23 dicembre 2007

La casta verde

Dal ministro Pecoraro Scanio al patron di Legambiente, il democrat Ermete Realacci Il disastro ecologico di un ex partito di lotta diventato partito di lobby e di governo
di Stefano Cingolani
Sono tornati tutti, sani, salvi e abbronzati. Tutti i 52 componenti della delegazione italiana, particolarmente numerosa, in omaggio al paese dove l’ecologismo è di lotta e di governo. Due settimane intere a discutere sul clima sono dure da digerire. Per fortuna c’era Bali e il suo di clima. All’Italia verde hanno fatto subito indossare la maglia nera perché tra i paesi firmatari di Kyoto è quello che, pur parlando tanto, ha realizzato davvero poco. “La colpa è del governo Berlusconi”, ha spiegato naturalmente Alfonso Pecoraro Scanio in uno dei collegamenti via satellite, web o video che lo hanno tenuto sempre on-line con la madrepatria. Altro che spiagge coralline, c’erano trenta commissioni nelle quali accapigliarsi niente meno che con gli emissari di George W. Bush. All’accusa, lanciata dalle colonne del Corriere della Sera e dagli schermi de La7, di aver portato in gita ai tropici una folta quanto sfaccendata comitiva, Pecoraro ha replicato che dal ministero sono partiti in 18. Poi si sono aggiunti la soave Grazia Francescato, e il no global Paolo Cento. Gli altri erano assessori regionali e comunali, tecnici, esperti e quant’altro, tutti a spese loro. Cioè delle amministrazioni locali. Cioè nostre. La missione è stata un successo, secondo il ministro. Ben più cauto Ermete Realacci, il padre padrone di Legambiente cooptato nei magnifici diciassette di Walter Veltroni. “Adesso bisogna passare dalle parole ai fatti”, ha ammonito rivolto chiaramente a Pecoraro che nel frattempo è stato strapazzato anche dall’Unione europea per non aver fatto abbastanza contro anidride carbonica e ossido di azoto. Una bella doccia fredda e i bollori tropicali si sono spenti subito. Tra i due personaggi che si dividono la vociante platea verde, è scontro aperto. Una rivalità antica, basata su un conflitto non solo di personalità, ma di lobby e modelli politici.
Alfonso Pecoraro Scanio ha cominciato fin da giovane la sua marcia, nemmeno troppo lunga, dentro le istituzioni. Nato a Salerno il 13 marzo 1959, ariete, segno del quale porta tutte intere le caratteristiche, comincia a far politica al liceo Torquato Tasso. A vent’anni è radicale, nonviolento, ambientalista, vegetariano, crea l’associazione Vigilanza Verde e nel 1987 entra per la prima volta in un organismo esecutivo, diventando assessore e profeta in patria. Da allora, la scalata non si ferma più: consiglio regionale campano, verdi europei, deputato napoletano nel 1992. Non è il tipico agitprop ecologista, ma un classico politico meridionale. Il suo modello va cercato in Ciriaco De Mita più che in José Bové (l’ex gauchiste francese diventato pastore e poi araldo della lotta contro la globalizzazione per proteggere il Roquefort).
Bruno, giovanile, di bell’aspetto, ciarliero, con spiccato accento campano, Pecoraro Scanio ammira apertamente Socrate e Alcibiade, è un fan del simposio e del costume ellenico. Si dichiara orgogliosamente bisex (il suo outing risale al 2000), ma ha un entourage rigorosamente maschile e campano. Spara a raffica contro nepotismo e raccomandazioni, eppure ha trasformato il fratello Marco, ex calciatore passato per l’Avellino, oggi senatore, nel suo braccio destro (un braccio di ferro). E’ giustizialista e moralizzatore, ma non disdegna di usare l’elicottero del generale Speciale (mai in gita e solo in missione, precisa). Sta sempre dalla parte dei magistrati, però in Campania hanno arrestato per concorso in associazione mafiosa di stampo camorristico, quel Claudio Di Biasio che il ministro ha raccomandato come vice commissario a fianco di Bertolaso. Alla faccia del conflitto di interessi, mette due cappelli in testa all’avvocato Giancarlo Viglione, suo capo di gabinetto, un aitante bruno nato a Civitavecchia, ma melfiano (da Melfi) di adozione, nominandolo commissario dell’Apat, l’agenzia per la protezione del territorio che fa capo allo stesso Viglione. L’Apat ha 1.800 dipendenti, il doppio del ministero ed è il relais delle Apa, le sezioni regionali. Intanto, il vice capo di gabinetto vicario, Andrea Falzone, viene nominato numero due alla Sogesid, nata dalla Cassa per il mezzogiorno, che sovrintende alle risorse idriche nelle regioni del sud. Un centro di rogne e di potere mica male.
La gestione del ministero è stata messa sotto accusa dagli economisti della voce. info che non sono certo berlusconiani. Per ridurre le spese inutili, il ministro ha deciso di portare da 82 a 63 i componenti della commissione sull’impatto ambientale. Lodevole, solo che ha istituito un’altra commissione di 25 membri per le autorizzazioni ambientali integrate. Totale 87 commissari invece di 82, tutti con un vasto potere di veto. Ma la moltiplicazione dei posti e dei ruoli raggiunge il massimo nella filiera che dal governo centrale porta a quelli locali. Roma ne è l’esempio massimo: gli uomini del ministero e delle agenzie a esso collegate, l’assessore regionale per l’ambiente, quello provinciale, quello comunale, l’Apa, l’Ama, e via via, fino ai collettivi di Civitavecchia contro la centrale. Il modello si ripete in Campania dove il ministro ha il proprio collegio elettorale. Qui deve trattare con il potente governatore, ma ad Antonio Bassolino non fa sgarbi. Proprio la sua regione, alla quale ha dedicato particolare attenzione e una buona fetta di risorse pubbliche, rischia di diventare la nemesi di Pecoraro. Non c’è solo l’eterna emergenza rifiuti, l’intero territorio è un disastro ambientale permanente. Eppure i verdi sono al potere da quasi vent’anni sul piano locale, da sette su quello nazionale.
È davvero lontano il “Sole che ride”, simbolo spensierato delle liste ecologiste che nel 1985 fanno il loro debutto alle regionali presentandosi in undici collegi. Un anno dopo (16 novembre 1986), queste schegge ambientaliste si organizzano in Federazione e nel 1987 si presentano alle politiche. Il risultato è modesto, appena 2,5 per cento alla Camera dove eleggono 13 deputati e il due per cento al Senato. Ma è in corso, sotto l’impatto dell’incidente di Chernobyl, la battaglia contro il nucleare guidata dal fisico Gianni Mattioli, primo capogruppo dei Verdi a Montecitorio. Montalto di Castro, fianco a fianco con il principe Caracciolo dipinto da indiano metropolitano, porta agli antinuclearisti simpatie, alleanze, risorse: una buona parte del partito socialista, sotto la guida di Claudio Martelli, radicali come Adelaide Aglietta, gauchiste come Alexander Langer, pretori d’assalto come Gianfranco Amendola, uomini dello spettacolo come Enrico Falqui, potenze economiche come l’Eni (ricordate “il metano ti dà una mano”?). Entra in scena anche l’Arci e con Chicco Testa muove le prime mosse Legambiente che divide il mondo comunista. Al referendum vince il no al nucleare. Interi pezzi di industria, per lo più pubblica, si riconvertono o collassano: l’Ansaldo, l’Enel, la Fiat, l’Enea e la prestigiosa scuola italiana di fisica nucleare. Buona parte degli ingegneri rimasti senza lavoro diventeranno burocrati ministeriali.
Alle politiche del ’92 il risultato resta magro (sotto il tre per cento), ma la Federazione dei Verdi si fa rapidamente partito nel quale confluiscono anche i Verdi Arcobaleno fondati da Francesco Rutelli (ex radicale) e Edo Ronchi (ex Democrazia proletaria). Comincia così la cavalcata degli anni Novanta dalla Piazza al Palazzo. In piena Tangentopoli prevale la corrente social-chic e diventa coordinatore Carlo Ripa di Meana. Il fatal ’94, con la discesa in campo di Silvio Berlusconi, porta il piccolo partito all’alleanza organica con la sinistra. Due anni dopo c’è il primo governo Prodi: Edo Ronchi ministro dell’Ambiente, Luigi Manconi portavoce del partito. Ripa di Meana torna a Italia Nostra, la prima associazione ambientalista, nata nel lontano 1955 tra aristocratici e alto-borghesi. Il suo modello ha ispirato il Fondo per l’Ambiente Italiano, creato da Giulia Maria Mozzoni Crespi, erede della famiglia tessile lombarda, che cedette il Corriere della Sera a Rizzoli.
La batosta del ’99 provoca la caduta del governo D’Alema e la formazione del breve gabinetto Amato. All’Agricoltura va Pecoraro Scanio, mentre Ronchi paga la sconfitta elettorale e gli viene sottratto il ministero dell’Ambiente che passa a Willer Bordon. Il partito è già nelle mani dello scalpitante salernitano, che lo affida a Grazia Francescato, donna colta e graziosa (nomen omen). Nata in provincia di Novara, bocconiana, giornalista femminista (nel 1973 è una delle fondatrici di Effe), s’avvicina negli anni Ottanta all’ambientalismo e nel 1986 viene eletta al consiglio nazionale del Wwf, presieduto dal fondatore della sezione italiana Fulco Pratesi. Questi, architetto, aveva abbandonato la professione per protesta contro gli orrori edilizi dei suoi colleghi. Cacciatore di orsi in Turchia, vendette i fucili dopo una battuta particolarmente cruenta e cominciò a proteggere la natura. La Lega per gli uccelli, le oasi verdi, i parchi nazionali e le riserve naturali, diventano un successo e un vero e proprio business. E la sezione italiana del World Wildlife Fund come ancora si chiamava (ha poi cambiato nome in World Wide Fund for Nature), si trasforma nella prima vera lobby verde.
L’organizzazione, che ora può fregiarsi anche del titolo di ong (organizzazione non governativa) oltre a quello di onlus (organizzazione non lucrativa di utilità sociale), è nata nel 1961 in Svizzera e si è ramificata in 96 paesi (in Italia dal 1966). Una vera multinazionale ambientalista che con le multinazionali finanziarie e industriali stinge un rapporto di forte contiguità. Ralph Nader ha denunciato sulla sua rivista Multinational Monitor che tre direttori e sette membri del consiglio ricoprivano cariche importanti in dieci compagnie che figurano nella lista delle Toxic 500. Tra queste c’è la Union Carbide responsabile del disastro di Bophal il cui manager del settore ambiente era Russel Trade tra i fondatori del Wwf e capo della sezione americana. Ma c’è anche la Exxon tra i principali finanziatori della meritoria organizzazione internazionale. E Luc Hoffman, proprietario della Icmesa di Severo, già Arca d’Oro (una delle principali onorificenze ambientaliste ointernazionali). Al vertice spiccano teste coronate come il primo presidente Bernardo d’Olanda che finì nello scandalo Lockheed o Filippo di Edimburgo il quale aspira a reincarnarsi come virus letale per ridurre la sovrapopolazione. Intrecci perversi, macchie nere, o tare originarie?
Al Wwf dobbiamo molto: dal ritorno dei lupi (che ormai esportiamo anche in Francia) alla riproduzione degli orsi e della lepre italica. Ma il grande salto avviene con la gestione del Parco nazionale d’Abruzzo. Pratesi ne diventa presidente nel 1995 e vi resta per un decennio. Direttore generale fin dal 1969 è Franco Tassi, ambientalista della prima ora, insignito anch’egli dell’Arca d’Oro (primo italiano a raggiungere simile onore). Ma il potere logora e contro di lui comincia una vero tiro al piccione, con pesanti accuse sulla gestione che va dalle spese pazze a veri e propri abusi. La Corte dei conti nel 2003 condanna Pratesi, Tassi viene licenziato e da allora passa la vita nei tribunali. Il Wwf viene messo sotto controllo dalla casa madre, alla presidenza sale (appena due settimane fa) Enzo Venini, valtellinese che si è fatto le ossa allo Stelvio. In Abruzzo, la scelta cade su un interno, Giuseppe Rossi, ex guardiacaccia, in quota a Legambiente.
Le nomine tornano rigidamente nello spoils system che fa cadere la testa del presidente del parco del Vesuvio, il geografo Ugo Leone, in quota An, sostituito da Alessandro Nardi dirigente della Regione Campania, ex capo della segreteria di Pecoraro Scanio. Al Circeo, altro posto ambito, va Gaetano Benedetto, ex radicale e Wwf, vicecapo di gabinetto del ministro, uomo di punta nell’affossare il ponte sullo Stretto di Messina. Il Cilento, secondo parco d’Italia come area, spetta, quasi d’ufficio a Domenico De Masi, sociologo di fama, professore universitario e presidente di Symbola la potente e ricca fondazione che nasce da Legambiente.
La gerarchia dei parchi, dunque, è anche una gerarchia politica. E proprio Legambiente emerge dallo scandalo abruzzese come l’organizzazione in grado di scalzare sia le vecchie cariatidi del Wwf o di Italia Nostra, sia il predominio dei Verdi radical. L’idea ambiziosa è far nascere un “ambientalismo dei sì”. Il laboratorio si chiama Symbola che dal quartier generale di Montefalco in Umbria (la zona del celebrato Sagrantino) ha lanciato nel luglio scorso la sfida della soft economy. Vi troviamo Alessandro Profumo presidente del Forum che accoglie tra i soci sostenitori oltre a Unicredit, i Benetton, Tronchetti Provera, De Benedetti, Della Valle, Eni, Italgest, Novamont, Bialetti, il Consorzio Costa Smeralda e la Compagnia delle Opere.
Qualità è il nuovo mantra, Livio Barnabò il guru: filologo classico, ad di Progetto Europa Group, ha creato il Piq, prodotto interno di qualità, insieme a Domenico Siniscalco. La sua conclusione è che il 44 per cento del pil italiano è piq, e in testa c’è, indovinate un po’, il commercio. Paradossi dei pionieri. Aspettando calcoli più realistici, Legambiente promuove le energie alternative e qui incontra interessi industriali soprattutto tedeschi (Siemens è prima nelle cellule fotovoltaiche, mentre arrivano i cinesi con il loro silicio a costi bassissimi). O affronta il dramma rifiuti coinvolgendo il gruppo Marcegaglia che offre impianti chiavi in mano per lo smaltimento. Insomma, non è solo questione di etichette e marchi doc. Può nascere un’alleanza con il big business.
Il modello è senza dubbio più chiaro rispetto alle ipocrisie dei verdi d’antan. O a quelle di Greenpeace. I pasdaran ecologisti, duri e puri, sono stati trovati spesso con le mani nella marmellata. Adesso la loro campagna a favore dell’energia eolica ha finito per sollevare sospetti. In Sardegna, l’isola dei venti per eccellenza, Renato Soru ha ingaggiato un braccio di ferro con Greenpeace che, grazie al gioco di sponda con Ds e Margherita, può far saltare il posto al governatore.
Su Ermete Realacci, originario di Sora (Frosinone), ma parlamentare della Toscana, circolano in rete maligne caricature, per la serie divisi dalla nascita, che lo associano a Rosy Bindi. Ma, se si esclude la fisiognomica, c’è ben poco in comune. Uno nato il primo maggio (del 1955), non può che passare dalla sinistra storica, Tangentopoli lo spinge verso i radicali dove si incrocia con Pecoraro (beccandosi) e con Rutelli che seguirà poi alla Margherita. Sempre fedele è rimasto, dal 1983 a oggi, solo a Legambiente. Con 115 mila sostenitori e mille circoli, grazie alla capillare struttura dell’Arci, il dopolavoro rosso, l’organizzazione del Cigno verde è senza dubbio la più grande. Dopo il successo antinucleare, s’è distinta dagli altri spezzoni ecologisti, lanciando campagne di pulizia (Spiagge pulite, Puliamo il mondo) e iniziative di monitoraggio come Goletta verde che ha un considerevole impatto economico sul turismo balneare.
Per Realacci (come per Pecoraro Scanio e molti altri), il movimento ambientalista è un trampolino verso la grande politica. Nel team veltroniano è entrato anche il suo erede Roberto Della Seta e il congresso di Legambiente, conclusosi il 9 dicembre, ha eletto presidente Vittorio Cogliati Dezza, docente di storia e filosofia in un liceo romano, che non insidia nessuno. Ma l’ovazione della platea è andata al ben più radicale Nichi Vendola. Il governatore della Puglia è l’uomo forte della Cosa rosso-verde. Forse anche per questo Pecoraro Scanio, con il rimpasto di gennaio, vuol tornare all’Agricoltura. Lì può condurre la sua battaglia contro gli ogm, di scarso peso pratico (vista la diffusione degli organismi geneticamente modificati), ma con tanta visibilità e poche rogne. Magari si porterà dietro il superpagato Jeremy Rifkin (che, ironia della storia, è stato anche consulente di Monsanto leader negli ogm). Intanto, entro pochi giorni il ministro deve fornire la valutazione di impatto sul tratto autostradale Barberino- Firenze, lo prescrive il tar del Lazio accogliendo il ricorso di Atlantia (società Autostrade). E’ una vicenda che si trascina dal 2004, un cavallo di battaglia del Pecoraro di lotta, un’altra rogna gigantesca per il Pecoraro di governo che rischia di perdere portafoglio e ministero. Se si realizzerà il promesso taglio, infatti, l’ambiente verrà assorbito da Pierluigi Bersani che lo vuole dentro il superdicastero dello Sviluppo (sostenibile, of course). A quel punto, il complesso ambiental-industriale potrà accomodarsi in salotto.
«Il Foglio» del 22 dicembre 2007

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