01 luglio 2008

Rosselli, fragilità della libellula

di Roberto Cicala
La tragica scomparsa di Amelia Rosselli, una fredda mattina di febbraio di dodici anni fa, interroga ancora. Ciò avviene mentre nuovi studi sull’opera non accomodante dell’autrice rivelata da Pasolini e Vittorini aprono squarci sul velo che spesso ricopre i difficili rapporti della poesia con la musica contemporanea o con la psicanalisi, ma anche con la seconda guerra mondiale. Qui infatti affondano le radici di questa figlia della tragedia, fin dall’assassinio fascista del padre Carlo e dello zio Nello quando aveva soltanto sette anni, nel 1937, che è alle origini di una fuga vissuta sino all’ultimo salto senza ritorno. Aveva previsto che «nel cimitero non sa smettere di essere felice». A dirigere un fascio di luce sulla vertigine di una poetessa fuori dagli schemi è Andrea Cortellessa con un volume collettaneo anch’esso fuori dagli schemi, già nella dimensione (la collana è la sua intrigante 'Fuoriformato' edita da Le Lettere) all’insegna di La furia dei venti contrari, come ci indica il titolo: quei «venti contrari» che la Rosselli ha sempre cercato di ascoltare e riprodurre sulla pagina. Dopotutto, postilla il curatore, «non solo appaiono eccessive, per molti letteralmente insostenibili, la tragicità della sua biografia e l’altezza della sua opera poetica; anche da un punto di vista tecnicamente editoriale prescrive condizioni estreme». In effetti fu solo l’Alberto Mondadori della parabola anticommerciale del Saggiatore ad accontentarla per la sua Serie Ospedaliera, con un formato protocollo e caratteri da macchina da scrivere, in parte ripresi nel volume per il testo della Libellula. «Libellula», essere libero, è l’autrice stessa, fragile in un mondo popolato da «elefanti ottusi» dove non c’è posto per la speranza, definita «un danno forse definitivo».
Anche quando confessa «mi truccai a prete della poesia ma ero morta alla vita» dimostra la sofferenza ossessiva del suo verso, del suo ritmo, con una coscienza addirittura etica e quasi monacale, come si dice nel bel video biografico allegato al libro. È stata «libellula» anche per volare lontano dal verso libero del Novecento: pur legata alla tradizione (da Dante a un poeta puro come Campana), sembra fuggire dal ’900 in cui vive da straniera («io rimo per un altro secolo»: è dunque tempo di ascoltarla!). Straniera è pure la sua lingua poliglotta fondata sui lapsus. Perciò è centrale il rapporto con lo psicanalista Ernst Bernhard, attestato dai documenti ritrovati, con cui si spiega meglio la sua Scrittura plurale, per usare il titolo dei testi raccolti anni fa da Francesca Caputo. Il sottofondo è sempre poco melodioso per lei, che ha orecchio musicale sensibile alle dissonanze, rilevatore del mondo in crisi. Lo mettono in luce gli inediti emersi, che fanno cadere l’ipotesi del suicidio causato dalla ferita, aggiunta alle altre, del silenzio creativo. Invece era tornata a scrivere, ma per lei «tutto il mondo è vedovo se tu non muori». Così, questo poeta isolato dal passo incerto che non si dimentica, per usare un’espressione di Betocchi per l’appartato Rebora, seguì la sua amata Silvia Plath nella morte che segna l’ultimo capitolo della sua tragedia e dalla sua fuga ma che lascia un’eredità consapevole. Il conforto è che molte nuove ricerche hanno giovani come protagonisti e che il suo ricordo investe molti poeti di oggi - da Buffoni a Cucchi, dalla Merini a Piccini, Viviani e Nove - che testimoniano un’eredità, sofferta ma in letteratura mai scontata, leggendo i suoi versi stasera al 'Teatro i' di Milano. Anche il verso quello in cui Amelia chiede: «perdonatemi… è vostra la vita che ho perso».
«Avvenire» del 27 febbraio 2008

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