27 aprile 2009

C’è chi fugge dalla storia come Rimbaud nell’Africa nera e chi canta il Grande Nulla

di Giancarlo Pontiggia
Si sente spesso dire che la modernità, fondata com’è sulla necessità di una comunicazione rapida e semplice, su valori di natura esclusivamente emotiva, escluda la tensione di una scrittura retoricamente e stilisticamente – se non concettualmente– troppo impegnativa, com’è la poesia; e si sente spesso dire, all’opposto, che il mondo è troppo vasto e complesso per una forma, come quella poetica, fondata sulla sintesi, incapace dunque di ramificarsi e di espandersi nell’infinita varietà dei pensieri e delle situazioni cui il mondo ci obbliga. Tali osservazioni sono a tal punto divenute luogo comune della conversazione, che molti poeti contemporanei hanno sentito il bisogno di muoversi verso la prosa ( La poesia verso la prosa è d’altronde il titolo di uno dei saggi più impegnativi di Alfonso Berardinelli), quasi volessero nascondere l’essenza stessa del verso conservandone soltanto lo scheletro visivo, il movimento del puro andare a capo, ma negando ad esso tutto ciò che è stato il fondamento di ogni poesia: l’alleanza tra suono e senso, tra pensiero e immaginazione.
Intanto bisognerebbe chiedersi chi le dice, queste cose, e perché: non sempre siamo disinteressati, quando vogliamo dimostrare qualcosa, e spesso le nostre teorie sottintendono ragioni private.
Come gli amanti respinti, che sparlano delle donne che non possono avere, molti negatori della poesia, e soprattutto di certa poesia, sembrano animati da un rancore personale: sviliscono ciò che non è loro dato; irridono a coloro che l’hanno ottenuto.
Altri, poi, esprimono un livore che è figlio di un’ideologia giovanile: la giovinezza ci abbandona, la storia muta, ma noi continuiamo a restare fedeli a quell’aura lontana, quando eravamo dominati dai furori antiborghesi, e la poesia ci pareva confinata nelle assai sospette stanze della sovrastruttura. Niente è più terribile di ciò che resta in noi inconcluso, per ragioni pubbliche o private. Che la poesia sia morta, come il romanzo o chissà che altro, appartiene in fondo all’ordine delle profezie che piacciono perché ci fanno immaginare grandi palingenesi: come se la nostra vita non ci piacesse, e volessimo altro da quello che abbiamo.
C’è poi un terzo ordine di negatori della poesia: i figli della presunzione, dell’inquietudine modernista, ben rappresentati dalle avanguardie, storiche e non: quelli, insomma, che iniziano incitando a bruciare i musei, e finiscono col pennacchio in testa nelle accademie fasciste. L’elogio della modernità a tutti i costi, quando non è il prodotto di un avventurismo senza scrupoli, può nondimeno nascere dalla presunzione – spesso adolescenziale – di aver compreso tutto: Rimbaud fu il campione indiscusso di questa genealogia, e anche il più grande, l’unico – forse – ad essere coerente con se stesso, scegliendo di sparire al momento giusto.
Quel geniale giovanotto dal volto così nobilmente ovale, che aveva preso sulle ginocchia la bellezza, ingiuriandola, aveva anche saputo voltare le spalle all’Europa e all’Occidente. Lo si ama ancora, lui e nessun altro, proprio per questo; perché ci sono due soli modi di coerenza, nel mondo, che andranno onorati: o credi in coloro che hanno fatto cose grandi e sublimi, e pensi che dalla loro grandezza possa discendere anche la tua; oppure non ci credi, e volti le spalle a tutto, scegli di andartene dalla storia, di rientrare in un’Africa nera della volontà che non ha più a che fare con la poesia come con le stanze confortevoli di una città, con i diritti dell’uomo, e con tutto quello che ne discende.
C’è infine, forse il più insidioso, un quarto genere di nemici, sia pure paradossali, della poesia: e sono coloro che la innalzano e la assolutizzano a tal punto, da trasformarla in una sorta di fortino o di eremo sacerdotale, spesso votato alla percezione del Grande Nulla. Per questi poeti non si dà né bene né male, né bello né brutto: la poesia esclude legami, parentele, connessioni, finalità; è pura rappresentazione di sé, volta al silenzio e all’indicibile: compimento di un destino che dovrebbe prevedere, se volessimo andare fino in fondo, l’atto estremo: la cancellazione di ogni parola.
Personalmente, pensiamo che l’uomo assomigli sempre a se stesso, e che nessuna storia possa togliergli, se non per poco tempo – per quella misteriosa eccitazione, che tocca certe epoche, di vendicarsi del proprio passato e di ribellarsi alla propria condizione –, quello che gli appartiene per natura: la brama del divino, la tensione a un ordine umano e intellettuale fondato sulla verità, il bisogno di bellezza, il desiderio di un sapere organico e non casuale. La poesia è sempre figlia di queste necessità: nasce prima della prosa, non a caso, in ogni civiltà, perché racchiude in sé il sogno di una parola meditata e conclusa, che sappia narrare favole assolute, ragionare della vita, esprimere fulminee verità di ordine esistenziale, rappresentare il destino, ridere dei nostri difetti. I Greci, questo popolo stupefacente dal quale è giunto tutto ciò che serve alla vita dell’anima e della mente, seppero disegnare una grande varietà di forme poetiche (epos guerresco e avventuroso, epos didascalico e filosofico, lirica, tragedia, commedia), cui aggiunsero la prosa, anch’essa splendidamente declinata in forme molteplici e variegate: poiché esistono argomenti, come essi presto intuirono, che necessitano di un pensiero ampio e analitico, racconti che devono essere lunghi e liberi da ogni vincolo. La prosa non è contro la poesia: la prosa è ciò che non è la poesia, e che la poesia non può fare. Negare l’una sarebbe come negare l’altra. Sia onorato chi difende la poesia, facendola o studiandola: i poeti che – e sono oggi tanti – pretendono di snobbare gli studi (salvo, naturalmente, quelli che li riguardano), cancellano soltanto la poesia che essi stessi fanno. Ma saranno veri poeti coloro che non comprendono la bellezza e la verità degli studi?
«Avvenire» del 1 febbraio 2009

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