Le celebrazioni rettamente intese
di Francesco D’Agostino
L’anno ' darwiniano' è ormai giunto alla metà del suo corso e quasi tutte le iniziative assunte per celebrare degnamente il padre dell’evoluzionismo sono state realizzate o comunque presentate.
Non è ancora tempo di consuntivi, ma qualcosa è già possibile rilevare: la vivace connotazione antireligiosa, anzi esplicitamente ateistica, ribadita ed esasperata negli ultimi mesi da molti darwiniani, ha fatto ben poca presa sull’opinione pubblica, che continua a lasciarsi affascinare più dal Darwin ' naturalista' che dal Darwin anticreazionista: per verificarlo basta visitare la grande mostra allestita a Roma per celebrare il viaggio intorno al mondo del Beagle e osservare la reazione del pubblico e in particolare quella dei giovani. Anche così si può toccare con mano il fatto che le ragioni del credere ( o del non credere) non dipendono assolutamente dalla biologia. I conti col darwinismo la Chiesa li ha fatti da tempo: si tratta ovviamente di conti da rimettere continuamente a punto, ma comunque ben radicati in una duplice convinzione: la religione non ha titolo per sindacare la lettura scientifica della natura e la scienza non ha titolo per sindacare la pretesa ( strettamente religiosa) che il mondo abbia un senso, in quanto prodotto dall’opera creatrice di Dio. La Chiesa non ha mai condannato Darwin ( evitando così di ripetere l’errore del caso Galileo), né Darwin, da parte sua, ha mai avuto la pretesa di ' condannare' la fede. Non solo la Chiesa, ma anche i darwiniani ( o almeno i meno dogmatici tra essi) continuano a fare i conti con Darwin e in particolare con la possibilità di costruire, a partire dalla prospettiva evoluzionistica, un’etica. Non è vero – sostengono molti ' darwiniani' – che il darwinismo costruisca un’immagine del mondo vivente caratterizzata solo da una spietata lotta per vita; solidarietà, affettività, cooperazione sono riscontrabili nella natura di tante specie animali, tanto quanto aggressività, sopraffazione, predazione. Il senso morale dell’uomo avrebbe anch’esso una radice ' evolutiva'. Le indicazioni in tal senso si stanno moltiplicando e appaiono senza dubbio interessanti.
Altra cosa è se siano convincenti. Chiaramente, siamo tutti contenti di apprendere che i bonobo ( o scimpanzé pigmei) sono ' buoni', come da anni continua a ripeterci Frans de Waal. Possiamo pure commuoverci quando leggiamo che nello zoo di Chicago un gorilla femmina di otto anni, Binti, ha messo generosamente in salvo un bimbo di tre anni che era caduto nello spazio di esibizione dei primati.
Che da queste narrazioni si possa dedurre però qualcosa di eticamente concludente mi sembra ben difficile. C’è infatti un punto irrisolto in tutte le etiche darwiniane: quando si manifesta ( ad es. in un bonobo) un comportamento ' malvagio' ( ed ammettiamo pure che sia non coerente con i caratteri altruistici della specie di riferimento) siamo legittimati a condannarlo moralmente o, astenendoci da ogni condanna, dobbiamo interpretarlo come una variante ( sia pur minoritaria) del modo ' naturale' di essere del singolo individuo? Il cuore del problema è tutto qui. A noi, che non siamo né biologi né naturalisti, interessa moltissimo conoscere la dinamica dell’evoluzione delle specie, ma ci interessa ancora di più conoscere qualcosa dell’animo delle singole persone, di quegli individui in carne ed ossa che ci stanno di fronte: vogliamo capire perché alcuni di essi siano operatori di pace e vivano nell’amore e perché altri tra essi si radichino nell’odio e esaltino la guerra; vogliamo sapere se sia giusto lodare e ammirare i primi, condannare e biasimare i secondi. A una domanda del genere Darwin non dà risposta ( né ha mai inteso farlo). È che l’etica ha ben poco a che fare con le generazioni di individui che si evolvono nei millenni; ad essa interessano solo i singoli individui, che vivono poche decine di anni. Darwin aveva, grazie alla sua straordinaria intelligenza scientifica, occhi adeguati a percepire solo le dinamiche delle specie. È per questo che per l’uomo comune, che non ha l’intelligenza di Darwin, ma ne condivide l’umanità ( cioè la percezione delle paure e delle speranze, dei dolori e delle gioie degli uomini), Darwin è un nome nella storia della scienza, un nome grandissimo, ma nulla di più.
Non è ancora tempo di consuntivi, ma qualcosa è già possibile rilevare: la vivace connotazione antireligiosa, anzi esplicitamente ateistica, ribadita ed esasperata negli ultimi mesi da molti darwiniani, ha fatto ben poca presa sull’opinione pubblica, che continua a lasciarsi affascinare più dal Darwin ' naturalista' che dal Darwin anticreazionista: per verificarlo basta visitare la grande mostra allestita a Roma per celebrare il viaggio intorno al mondo del Beagle e osservare la reazione del pubblico e in particolare quella dei giovani. Anche così si può toccare con mano il fatto che le ragioni del credere ( o del non credere) non dipendono assolutamente dalla biologia. I conti col darwinismo la Chiesa li ha fatti da tempo: si tratta ovviamente di conti da rimettere continuamente a punto, ma comunque ben radicati in una duplice convinzione: la religione non ha titolo per sindacare la lettura scientifica della natura e la scienza non ha titolo per sindacare la pretesa ( strettamente religiosa) che il mondo abbia un senso, in quanto prodotto dall’opera creatrice di Dio. La Chiesa non ha mai condannato Darwin ( evitando così di ripetere l’errore del caso Galileo), né Darwin, da parte sua, ha mai avuto la pretesa di ' condannare' la fede. Non solo la Chiesa, ma anche i darwiniani ( o almeno i meno dogmatici tra essi) continuano a fare i conti con Darwin e in particolare con la possibilità di costruire, a partire dalla prospettiva evoluzionistica, un’etica. Non è vero – sostengono molti ' darwiniani' – che il darwinismo costruisca un’immagine del mondo vivente caratterizzata solo da una spietata lotta per vita; solidarietà, affettività, cooperazione sono riscontrabili nella natura di tante specie animali, tanto quanto aggressività, sopraffazione, predazione. Il senso morale dell’uomo avrebbe anch’esso una radice ' evolutiva'. Le indicazioni in tal senso si stanno moltiplicando e appaiono senza dubbio interessanti.
Altra cosa è se siano convincenti. Chiaramente, siamo tutti contenti di apprendere che i bonobo ( o scimpanzé pigmei) sono ' buoni', come da anni continua a ripeterci Frans de Waal. Possiamo pure commuoverci quando leggiamo che nello zoo di Chicago un gorilla femmina di otto anni, Binti, ha messo generosamente in salvo un bimbo di tre anni che era caduto nello spazio di esibizione dei primati.
Che da queste narrazioni si possa dedurre però qualcosa di eticamente concludente mi sembra ben difficile. C’è infatti un punto irrisolto in tutte le etiche darwiniane: quando si manifesta ( ad es. in un bonobo) un comportamento ' malvagio' ( ed ammettiamo pure che sia non coerente con i caratteri altruistici della specie di riferimento) siamo legittimati a condannarlo moralmente o, astenendoci da ogni condanna, dobbiamo interpretarlo come una variante ( sia pur minoritaria) del modo ' naturale' di essere del singolo individuo? Il cuore del problema è tutto qui. A noi, che non siamo né biologi né naturalisti, interessa moltissimo conoscere la dinamica dell’evoluzione delle specie, ma ci interessa ancora di più conoscere qualcosa dell’animo delle singole persone, di quegli individui in carne ed ossa che ci stanno di fronte: vogliamo capire perché alcuni di essi siano operatori di pace e vivano nell’amore e perché altri tra essi si radichino nell’odio e esaltino la guerra; vogliamo sapere se sia giusto lodare e ammirare i primi, condannare e biasimare i secondi. A una domanda del genere Darwin non dà risposta ( né ha mai inteso farlo). È che l’etica ha ben poco a che fare con le generazioni di individui che si evolvono nei millenni; ad essa interessano solo i singoli individui, che vivono poche decine di anni. Darwin aveva, grazie alla sua straordinaria intelligenza scientifica, occhi adeguati a percepire solo le dinamiche delle specie. È per questo che per l’uomo comune, che non ha l’intelligenza di Darwin, ma ne condivide l’umanità ( cioè la percezione delle paure e delle speranze, dei dolori e delle gioie degli uomini), Darwin è un nome nella storia della scienza, un nome grandissimo, ma nulla di più.
«Avvenire» del 28 maggio 2009
Molto interessante. Complimenti, io vi seguo sempre. Buona giornata.
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