enciclica Pacem in terris.
Ma il compito è ben lungi dall’essere finito: anche oggi il mondo trepida per la pace ed ognuno di noi deve assumere la propria responsabilità.

Note

(1) Cfr. C. Fabro, Dall’essere all’esistente, II ed., Brescia 1965. / (2) Hegel, Phänomenologie des Geistes VII, A e B; Hoffmeister 481 ss. - Cfr. anche: Philosophie der Religion, Jubiläumsausgabe Bd. XV, p. 279 ss.; ed. Lasson Bd. XIII, 2, spec. p. 77 ss. / (3) cfr. S. Agostino, De Civ. Dei, lib. I, c. 3 ove si cita Virgilio: «Gens inimica mihi Tyrrhenum navigat aequor - Ilium in Italiam portans victosque penates» (Aen. I, 71-72). / (4) Cfr. P. Van Inschoot, Théologie de l’Ancien Testament, Bibi. de Théol., Series III, vol. 4; Paris-Tournai 1956, spec. ch: 1. - Cfr. anche: G. Pidoux, L’homme dans l’Ancien Testament, Cahiers théologiques 32, Neuchâtei-Paris 1953. / (5) Alcuni elementi fondamentali del problema si trovano indicati da Fr. Delitsch, System der biblischen Psychologie, Leipzig 1855, p. 123 ss. (§ 3, Die Freiheit); G. Kittel, Theol. Wörterb. z. Neuen Testament, s.v. ανθροπος Bd. I, p. 365 ss. (Joach Jeremias); spec. δουλος Bd. II, p. 264-283. (Rengstorf - art. ampio ma puramente espositivo); ελευθεροι ibid. pp. 484-500 (Schlier: art. accurato per l’aspetto teologico). / (6) La concezione del Genesi rimane inalterata nella tradizione ebraico-cristiana: essa è ripresa espressamente in Eccl. (17, 3.4) che ribadisce il potere dell’uomo su tutta la natura, mentre in Sap. (2, 23-24) la somiglianza con Dio è messa in rapporto con l’immortalità felice che egli ha perduto per l’invidia del diavolo. Dio ha creato l’uomo per l’immortalità e l’ha fatto immagine della propria eternità (ελευθερος di Epiph., Athan. mantenuta da Ralphs, mentre Sweete segue i Codici Sin., A, B e Clem. Alex. Cfr. P. Van Inschoot, Op. cit., p. 11, n. 2. / (7) Cfr. Kant, Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft, I Stück, Reclam e Vorländer 17 ss. / (8) Kant, Mutmasslicher Anfang der Menschengeschichte (1786): «Congettura» (Mutmassung), osserva Kant, è tutt’altro che pura finzione romanzata: congettura è opera di ragione che intende portarsi aldilà della stona, al punto dove finiscono i documenti della storia (alla Urkunde, Urgeschichte). / (9) Che la divina Onnipotenza creatrice, lungi dall’essere una limitazione, come ha preteso il deismo e poi soprattutto Kant, lo ha dimostrato Kierkegaard in un mirabile testo del Diario (Papirer 1846, VII A 181; tr. it., II ed., Brescia 1963, t. I, p. 512 ss.). / (10) J. Abelson, Slavery, in «Hasting’s Encyclopedia of Religion and Ethics», t. XI, p. 620 b-621 a. Per la recente messa a punto del problema, v. la Enciclopedia Cattolica, t. IV, coll. 1698-1702 («Diritti dell’uomo»: A. Messineo); t. XI, coll. 48-49 («La schiavitù nel mondo antico»: N. Turchi); coll. 49-50 («La s. nella Bibbia»: A. Penna); coll. 50-55 («Il Cristianesimo e la s.»: F. Crosara). / (11) A. Rosenberg, Der Mythus des 20. Jahrhunderts, Eine Wertung der seelisch-geistigen Gestaltenkämpfe unserer Zeit, München 1941, p. 699. - Sull’ateismo di fondo della cultura, e in particolare della filosofia moderna, come processo inevitabile del principio d’immanenza, v. ora il nostro: Introduzione all’ateismo moderno, Roma 1964. / (12) Hegel, Philosophie der Weltgeschichte, Lasson 763. Hegel, com’è noto, identifica il fatto col diritto, la verità col «risultato» della storia, e quindi l’accusato col giudice secondo il principio preso da Schiller che lo «Spirito del mondo» (Geist der Welt) attua il proprio diritto nella «storia del mondo come giudizio del mondo» (Weltgeschichte als Weltgericht. - Cfr. Grundlinien der Philosophie des Rechts, § 340; Hoffmeister 288. Il principio è sviluppato come conclusione della Philosophie der Weltgeschichte, Lasson 937 s.). / (13) Cfr. al riguardo il saggio magistrale di M. Buber, Das Problem des Menschen, in «Dialogisches Leben», Zürich 1947, p. 319 ss.
«Studi Cattolici», n. 66, settembre 1966, pp. 4-12

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