03 febbraio 2008

Le scelte anti-apartheid

Il mercato del lavoro
di Pietro Ichino
Il regime di vero e proprio apartheid che condanna tanti giovani bravissimi, soprattutto ma non soltanto nelle amministrazioni pubbliche, a penare per molti anni prima di riuscire a conquistare un posto stabile è l’altra faccia del regime di inamovibilità di cui oggi beneficiano i lavoratori «di ruolo». Più questi sono inamovibili, più è difficile, talvolta impossibile, accedere al lavoro stabile e protetto per quelli che stanno ancora fuori della «cittadella». È quello che gli economisti chiamano «mercato del lavoro duale». Di fronte al quale si può proporre l’abolizione di tutte le forme di lavoro flessibile e low cost, in particolare le abusatissime collaborazioni continuative autonome, per costringere le imprese a garantire a tutti i nuovi assunti, con un modello unico di contratto di lavoro, l’inamovibilità di cui oggi gode soltanto metà della forza-lavoro italiana. È, sostanzialmente, la proposta della Cgil, condivisa dalla sinistra radicale. È il ritorno al diritto degli Anni 70 auspicato dal sociologo del lavoro Luciano Gallino nel suo ultimo libro «contro la flessibilità». Ed è un pò quanto il governo sta tentando di fare nel settore pubblico con le norme della Finanziaria che prevedono la stabilizzazione dei precari attuali e danno un giro di vite contro nuovi contratti a termine e collaborazioni «atipiche» in questo settore. Ma quando pure fossero resi inamovibili tutti gli attuali precari e si potesse assumere solo personale di fatto inamovibile, che cosa ne sarebbe delle future leve di giovani? Ci siamo dimenticati che nella seconda metà degli Anni 70, quando c’era solo l’alternativa secca tra il lavoro ultraprotetto e la disoccupazione o il lavoro nero, furono proprio Cgil, Cisl e Uil, per bocca dei Trentin, dei Crea e dei Benvenuto, a chiedere l’istituzione del contratto di formazione e lavoro (cioè di un contratto che oggi verrebbe qualificato come «precario») per facilitare l’accesso al lavoro regolare dei giovani? Nel settore privato, invece, il ministro del lavoro Damiano e il presidente della Commissione Lavoro della Camera Tiziano Treu dichiarano di voler seguire una linea d’azione diametralmente opposta. Su flessibilità e precarietà «non servono altre leggi», ha sostenuto Treu sul Corriere del 2 gennaio: occorre soltanto «modulare meglio le tutele dei vari tipi di lavoro... Per il resto propongo una moratoria legislativa». In altre parole: non si cambia una virgola del vecchio diritto del lavoro, salvo estendere qualche brandello di tutela ai cosiddetti «lavoratori atipici». È l’idea, risalente alla fine degli Anni 90, dello «Statuto dei lavori»; ed è la stessa, a ben vedere, cui si rifà anche il programma del Popolo della Libertà, esposto dall’ex sottosegretario al lavoro Maurizio Sacconi sul Corriere del 31 dicembre. Se nell’assise di febbraio sulla politica del lavoro il Pd farà propria questa linea, ciò significherà di fatto - al di là degli slogan - che il nuovo partito di Veltroni rinuncia a combattere il dualismo feroce del nostro mercato del lavoro: esso si batterà soltanto per spostare qualche precario tra i protetti e per dare qualche modesto contentino ai molti condannati a restar fuori. Se si vuole davvero combattere efficacemente l’apartheid, e al tempo stesso non si vuole che il mercato del lavoro torni a essere inaccessibile alle nuove leve come era divenuto alla fine degli anni ‘70, la strada è una sola. Occorre, sì, un tipo unico di contratto per tutti i lavoratori dipendenti; ma disciplinato in modo che siano garantite la necessaria fluidità nella fase di accesso al lavoro dei giovani e una ragionevole flessibilità nella fase centrale della vita lavorativa, secondo i migliori standard internazionali; e che tutti ne portino il peso in ugual misura. La riforma potrebbe, per esempio, consistere in questo: per tutte le nuove assunzioni che avverranno d’ora in poi si sostituisce l’attuale «giungla dei contratti» con un solo contratto a tempo indeterminato, che prevede un periodo di prova di sei mesi - oppure otto, come ora in Francia - con un forte sgravio contributivo sotto i 26 anni. Dopo il periodo di prova, l’articolo 18 dello Statuto si applica soltanto per il controllo dei licenziamenti disciplinari e contro quelli discriminatori o di rappresaglia. Per i licenziamenti dettati da esigenze aziendali è invece soltanto il costo del provvedimento a proteggere il lavoratore e a penalizzare l’impresa che ne faccia abuso: chi perde il posto senza propria colpa ha sempre automaticamente diritto a un congruo indennizzo, crescente con l’anzianità di servizio in modo che la protezione sia più intensa nella parte finale della vita lavorativa; e ha diritto a un’assicurazione contro la disoccupazione disegnata secondo i migliori modelli scandinavi, con premio interamente a carico dell’impresa, che si aggrava al crescere del numero dei licenziamenti. Certo, una scelta di questo genere comporta il problema di infrangere quello che un altro sociologo del lavoro molto vicino alla Cgil, Aris Accornero, ha chiamato «l’ultimo tabù»: l’articolo 18, nella cui difesa a oltranza la sinistra è parsa negli anni passati volersi bruciare i ponti alle spalle. Ed è facilmente prevedibile il fuoco di sbarramento che tornerà a essere scatenato. Ma il Pd, se deciderà di imboccare questa strada, potrà avvalersi di un argomento fortissimo: gli basterà ricordare la disperante inconcludenza di tutto quanto la sinistra è andata proponendo e praticando da dieci anni in qua nella sua lotta contro il lavoro precario. Se si rifiuta la strategia della progressiva redistribuzione delle tutele, ci si condanna all’alternativa che ha paralizzato la politica del lavoro della sinistra in questo ultimo decennio: o il ritorno indietro al diritto del lavoro degli anni ‘70, che significa condannare le nuove leve a una difficoltà enorme per entrare nel tessuto produttivo regolare; oppure i pannicelli caldi dello «Statuto dei lavori», cioè la rinuncia a combattere il dualismo del mercato. La realtà è che la scelta più incisiva ed efficace rispetto all’obiettivo, quindi più «di sinistra», è proprio quella che passa per la riforma dell’articolo 18.
«Corriere della sera» del 14 gennaio 2008

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