08 luglio 2009

Democrazie fasulle

di Edoardo Castagna
Si va a votare a scadenze fisse. C’è un parlamento, ci sono magistrati la cui indipendenza è scritta nera su bianco su carte costituzionali impeccabili. Ci sono diversi mezzi d’informazione, di diverso colore politico, e ci sono diversi partiti che concorrono alle elezioni. C’è tutto quello che ci dovrebbe essere, insomma, perché si possa parlare di democrazia: eppure, questi Paesi democrazie non sono. Rispettano, apparentemente, tutti i crismi della forma democratica, ma ne tradiscono la sostanza: è impossibile mandare a casa chi sta governando. Dittature, di fatto, ma più difficili da additare chiaramente come tali perché si mimetizzano dietro a paraventi politico-istituzionali formalmente identici a quelli delle vere democrazie. Queste pseudo-democrazie si concentrano in alcune aree geopolitiche, nelle quali si registrano preoccupanti tendenze all’imitazione del modello: così in Sudamerica ha progressivamente assunto queste caratteristiche il Venezuela di Hugo Chávez: dopo aver fallito un golpe, il portabandiera del 'bolivarismo', come ama definirsi, ha vinto regolari elezioni nel 1999; da allora, in questi dieci anni ha progressivamente smantellato il bilanciamento dei poteri e i contrappesi del Venezuela democratico, riducendo sempre più lo spazio di manovra delle opposizioni, ingabbiando i media e ritoccando a proprio favore la Costituzione. Le sue pose demagogiche e populistiche ottengono l’effetto di cementare il consenso intorno alla sua figura: ma si tratta di un consenso spurio, viziato alla fonte dalla mancanza di contraddittorio. Un esempio, quello di Chávez, che sta allettando diversi suoi vicini, dal boliviano Evo Morales all’ecuadoriano Correa, anche se il processo di involuzione autoritaria negli altri Paesi 'bolivariani' è ancora in corso e potenzialmente reversibile. Nettamente più radicato è l’autoritarismo in lustrini 'democratici' in gran parte dei Paesi dell’ex Unione Sovietica: tolti i Baltici, democrazie perfettamente compiute fin dalla ritrovata indipendenza, e i Paesi che guardano l’Unione europea nei quali, dalla Georgia all’Ucraina, il processo di affermazione della piena democrazia appare ben avviato, negli altri l’autoritarismo è un dato di fatto, con i meccanismi elettorali distorti a vantaggio del regime in carica. A partire dalla stessa Russia, dove il potere di Vladimir Putin è al riparo da ogni pericolo: la stampa conserva un certo pluralismo, ma la sua incidenza è molto scarsa, sommersa da un’informazione televisiva enormemente più seguita e saldamente in mano governativa; i partiti d’opposizione sono appena visibili, mentre esercito, magistratura e oligarchie economiche convergono tutti verso la corte del nuovo zar. Su un’identica falsariga si muovono i suoi emuli tanto in Europa, dove la Bielorussia di Aleksandr Lukašenko vanta il poco invidiabile primato di essere l’ultima dittatura del Vecchio continente, quanto in Asia. In Kazakistan Nursultan Nazarbaev può vantarsi di essere stato l’ultimo capo della repubblica socialista sovietica e il primo presidente della repubblica 'democratica' indipendente, al potere ininterrottamente dal 1984 e dal 1991 regolarmente incensato da elezioni plebiscitarie (l’ultima volta, nel 2005, ha conteggiato il 91,15% dei 'consensi').
Identica la parabola del suo omologo in Uzbekistan, Islom Karimov, in sella dal 1990, mentre in Turkmenistan soltanto la morte ha costretto il padre della patria, Saparmyrat Nyýazow, a passare la mano al suo delfino. Appena un po’ più movimentata la vita politica del Tagikistan , vivacizzata da un colpo di Stato e comunque dal 1994 nella mani del 'democratico' presidente Emomalii Rahmon, e del Kirghizistan, dove nel 2005 moti di piazza hanno costretto Askar Akaev a cedere la ribalta a un suo discepolo, mentre l’Azerbaigian sperimenta la democrazia ereditaria; alla morte di papà Heydar Aliyev, nel 2003, il trono è passato al figlio prediletto Ilham.
Il brevetto del meccanismo, tuttavia, va alla Siria, con Bashar Assad 'democraticamente' eletto dopo la morte di papà Hafiz. Il Medio Oriente è una delle aree dove le pseudo-democrazie prosperano. Tolti Israele e il sempre fragile Libano, questo modello è anzi l’unico presente accanto alle dittature militari (Libia l’ultima superstite) e agli assolutismi monarchici, più o meno islamisti (dalla 'moderata' Giordania ai chiusissimi sultanati del Golfo Persico). In questa regione, i formalismi della democrazia hanno preso il posto della retorica marxista che negli anni della decolonizzazione aveva condito il monolitismo dei blocchi al potere, ma la sostanza non è cambiata: chi governa è inamovibile, l’opposizione ridotta a mero simbolo, mezzi di comunicazione, esercito e magistratura asserviti. Così lo Yemen è monopolio dal 1990 del pluririeletto Ali Abd Allah Saleh, l’Egitto dal 1981 di Hosni Mubarak – che del resto non fa che confermare la tendenza alla presidenza a vita già manifestata da Sadat e Nasser prima di lui; la Tunisia dal 1987 di Zine El-Abidine Ben Ali, a sua volta erede di Bourgiba; l’Algeria dal 1999 di Abdelaziz Bouteflika.
Nulla di diverso in Indocina: accanto agli ultimi cascami comunisti (Laos, Vietnam), militaristi (Birmania) o islamisti (Malesia), Cambogia, Singapore e Thailandia sembrano proprio non riuscire a dar concretezza all’impalcatura istituzionale democratica che si sono dati.
Ancor peggio le cose vanno nell’Africa nera: qui, tolte rare eccezioni come il Senegal, la Namibia o il Sudafrica, l’autoritarismo mascherato da democrazia pare essere l’unica alternativa all’autoritarismo puro e semplice. Nel lungo elenco dei regimi mascherati da democrazie si trovano purtroppo anche alcuni dei più grandi e popolosi Paesi della regione, primo fra tutti la Nigeria dove il blocco di potere costituito intorno al Partito democratico del popolo è tanto impermeabile a eventuali scossoni da aver consentito più di una staffetta ai vertici tra i propri esponenti. Molto noto in Occidente il caso di Robert Mugabe, padrone ('democratico' ovviamente) dello Zimbabwe fin dal 1987, ma non da meno sono i suoi omologhi Blaise Compaoré, capo del Burkina Faso dallo stesso anno, Idriss Déby, presidente in Ciad dal 1990, o l’ancor più inossidabile Paul Biya, al potere in Camerun dal 1982 e da allora costantemente rieletto. Ma lo schema non fa che ricorrere; dal Congo a Gibuti passando per Guinea Equatoriale, Gabon, Gambia, Mozambico, Ruanda, Seychelles, Tanzania e Uganda, l’unica variante è tra la presidenza a vita dello stesso personaggio e la staffetta al potere di esponenti del medesimo blocco di potere, sostanzialmente intercambiabili senza che nulla cambi.
«Avvenire» del 5 luglio 2009

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