Scarsi finanziamenti, tanti produttori, poco spazio sugli schermi e al cinema.
Da noi il genere resta una sorta di tappabuchi nei vari palinsesti. E così c’è chi scappa all’estero
DI MARIA CHIARA GRANDIS E MICHELA GELATI
Da noi il genere resta una sorta di tappabuchi nei vari palinsesti. E così c’è chi scappa all’estero
DI MARIA CHIARA GRANDIS E MICHELA GELATI
Ai documentari dedicano festival, ogni anno le case di produzione indipendenti, ne girano centinaia. Ma per distribuirli è meglio andare all’estero. Perché il vero problema del documentario italiano è la scarsa diffusione al cinema e in tv. «La televisione pubblica dovrebbe essere una finestra sul mondo, ma in Italia è solo una finestra sulla tv», dice Erik Gandini, regista e produttore che ha fondato in Svezia la società Atmo e gira documentari giornalistici. Tutti rigorosamente snobbati dai distributori italiani con l’unica eccezione di Sacrificio. Chi ha tradito Che Guevara?, pubblicato da Rizzoli.
«Per produrre i miei documentari sono andato in Svezia – continua Gandini – dove la tv pubblica riserva tre spazi settimanali in prima serata ai documentari giornalistici, finanziando il 40% di quelli che manda in onda. In Italia, invece, non c’è spazio». Nel 2004 solo lo 0,37% della programmazione Rai è stata dedicata a documentari puri, vale a dire non inseriti in programmi contenitore come Super Quark. Per Mediaset il dato è ancora più scoraggiante: 0,04%. E al cinema? Dal 1994 al 2005 ne sono stati distribuiti 62 su una programmazione di 825 film. Tuttavia, anche nel nostro Paese esiste un mercato, seppur frammentato in centinaia di piccole produzioni indipendenti, che raramente compaiono nelle classifiche dei botteghini e dell’Auditel.
Secondo i dati dell’Associazione documentaristi italiani – che ha condotto quest’anno la prima ricerca sullo stato di salute del documentario in Italia – il settore è composto da 755 soggetti, di cui il 60% sono registi e il 32% produttori, che operano con ditte individuali o società di persona per un fatturato di 50 milioni di euro l’anno e tremila dipendenti.
Le piccole case di produzione vengono create da soggetti indipendenti per riempire il vuoto delle reti televisive nazionali e dei grandi distributori. Come Stefilm, casa di produzione torinese, fondata nel 1984 da Stefano Tealdi, Elena Filippini ed Edoardo Fracchia. La società lavora in Italia ma distribuisce prevalentemente all’estero su canali satellitari. «In Italia è difficile produrre documentari – racconta Edoardo Fracchia –. Un documentario costa in media 200 mila euro e, tramite finanziamenti pubblici e privati, se ne ricavano solo 20 mila. Riducendo i costi, poi, ci rimette la qualità». Per giunta il 75% delle case di produzione registra un bilancio in deficit nella fase di produzione. Ma, secondo Fracchia, «se i prodotti sono buoni, i distributori si trovano, anche se non Rai e Mediaset. Da 20 anni infatti ci rivolgiamo all’estero. Qualche esempio?
Piemonte stories, documentario con storie di gente comune. L’abbiamo venduto in Finlandia, Svizzera, Norvegia. Persino ad Al-Jazeera». Un’alternativa è la vendita in allegato con i periodici: Citizen Berlusconi di Andrea Cairola e Susan Gray, prodotto da Stefilm, ha venduto 15 mila copie con Internazionale ed è stato trasmesso dalle tv di Norvegia, Germania e Stati Uniti.
Stessa sorte per il regista Giancarlo Bocchi. «Ho fatto documentari su Kosovo, Afghanistan, guerriglie sudamericane – racconta –. Li ho venduti alle tv francesi, inglesi e olandesi, dove il documentario è sentito come esigenza pubblica. Il problema in Italia non è la scarsa attenzione del pubblico, bensì la volontà di lasciare i cittadini nell’ignoranza. Perché quando i media decidono che un documentario va trasmesso, ci si riesce».
E se per la distribuzione ci si arrangia, rimane irrisolto il problema della produzione, la fase più costosa. Una soluzione sono le coproduzioni, che in Italia si appoggiano per il 28% dei casi a quelle estere. Non meno problematica è l’assegnazione di finanziamenti pubblici perché non esiste un fondo statale specifico per il documentario. «Per noi sono film come gli altri – spiega Ugo Baistrocchi, responsabile Cinema per il ministero dei Beni Culturali – perciò li finanziamo come cortometraggi, lungometraggi, opere prime o seconde». Criterio base per ottenere un finanziamento, la valenza culturale. Il documentario se la gioca così con i film della stessa categoria: scorrendo le liste dei film scelti dal Ministero si trovano grandi finanziamenti per i film, come 1,6 milioni di euro per Tutte le donne della mia vita di Simona Izzo nel 2006. Nel 2005 su un totale di 13,5 milioni di euro globali, 305 mila euro sono stati assegnati a un documentario: La strada di Levi di Davide Ferrario e Marco Belpoliti.
Negli altri paesi europei è tutta un’altra storia. Dagli anni ’90 in Francia, Regno Unito e Germania il mercato si è sviluppato grazie a precise politiche di finanziamento pubblico nazionali e regionali e alle tv nazionali. Nel Regno Unito, addirittura, l’obbligo di investimento in produzioni indipendenti riguarda tutte le tv nazionali terrestri e non solo quelle pubbliche. Niente investimenti, niente concessioni. Mentre, in Francia, una quota del fatturato delle imprese televisive alimenta un fondo nazionale riservato ai finanziamenti per i documentari. Un sogno per gli autori italiani. Quali le cause? La risposta è da manuale: «Il documentario è stato utilizzato nella tv italiana come un riempitivo, quando si apriva un buco nella programmazione. Portando molti spettatori a percepirlo come un momento punitivo», dice l’Enciclopedia della televisione. Secondo Sara Paci, fra le organizzatrici del Premio Ilaria Alpi dedicato ai documentaristi, «lo spettatore italiano è stato abituato ai cinegiornali di propaganda fascista, o a prodotti di scarsa qualità. In più, la Rai insegue la tv commerciale per restare al passo ». E allora, i conti sono presto fatti: favorita la fiction, la vita vera non trova posto nei palinsesti. Non resta, dunque, che affidarsi alla programmazione dei festival e dei cinema specializzati, come il Baretti di Torino o il Politecnico Fandango a Roma. Perché per il documentario italiano le idee ci sono, ma al cinema e in tv la strada da fare è ancora lunga.
DOVE TROVARLI
Pellicole e siti specializzati
Documentari: dove trovarli? Festival:
Trieste film festival (gennaio), Bergamo film meeting (marzo), Film festival internazionale di Milano (marzo), Montagna esplorazione di Trento (aprile), Valdarno Cinema Fedic (aprile), Il cinema ritrovato (Bologna, giugnoluglio), Napoli film festival (giugno).
Cinema: Cineteatro Baretti (Torino) www.cineteatrobaretti.it, Politecnico Fandango (Roma) www.fandango.it, Spazio Oberdan (Milano) www.cinetecamilano.it. Siti internet: www.stefilm.it, www.eurofilm.tv, www.documentaristi.it, www.filmitalia.org, www.docume.org, www.luce.it, www.atmo.se.
«Per produrre i miei documentari sono andato in Svezia – continua Gandini – dove la tv pubblica riserva tre spazi settimanali in prima serata ai documentari giornalistici, finanziando il 40% di quelli che manda in onda. In Italia, invece, non c’è spazio». Nel 2004 solo lo 0,37% della programmazione Rai è stata dedicata a documentari puri, vale a dire non inseriti in programmi contenitore come Super Quark. Per Mediaset il dato è ancora più scoraggiante: 0,04%. E al cinema? Dal 1994 al 2005 ne sono stati distribuiti 62 su una programmazione di 825 film. Tuttavia, anche nel nostro Paese esiste un mercato, seppur frammentato in centinaia di piccole produzioni indipendenti, che raramente compaiono nelle classifiche dei botteghini e dell’Auditel.
Secondo i dati dell’Associazione documentaristi italiani – che ha condotto quest’anno la prima ricerca sullo stato di salute del documentario in Italia – il settore è composto da 755 soggetti, di cui il 60% sono registi e il 32% produttori, che operano con ditte individuali o società di persona per un fatturato di 50 milioni di euro l’anno e tremila dipendenti.
Le piccole case di produzione vengono create da soggetti indipendenti per riempire il vuoto delle reti televisive nazionali e dei grandi distributori. Come Stefilm, casa di produzione torinese, fondata nel 1984 da Stefano Tealdi, Elena Filippini ed Edoardo Fracchia. La società lavora in Italia ma distribuisce prevalentemente all’estero su canali satellitari. «In Italia è difficile produrre documentari – racconta Edoardo Fracchia –. Un documentario costa in media 200 mila euro e, tramite finanziamenti pubblici e privati, se ne ricavano solo 20 mila. Riducendo i costi, poi, ci rimette la qualità». Per giunta il 75% delle case di produzione registra un bilancio in deficit nella fase di produzione. Ma, secondo Fracchia, «se i prodotti sono buoni, i distributori si trovano, anche se non Rai e Mediaset. Da 20 anni infatti ci rivolgiamo all’estero. Qualche esempio?
Piemonte stories, documentario con storie di gente comune. L’abbiamo venduto in Finlandia, Svizzera, Norvegia. Persino ad Al-Jazeera». Un’alternativa è la vendita in allegato con i periodici: Citizen Berlusconi di Andrea Cairola e Susan Gray, prodotto da Stefilm, ha venduto 15 mila copie con Internazionale ed è stato trasmesso dalle tv di Norvegia, Germania e Stati Uniti.
Stessa sorte per il regista Giancarlo Bocchi. «Ho fatto documentari su Kosovo, Afghanistan, guerriglie sudamericane – racconta –. Li ho venduti alle tv francesi, inglesi e olandesi, dove il documentario è sentito come esigenza pubblica. Il problema in Italia non è la scarsa attenzione del pubblico, bensì la volontà di lasciare i cittadini nell’ignoranza. Perché quando i media decidono che un documentario va trasmesso, ci si riesce».
E se per la distribuzione ci si arrangia, rimane irrisolto il problema della produzione, la fase più costosa. Una soluzione sono le coproduzioni, che in Italia si appoggiano per il 28% dei casi a quelle estere. Non meno problematica è l’assegnazione di finanziamenti pubblici perché non esiste un fondo statale specifico per il documentario. «Per noi sono film come gli altri – spiega Ugo Baistrocchi, responsabile Cinema per il ministero dei Beni Culturali – perciò li finanziamo come cortometraggi, lungometraggi, opere prime o seconde». Criterio base per ottenere un finanziamento, la valenza culturale. Il documentario se la gioca così con i film della stessa categoria: scorrendo le liste dei film scelti dal Ministero si trovano grandi finanziamenti per i film, come 1,6 milioni di euro per Tutte le donne della mia vita di Simona Izzo nel 2006. Nel 2005 su un totale di 13,5 milioni di euro globali, 305 mila euro sono stati assegnati a un documentario: La strada di Levi di Davide Ferrario e Marco Belpoliti.
Negli altri paesi europei è tutta un’altra storia. Dagli anni ’90 in Francia, Regno Unito e Germania il mercato si è sviluppato grazie a precise politiche di finanziamento pubblico nazionali e regionali e alle tv nazionali. Nel Regno Unito, addirittura, l’obbligo di investimento in produzioni indipendenti riguarda tutte le tv nazionali terrestri e non solo quelle pubbliche. Niente investimenti, niente concessioni. Mentre, in Francia, una quota del fatturato delle imprese televisive alimenta un fondo nazionale riservato ai finanziamenti per i documentari. Un sogno per gli autori italiani. Quali le cause? La risposta è da manuale: «Il documentario è stato utilizzato nella tv italiana come un riempitivo, quando si apriva un buco nella programmazione. Portando molti spettatori a percepirlo come un momento punitivo», dice l’Enciclopedia della televisione. Secondo Sara Paci, fra le organizzatrici del Premio Ilaria Alpi dedicato ai documentaristi, «lo spettatore italiano è stato abituato ai cinegiornali di propaganda fascista, o a prodotti di scarsa qualità. In più, la Rai insegue la tv commerciale per restare al passo ». E allora, i conti sono presto fatti: favorita la fiction, la vita vera non trova posto nei palinsesti. Non resta, dunque, che affidarsi alla programmazione dei festival e dei cinema specializzati, come il Baretti di Torino o il Politecnico Fandango a Roma. Perché per il documentario italiano le idee ci sono, ma al cinema e in tv la strada da fare è ancora lunga.
DOVE TROVARLI
Pellicole e siti specializzati
Documentari: dove trovarli? Festival:
Trieste film festival (gennaio), Bergamo film meeting (marzo), Film festival internazionale di Milano (marzo), Montagna esplorazione di Trento (aprile), Valdarno Cinema Fedic (aprile), Il cinema ritrovato (Bologna, giugnoluglio), Napoli film festival (giugno).
Cinema: Cineteatro Baretti (Torino) www.cineteatrobaretti.it, Politecnico Fandango (Roma) www.fandango.it, Spazio Oberdan (Milano) www.cinetecamilano.it. Siti internet: www.stefilm.it, www.eurofilm.tv, www.documentaristi.it, www.filmitalia.org, www.docume.org, www.luce.it, www.atmo.se.
Rubini: «Tutti pensano ai soldi, mentre il problema è culturale»
Di Ilario Lombardo
Di Ilario Lombardo
Prima di tutto bisognerebbe mettersi d’accordo sul nome. Cosa significa «documentario»? Cos’è? Per Rubino Rubini, regista e direttore di festival documentari, «bisognerebbe cambiare il nome, perché ormai è troppo generico, non delimita più un campo». E in effetti in Italia, soprattutto in chi fa televisione, non è che ci sia ancora una coscienza della netta differenza tra reportage, inchiesta giornalistica e documentario. «In Italia – spiega Rubini – s’intende come documentaristica solo quella che ha temi sociali, di denuncia. La colpa è soprattutto della scarsa considerazione che la tv generalista ha per i documentari». I dati sono poco confortevoli: si produce poco e si distribuisce ancora meno. Manca un sistema garantito, un’industria tutelata.
Per il ministero dei beni culturali che eroga i finanziamenti non c’è differenza tra film a soggetto e documentario. E la Rai che fa? «Le tv dovrebbero finanziare il mercato dei documentari per legge, con quote d’investimento, ma non lo fanno. Chi fa i palinsesti preferisce investire nelle fiction, perché pensa faccia guadagnare di più». «Il cinema della realtà» viene relegato quindi in uno spazio di nicchia, poco considerato dai grandi produttori e dalla distribuzione televisiva: «Figlio di un dio minore», titolava un settimanale di cinema qualche settimana fa. Un altro segno dell’anomalia italiana rispetto al resto d’Europa dove la produzione di documentari è di gran lunga maggiore e molto seguita?
«È una verità, ma parziale. In Italia c’è tutto un settore del documentario, industriale, sull’arte, sul cinema, sulla musica, che resta un fenomeno diffuso. Si produce abbastanza, ma più del 70% non è conosciuto dai circuiti tradizionali e neanche da associazioni di categoria importanti come Doc.it, che lavora per istituzionalizzare il documentario ma ha una visione parziale e non si accorge di molti aspetti dell’ambiente vitale che la circonda, che non è così ampio ma neppure miserabile».
C’è tutto un mondo di documentari prodotti da aziende artigianali che non rientrano in un sistema: piccole case di produzione messe su da amici, ragazzi appassionati. Si potrebbe parlare di «un sommerso del documentario».
«Pochi sanno quanti documentari vengono commissionati da privati, dalle gallerie, dai musei». Per Rubini, presidente del Milano Doc Festival, in un periodo in cui a livello base il documentario si sta espandendo, sono soprattutto i festival a dover far emergere gli autori: «Ormai oggi tutti hanno una telecamera e un sistema di montaggio dilettantistico. I documentari costano poco e non tutti hanno bisogno di sovvenzioni. Noi italiani stiamo sempre ad aspettare che qualcuno ci aiuti e ci sovvenzioni. Bisognerebbe invece affinare la sensibilità, creare una cultura del documentario. Bisognerebbe puntare sulla distribuzione, dotarsi di un canale tematico di documentari come avviene con Discovery Channel e National Geographic». Le tv satellitari hanno comunque aiutato la crescita produttiva e distributiva del documentario, come quello storico o naturale: «Manca ancora un 'pensiero' del documentario. Tutti pensano a Michael Moore, o recentemente ad Al Gore: quelli sono pamphlet e, nel caso di Moore, recital a tema: è una sorta di Beppe Grillo americano». E cos’è allora questo che tutti chiamano documentario? «Non è una sola cosa: è un modo di filmare ciò che esiste e di svolgere vari temi a seconda della sensibilità di chi li fa e per una fruizione diversa per ogni singolo canale».
Molti documentaristi però fanno della propria battaglia una questione di sopravvivenza: può continuare ad esistere il documentario in circuiti alternativi, fuori dallo schermo televisivo, come il web e i festival? «La tv rimane comunque il luogo eletto per il documentario. Una decisione che si potrebbe prendere subito – spiega ancora Rubini – è quella di eliminare, come chiede Doc.it, l’obbligo di inedito per i documentari presentati ai festival.
Un’opera vista a Roma può essere inedita a Milano. È la qualità della distribuzione che crea l’inedito. I festival creano visibilità ma oggi stanno diventando solo passerella per i grandi blockbuster».
Per il ministero dei beni culturali che eroga i finanziamenti non c’è differenza tra film a soggetto e documentario. E la Rai che fa? «Le tv dovrebbero finanziare il mercato dei documentari per legge, con quote d’investimento, ma non lo fanno. Chi fa i palinsesti preferisce investire nelle fiction, perché pensa faccia guadagnare di più». «Il cinema della realtà» viene relegato quindi in uno spazio di nicchia, poco considerato dai grandi produttori e dalla distribuzione televisiva: «Figlio di un dio minore», titolava un settimanale di cinema qualche settimana fa. Un altro segno dell’anomalia italiana rispetto al resto d’Europa dove la produzione di documentari è di gran lunga maggiore e molto seguita?
«È una verità, ma parziale. In Italia c’è tutto un settore del documentario, industriale, sull’arte, sul cinema, sulla musica, che resta un fenomeno diffuso. Si produce abbastanza, ma più del 70% non è conosciuto dai circuiti tradizionali e neanche da associazioni di categoria importanti come Doc.it, che lavora per istituzionalizzare il documentario ma ha una visione parziale e non si accorge di molti aspetti dell’ambiente vitale che la circonda, che non è così ampio ma neppure miserabile».
C’è tutto un mondo di documentari prodotti da aziende artigianali che non rientrano in un sistema: piccole case di produzione messe su da amici, ragazzi appassionati. Si potrebbe parlare di «un sommerso del documentario».
«Pochi sanno quanti documentari vengono commissionati da privati, dalle gallerie, dai musei». Per Rubini, presidente del Milano Doc Festival, in un periodo in cui a livello base il documentario si sta espandendo, sono soprattutto i festival a dover far emergere gli autori: «Ormai oggi tutti hanno una telecamera e un sistema di montaggio dilettantistico. I documentari costano poco e non tutti hanno bisogno di sovvenzioni. Noi italiani stiamo sempre ad aspettare che qualcuno ci aiuti e ci sovvenzioni. Bisognerebbe invece affinare la sensibilità, creare una cultura del documentario. Bisognerebbe puntare sulla distribuzione, dotarsi di un canale tematico di documentari come avviene con Discovery Channel e National Geographic». Le tv satellitari hanno comunque aiutato la crescita produttiva e distributiva del documentario, come quello storico o naturale: «Manca ancora un 'pensiero' del documentario. Tutti pensano a Michael Moore, o recentemente ad Al Gore: quelli sono pamphlet e, nel caso di Moore, recital a tema: è una sorta di Beppe Grillo americano». E cos’è allora questo che tutti chiamano documentario? «Non è una sola cosa: è un modo di filmare ciò che esiste e di svolgere vari temi a seconda della sensibilità di chi li fa e per una fruizione diversa per ogni singolo canale».
Molti documentaristi però fanno della propria battaglia una questione di sopravvivenza: può continuare ad esistere il documentario in circuiti alternativi, fuori dallo schermo televisivo, come il web e i festival? «La tv rimane comunque il luogo eletto per il documentario. Una decisione che si potrebbe prendere subito – spiega ancora Rubini – è quella di eliminare, come chiede Doc.it, l’obbligo di inedito per i documentari presentati ai festival.
Un’opera vista a Roma può essere inedita a Milano. È la qualità della distribuzione che crea l’inedito. I festival creano visibilità ma oggi stanno diventando solo passerella per i grandi blockbuster».
«Avvenire» del 4 gennaio 2008
credo che questo tipo di informazioni possano solo confortare l'idea di una neonata società di produzione audiovisive come la mia di cercare di tornare a LAVORARE per chi ha la cultura del fare e non del lamento......
RispondiEliminaPER ESEMPIO GLI AUSTRALIANI!!!!!!!!
Consiglio di dare un'occhiata alla produzione della SBS australiana.....
Buona fortuna a tutti coloro che decidono di cambiare aria per realizzare documentari che rispettino certi crismi...e non quello che passa il mercato italiano..
DIMENTICAVO: per la prima volta mi sono addormentato all'arena: stavano proiettando un film finanziato dal Ministeso dei beni Culturali......................:il titolo?!?!?
IL DIVO!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
grazie mille vorrei poter girare un documentario in Australia, dove sono stata 10 anni fa...sto cercando di capire la questioni finanziamenti..è da un'ora che navigo in internet ma non ho trovato nulla...ma grazie al tuo post smetto di cercare in italia è un vero dramma!!!!!hai ragione
RispondiEliminagrazie al tuo post cambio aria anche se solo per il momento in modo virtuale grazie veroniva