07 marzo 2008

Dimenticare Pol Pot

Processo alle porte per l’ex regime Ma in Cambogia nessuno lo vuole
di Ettore Mo
Questo processo non s’ha da fare. Può venire in mente il perentorio avvertimento dei «bravi» di Don Rodrigo a Don Abbondio circa il matrimonio di Renzo e Lucia ogni volta si torna a parlare, qui in Cambogia, del Tribunale speciale che ancora non è riuscito a portare alla sbarra i leader dei Khmer rossi, responsabili del massacro, negli anni Settanta, di un milione e settecento mila persone. Un genocidio. Il progetto di un Tribunale straordinario che si occupasse dei crimini attribuiti al regime di Pol Pot venne lanciato dal Parlamento di Phnom Penh nel gennaio del 2001 e nel giro di tre anni l’Onu adottò una risoluzione che ne definiva le regole, la composizione mista di giudici cambogiani e stranieri, le pene previste, i finanziamenti da ripartire tra i Paesi coinvolti. Dopo tanti rinvii, l’ultima promessa è che dovrebbe entrare in funzione nei primi mesi di quest’anno. Ma chi finirà sotto processo? Ad uno ad uno, i protagonisti dalla cricca di Pol Pot (morto nel ‘98, per attacco cardiaco) se ne sono andati, esausti e quasi dimenticati. Ta Mok, braccio destro del Capo e definito «il macellaio della Cambogia» morì l’anno scorso in prigione, suscitando pure, in qualcuno, sentimenti di pietà. «Era un uomo vecchio e malato - mi dice Kong Sanguar, uomo di cultura che gode di prestigio anche in ambiente politico -, aveva diritto di morire in casa, con la famiglia». È stato tumulato a Pailin, vicino al confine con la Thailandia dove sono concentrati i Khmer rossi, che hanno seguito il corteo funebre in lacrime, tra le preghiere di una settantina di bonzi. Ancora in carcere è Kaing Guek Eav, conosciuto come «camerata Duich», ex insegnante di matematica che divenne direttore del Centro di tortura di Toul Sleng (la collina degli alberi velenosi), trasformata poi in un tetro museo dove si conservano migliaia di teschi delle vittime. Altro «grande» superstite in attesa del processo è Nuon Chea, 82 anni, arrestato l’anno scorso nella sua casa-palafitta di Pailin, con vista sul canale, e portato in elicottero a Phnom Penh, con vista cielo tra le sbarre. Se Duch era manovale della tortura, Chea ne era la mente. Altri due anziani gerarchi della «cricca» sopravvissuti finora impunemente dovrebbero salire (ma non è sicuro) sul banco degli imputati: Khieu Sampan, 76 anni, ex capo di Stato e ministro degli Esteri che nel ‘98 si è «riallineato» col governo di Phnom Penh; e Ieng Sary, alla soglia degli ottanta, che, ottenuto nel ‘96 «il perdono reale» da Sihanouk, promosse la defezione delle unità militari dei Khmer rossi, inglobandole nell’esercito. È comunque diffusa la sensazione, al vertice del potere e nella popolazione, che la Kampuchea Democratica, nata il 17 aprile ‘75 quando i Khmer entrarono a Phnom Penh e durata 3 anni, 8 mesi e 20 giorni, debba scomparire definitivamente dalla memoria dei cambogiani. Kong Sanguar, quando gli chiedo cosa pensa la gente dell’imminente megaprocesso contro gli ex capi dei Khmer rossi, risponde secco: «Intanto che verrà a costare 84 milioni di dollari: soldi sprecati, che sarebbe meglio dare ai contadini e al proletariato rurale che vive di stenti. Oggi, l’uomo forte è Hun Sen, figlio di contadini, che parla e pensa come loro. Nato nel ‘52, a 18 anni obbedisce all’ordine di Sihanouk e va a combattere in campagna, dove perde un occhio. È stato uno dei primi a consegnarsi nel ‘77 ai vietnamiti per sfuggire a Pol Pot e due anni dopo rientra in Cambogia. Oggi, il nostro esercito, che è il più grande del mondo rispetto alla popolazione (13 milioni di abitanti ndr), è nelle sue mani». Tra coloro che non hanno mai caldeggiato l’idea del megaprocesso e non ne attendono con ansia l’apertura c’è Hun Sen, da oltre vent’anni al timone della Cambogia, per il quale l’azione giudiziaria potrebbe riaprire «vecchie ferite» e perfino sfociare in una nuova «guerra civile». Atteggiamento, suggeriscono i suoi avversari, che va interpretato come un debito di riconoscenza verso Khiou Sampan e Noun Chea, fidatissimi alleati e sostenitori di Pol Pot, che ebbero un ruolo determinante nella sua scalata al potere. «Dovete rendervi conto - insiste il nostro accompagnatore Claudio Bussolino, trapiantato qui da anni e felicemente sposato con una cambogiana - che in questo Paese la gente vive nel presente e fa di tutto per ignorare il passato. Non è nella loro cultura né nella loro indole rivangare tempi remoti, comunque già congelati per l’eternità nei libri di storia. Potrà sembrare strano, ma il nome di Pol Pot lo sento fare solo in Italia, quando ci rimetto piede una o due volte l’anno: ma è così». La cautela e determinazione di Phnom Penh nel tentativo di impedire che, con il processo, la catastrofica avventura dei Khmer rossi venga riesumata, trova il consenso delle grandi Potenze: di Pechino che, avendo sostenuto Pol Pot, dovrebbe ammettere la propria corresponsabilità nei massacri commessi; e di Washington, che nel ‘69 scaricò più di 500 mila tonnellate di bombe per far piazza pulita dei Vietcong lungo il sentiero di Ho Chi Min e poi diede manforte ai Khmer in lotta contro il regime di Hanoi. In definitiva, oggi in Cambogia tutti sembrano d’accordo che è necessario scoraggiare turisti e visitatori stranieri dal ripercorrere le tappe del martirio sofferto dalla popolazione negli ultimi cinquant’anni, come il sacrario di Toul Seng, dove sono esposte le foto in bianco e nero dei prigionieri scattate da un giovanissimo fotografo, Nhem En, che con tanti altri superstiti sta ora affrontando le udienze preliminari del processo; o di recarsi in pellegrinaggio all’abitazione del pittore sessantenne Vann Nath, uno dei pochi usciti vivi da Toul Seng, perché potesse ultimare in carcere il ritratto di Pol Pot che gli era stato commissionato: esperienza che ha raccontato in un suo libro di memorie, dove scrive che il maggior supplizio era «ascoltare gli urli di dolore provenienti da ogni angolo della prigione». Non può sorprendere che il Presidente americano Jimmy Carter abbia definito il regime di Phnom Penh «il peggior nemico dei diritti dell’uomo». È infatti catastrofico il programma in otto punti stilato nel maggio del ‘75 subito dopo l’insediamento dei Khmer rossi nella capitale: «Un progetto politico aberrante - dice Bussolino, riassumendo il giudizio degli storici - che prevedeva anzitutto la collettivizzazione forzata dell’agricoltura». Circa tre milioni di persone sono costrette ad abbandonare le città per andare a lavorare nei campi. Vengono applicate tutte le misure coercitive per costruire una società nuova, basata sui principi rigidi del marxismo: chiusura dei mercati, abolizione del denaro, secolarizzazione dei bonzi, eliminazione dei quadri del passato regime, instaurazione di comuni agricole, espulsione dei vietnamiti, il nemico di sempre. Ma dovranno passare 14 anni prima del ritiro totale dei loro reparti dalla Cambogia. All’evacuazione nelle campagne (strazianti le testimonianze che si possono tuttora raccogliere fra gli anziani sopravvissuti) sono seguite, tra il ‘76 ed il ‘77, le purghe di Pol Pot all’interno del partito comunista e dell’esercito contro tutti i sospetti «agenti del Kgb». L’agghiacciante «Direttiva delle tre estirpazioni» prevedeva l’eliminazione totale dei vietnamiti residenti in Cambogia, dei Khmer che parlano vietnamita, dei Khmer con relazioni di famiglia, amicizia o lavoro con vietnamiti. In sostanza, devono essere soppressi quegli individui che hanno «cuore vietnamita in un corpo Khmer». Quasi impossibile un computo preciso delle vittime in quel periodo: ma alla fine Pol Pot venne messo sotto accusa dai suoi stessi uomini ed emarginato. Tirò le cuoia il 15 aprile del ‘98 per «gravi disturbi cardiaci», ma il mistero attorno alla sua morte non è stato ancora chiarito. Il governo di Phnom Penh sottopose le sue ceneri al test sul Dna per confermare che appartenessero veramente al signor Saloth Sar (questo il suo vero nome). Fosse vivo, avrebbe oggi 80 anni: ma credo siano pochi i cambogiani che gradirebbero trovarselo davanti per strada, col berretto verde della guardia rossa di Mao e il sorriso smagliante. «Chi si preoccupa che l’imminente processo agli ultimi, estenuati superstiti del defunto partito - interviene l’editorialista di un quotidiano locale - possa riattizzare antichi rancori e sfociare in un nuovo conflitto è fuori strada. Noi siamo gente che quando ha chiuso il libro non lo riapre più. Pol Pot è morto e se la vedrà coi suoi demoni. Finito e sepolto il regime da lui creato. La Cambogia odierna, come avrà potuto constatare, è ben altra cosa». «Ciò che vedi in questo minuscolo ristorante dove stiamo pranzando - dice l’amico e interprete Kong Sanguar - non offre l’immagine complessiva del mio Paese. Una famiglia normale non potrebbe consumare un pasto su questo tavolo, perché le costerebbe quanto mangiare in casa per due settimane. Ma non è neanche alla portata di ingegneri, medici, docenti universitari. Qui ci trovi solo stranieri, il personale delle ambasciate, i turisti di lusso». E aggiunge: «Per noi rivangare il passato è una perdita di tempo. Non ci sono in noi sentimenti di vendetta, nè vogliamo risarcimenti materiali e morali per i soprusi e le violenze inflittici negli ultimi cinquant’anni. Il problema oggi non è Pol Pot, ma mangiare, tirare avanti. Un pensionato dello Stato prende 10 dollari al mese. E tuttavia, non parliamo di fame, perché qui, grazie al cielo, c’è riso in abbondanza. Ma non si vive di solo riso». Siamo al dolce, ma la litania delle frustrazioni economiche continua: «È aumentato il prezzo della benzina, più di un dollaro al litro. Due anni fa la carne di maiale costava un 1,5 dollari al chilo, ora il prezzo è salito a 4,5. La bombola del gas in un anno è passata da 7 dollari a 19,5. La benzina è più cara in Cambogia che nei Paesi vicini. In questo caso, però, il prezzo è stabilito dalle cinque grandi compagnie petrolifere, come Total e Shell, che fanno il buono e il cattivo tempo, avendo il monopolio...». E come reagisce il governo? Come affronta una situazione economica così precaria? «Abbiamo un governo debole in un Paese che è debole e povero». Ma se la Cambogia ha voltato definitivamente pagina, il comportamento di alcuni leader di quegli anni tumultuosi e cruenti continua ad essere oggetto di speculazioni, polemiche, controversie. Un vortice verbale che avvolge soprattutto la figura del Re Sihanouk, ormai inaccessibile nel suo aureo palazzo, da cui esce raramente e sempre sotto scorta. Rimane tuttora grande perplessità su una sua visita lampo a Phnom Penh il 9 settembre del ‘75, da cui sarebbe ripartito pochi giorni dopo per recarsi all’Onu e in 12 Paesi occidentali in visita ufficiali. È sorprendente che nei suoi colloqui alle Nazioni Unite e negli incontri coi diplomatici stranieri non abbia mai accennato al fatto d’aver trovata la propria capitale completamente vuota, in un’atmosfera spettrale. Non era comunque possibile - questo il commento più ovvio - che egli fosse all’oscuro dello sterminio appena compiuto dai Khmer rossi. Si trattava dopotutto di un genocidio, come sarebbe emerso dalla denuncia di un gruppo di profughi cambogiani presentata il 7 aprile 1976 all’Onu, all’Unesco, alla Lega dei Diritti dell’Uomo e ad Amnesty International. Sarebbe ingenuo attendersi nuove rivelazioni dal processo che dovrebbe iniziare a giorni nel Tribunale di Phnom Penh. Questo processo, comunque, non s’ha da fare, intima il Don Rodrigo di turno. L’Associazione cambogiana degli avvocati pretende infatti che ciascun legale straniero paghi 4900 dollari per far parte del collegio di difesa contro i crimini di Pol Pot, anche se sono stati raccolti 60 milioni di dollari dall’Onu e dalle comunità internazionali per portare alla sbarra i responsabili del massacro.
L’attuale regno di Cambogia è quanto rimane dell’antico e potente impero Khmer che tra l’XI e il XIV secolo controllò quasi tutta l’Indocina Dal terrore al turismo Dopo gli anni di Pol Pot la Cambogia è tornata alla normalità: nel 2006 l’hanno visitata oltre 1,7 milioni di turisti
1,7 milioni di persone morirono in Cambogia sotto il feroce regime dei Khmer rossi (1975-1979), che costrinsero la popolazione a una forma estrema di comunismo agrario con esecuzioni di massa, deportazioni, lavori forzati
3 anni, 8 mesi e 20 giorni: tanto durò la Kampuchea democratica guidata da Saloth Sar, detto Pol Pot, che morì il 15 aprile 1998 per attacco cardiaco e fu subito cremato. Qualcuno dubita che le ceneri siano le sue.
«Corriere della Sera » del 21 gennaio 2008

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