06 novembre 2007

Il mercato uccide le democrazie

L’allarme dello storico inglese: le privatizzazioni indeboliscono le istituzioni e la politica Decadono gli Stati nazionali.Se il mercato uccide la democrazia. E così l’unità di Italia, Spagna e Gran Bretagna è a rischio
di Eric Hobsbawm
Oggi «il popolo» è il fondamento e il punto di riferimento comune di tutte le forme di governo statali eccetto quella teocratica. E ciò non è soltanto qualcosa di inevitabile, ma è qualcosa di giusto, perché per avere un qualunque scopo il governo deve parlare in nome e nell’interesse di tutti i cittadini. Nell’epoca dell’uomo comune, ogni governo è un governo del popolo e per il popolo, anche se chiaramente non può essere, in nessun senso funzionale, un governo esercitato direttamente dal popolo. Tale principio non si basa solo sull’egualitarismo dei popoli, che non sono più disposti ad accettare una posizione di inferiorità in una società gerarchica governata da uomini superiori «per diritto naturale», ma anche sul fatto che finora i sistemi sociali, le economie e gli Stati nazionali moderni non hanno potuto funzionare senza l’appoggio passivo, ma anche la partecipazione attiva e la mobilitazione, di moltissimi dei loro cittadini. Questo principio rappresenta l’eredità del XX secolo. Ma sarà ancora la base dei governi popolari, incluso quello liberaldemocratico, nel XXI? La mia tesi è che la fase attuale dello sviluppo capitalistico globalizzato lo sta minando alle radici, e che ciò avrà - anzi, sta già avendo - serie implicazioni per quanto riguarda la democrazia liberale come viene intesa oggi. L’odierna politica democratica, infatti, si fonda su due assunzioni, una morale - o, se preferite, teorica - e l’altra pratica. Moralmente parlando, essa richiede il supporto esplicito del regime da parte della maggioranza dei cittadini, che si presume costituiscano il grosso degli abitanti dello Stato. Ma per quanto fossero democratici gli ordinamenti in vigore per la popolazione bianca nel Sudafrica dell’apartheid, un regime che privava permanentemente del diritto di voto la maggior parte della sua popolazione non può essere considerato come democratico. Gli atti con cui si esprime il proprio assenso alla legittimità di un sistema politico, come votare periodicamente alle elezioni, possono essere poco più che simbolici. Di fatto, è da molto tempo un luogo comune tra i politologi dire che solo una modesta minoranza di cittadini partecipa costantemente e attivamente alla vita del proprio Stato o di un’organizzazione di massa. Ciò torna a vantaggio di coloro che comandano; e, in effetti, è da tempo che i pensatori e i politici moderati si augurano la diffusione di un certo grado di apatia politica. Ma questi atti sono importanti. Oggi ci troviamo di fronte a un’evidentissima secessione dei cittadini dalla sfera della politica. La partecipazione alle elezioni appare in caduta libera nella maggior parte dei Paesi liberaldemocratici. Se le elezioni popolari sono il primo criterio di rappresentatività democratica, in che misura è possibile parlare di legittimità democratica per un’autorità eletta da un terzo dell’elettorato potenziale (la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti) o, come è avvenuto di recente per le amministrazioni locali britanniche e il Parlamento europeo, da qualcosa come il 10 o il 20 per cento dell’elettorato? O per un presidente americano eletto da poco più di metà del 50 per cento degli americani che hanno diritto di voto? Sul lato pratico, i governi dei moderni Stati nazionali o territoriali - qualunque governo - si basano su tre presupposti: primo, che abbiano più potere di altre unità operanti sul loro territorio; secondo, che gli abitanti dei loro territori accettino, più o meno volentieri, la loro autorità; e terzo, che tali governi siano in grado di fornire ai cittadini quei servizi ai quali non sarebbe altrimenti possibile provvedere, perlomeno non con la stessa efficacia (come «legge e ordine», per riprendere un’espressione proverbiale). Negli ultimi trenta o quarant’anni, questi presupposti hanno progressivamente perso la loro validità. In primo luogo, pur essendo ancora di gran lunga più potenti di qualunque rivale interno, anche gli Stati più forti, più stabili e più efficienti hanno perso il monopolio assoluto della forza coercitiva, non ultimo grazie alla marea di nuovi strumenti di distruzione portatili, oggi facilmente accessibili ai piccoli gruppi dissidenti, e all’estrema vulnerabilità della vita moderna di fronte agli sconvolgimenti improvvisi, per quanto leggeri possano essere. In secondo luogo, hanno iniziato a vacillare anche i due pilastri più solidi di un governo stabile, ossia (nei Paesi che godono di una legittimità popolare) la lealtà dei cittadini e la loro disponibilità a servire gli Stati, e (nei Paesi dove questa legittimità popolare manca) la pronta obbedienza a un potere statale schiacciante e indiscusso. Senza il primo pilastro, le guerre totali basate sulla coscrizione obbligatoria e sulla mobilitazione nazionale sarebbero state impossibili, così come sarebbe stata impossibile la crescita degli introiti erariali degli Stati fino all’odierna percentuale dei Pil (introiti che possono oggi superare il 40 per cento del Pil in alcuni Paesi e il 20 per cento anche negli Stati Uniti e in Svizzera). Senza il secondo pilastro, come ci mostra la storia dell’Africa e di ampie regioni dell’Asia, piccoli gruppi di europei non avrebbero potuto mantenere per generazioni il controllo sulle colonie a un costo relativamente modesto. Il terzo presupposto è stato minato non solo dall’indebolimento del potere statale ma anche, a partire dagli anni Settanta, da un ritorno, tra i politici e gli ideologi, a una critica dello Stato basata su un laissez-faire ultraradicale, secondo la quale il ruolo dello Stato stesso dev’essere ridimensionato a tutti i costi. Questa critica afferma, più per una sorta di fede teologica che non sulla base di evidenze storiche, che ogni servizio che le autorità pubbliche possono fornire o è qualcosa di indesiderabile, oppure potrebbe essere fornito in modo migliore, più efficiente e più economico dal «mercato». A partire da quel periodo, la sostituzione dei servizi pubblici con servizi privati o privatizzati è stata massiccia. Attività caratteristiche di un governo nazionale o locale come gli uffici postali, le prigioni, le scuole, l’approvvigionamento idrico e anche i servizi assistenziali e previdenziali sono stati ceduti a (o trasformati in) imprese commerciali; i dipendenti pubblici sono stati trasferiti ad agenzie indipendenti o rimpiazzati con subappaltatori privati. Anche alcune parti dell’apparato bellico sono state subappaltate. E, naturalmente, il modus operandi delle aziende private - che mirano alla massimizzazione dei profitti - è diventato il modello al quale ogni governo aspira a uniformarsi. E nella misura in cui ciò avviene, lo Stato tende a fare affidamento su meccanismi economici privati per sostituire la mobilitazione attiva e passiva dei propri cittadini. Allo stesso tempo, è impossibile negare che nei Paesi ricchi del mondo gli straordinari trionfi dell’economia mettono a disposizione della maggior parte dei consumatori più di quanto i governi o l’azione collettiva abbiano mai promesso o fornito in tempi più poveri. Ma il problema sta proprio qui. L’ideale della sovranità del mercato non è un complemento, bensì un’alternativa alla democrazia liberale. Di fatto, esso è un’alternativa a ogni sorta di politica, poiché nega la necessità di decisioni politiche, che sono esattamente le decisioni sugli interessi comuni o di gruppo in quanto distinti dalla somma di scelte, razionali o meno che siano, dei singoli individui che perseguono i propri interessi personali. Si aggiunga che il continuo processo di discernimento per scoprire che cosa vuole la gente, processo messo in atto dal mercato (e dalle ricerche di mercato), deve per forza essere più efficiente dell’occasionale ricorso alla grezza conta elettorale. La partecipazione al mercato viene a sostituire la partecipazione alla politica; il consumatore prende il posto del cittadino. Francis Fukuyama ha di fatto sostenuto che la scelta di non votare, così come la scelta di fare la spesa in un supermercato anziché in un piccolo negozio locale, «riflette una scelta democratica fatta dalle popolazioni. Esse vogliono la sovranità del consumatore». Senza dubbio la vogliono, ma questa scelta è compatibile con ciò che abbiamo imparato a considerare come un sistema politico liberaldemocratico? Così, lo Stato territoriale sovrano (o la federazione statale), che forma la cornice essenziale della politica democratica e di ogni altra politica, è oggi più debole di ieri. La portata e l’efficacia delle sue attività sono ridotte rispetto al passato. Il suo comando sull’obbedienza passiva o il servizio attivo dei suoi sudditi o cittadini è in declino. Due secoli e mezzo di crescita ininterrotta del potere, del raggio d’azione, delle ambizioni e della capacità di mobilitare gli abitanti degli Stati territoriali moderni, quali che fossero la natura o l’ideologia dei loro regimi, sembrano essere giunti al termine. L’integrità territoriale degli Stati moderni - ciò che i francesi chiamano «la Repubblica una e indivisibile» - non è più data per scontata. Fra trent’anni ci sarà ancora una singola Spagna - o un’Italia, o una Gran Bretagna - come centro primario della lealtà dei suoi cittadini? Per la prima volta in un secolo e mezzo possiamo porci realisticamente questa domanda. E tutto ciò non può non influire sulle prospettive della democrazia.


Dibattito Francis Fukuyama, Norbert Elias e Moisés Naím sono alcuni degli autori di cui Hobsbawm discute le tesi nei saggi contenuti all’interno del volume «La fine dello Stato». Il brano pubblicato qui accanto è tratto da una conferenza tenuta dallo storico britannico al club Athenaeum di Londra

L’autore e le opere Timori e interrogativi oltre il «Secolo breve» Il testo pubblicato in questa pagina è un estratto dal nuovo libro di Eric Hobsbawm (nella foto) «La fine dello Stato» (traduzione di Daniele Didero, pagine 123, 9) in uscita il 7 novembre per Rizzoli Il volume raccoglie e rielabora alcuni testi in cui lo storico britannico discute problemi cruciali del nostro tempo, dal destino delle nazioni al futuro della democrazia, fino alle nuove forme assunte dalla violenza politica Eric Hobsbawm, nato ad Alessandria d’Egitto da genitori ebrei austriaci, ha compiuto novant’anni lo scorso 9 giugno. Vive dal 1933 in Gran Bretagna, dove presiede il Birkbeck College dell’Università di Londra Storico di formazione marxista, ha acquisito una grande notorietà internazionale con i suoi studi sull’età contemporanea: «Le rivoluzioni borghesi. 1789-1848» (Laterza), «Il trionfo della borghesia. 1848-1875» (Laterza), «L’età degli imperi. 1875-1914» (Mondadori), «Il secolo breve. 1914-1991» (Rizzoli). La sua opera più recente tradotta in Italia è «Imperialismi» (Rizzoli)

«Corriere della sera» del 28 ottobre 2007

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