04 marzo 2008

L’Italia, dittatura di oligarchie

Il governo ha galleggiato finora sulle disfunzioni del sistema politico
di Piero Ostellino
Il «caso Mastella» ha il merito di aver sollevato il velo sulla vera natura del nostro sistema politico (e di poteri). Ma ho l’impressione che il solo ad aver capito di che si tratta, e da tempo, sia Romano Prodi. La nostra non è una democrazia, ma una poliarchia. Non come la poliarchia democratica descritta dal liberal americano Robert Dahl. Un concerto di oligarchie conflittuali, ma temperato da chiare regole del gioco e da uno Stato forte. Formalizzate per legge, in equilibrio grazie a meccanismi istituzionalizzati di pesi e contrappesi e al principio di sussidiarietà fra periferia e centro, sottoposte alla common law, monitorate da centri autonomi come le fondazioni culturali, costantemente esposte al giudizio di media e di un’opinione pubblica severi, le oligarchie sono lo strumento legittimo della democrazia liberal-democratica di massa nella contemporanea società industriale avanzata. Da noi, le oligarchie, occulte o scarsamente formalizzate, operano in uno stato di natura di tutti contro tutti; mancano le regole del gioco e lo Stato è debole; la giustizia è esercitata da una magistratura che è essa stessa una oligarchia che interagisce con le altre, forte della discrezionalità della obbligatorietà dell’azione penale; la cultura e i media sono ancelle delle oligarchie; il cittadino scende in piazza, ma poi torna a eleggere gli stessi. Quello italiano non è un sistema di poteri democratico, ma una demokratura, una dittatura di oligarchie truccata da democrazia. In tale contesto, chi diventa il punto di raccordo fra le maggiori oligarchie - dalle banche e la grande industria privata alle aziende di Stato, dalla Pubblica amministrazione, dai concessionari di servizi pubblici e dalle amministrazioni locali a quella della Giustizia, ai sindacati, ai partiti, alle università, alle Asl e così via - e esercita un ruolo di mediazione fra le stesse diventa il Putin nostrano. Questo è esattamente ciò che ha capito Romano Prodi e questo è, secondo me, il progetto che egli persegue con straordinaria intelligenza strategica e grande abilità politica. Un progetto anti-democratico? Non scherziamo. Prodi non è un potenziale dittatore. È solo l’uomo delle partecipazioni statali, l’ex presidente dell’Iri, che - per cultura, propensione personale e esperienza di vita - ha trasferito a livello politico i criteri di gestione di un organismo che è stato la massima espressione della confusione-collusione fra politica e economia, fra società e Stato. Il suo disegno è solo la razionalizzazione in chiave personale dell’Italia come è, di un sistema politico e sociale che già c’è ed è di totalitarismo morbido. Da noi, nessuno va in galera, ma la democrazia è un’altra cosa. La durata del governo non è l’obiettivo primario del presidente del Consiglio, ma solo il tempo necessario alla realizzazione di un’idea. Il paradosso è che persino chi lo detesta, nella maggioranza e all’opposizione, lo asseconda. Così, il governo ha galleggiato finora sulle disfunzioni del sistema politico e sulla paralisi del Paese. La vera mondezza nazionale. Quella in Campania ne è l’effetto.
«Corriere della Sera» del 19 gennaio 2008

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