02 ottobre 2007

È nella Bibbia la più bella canzone d’Amore

Un teologo a confronto con il Cantico dei Cantici. Perché parlare dell’amore è parlare della verità della vita: farlo alla scuola della parola di Dio è andare alle sorgenti eterne e scrutare gli orizzonti ultimi di ciò che siamo chiamati ad essere e di ciò che siamo
Di Bruno Forte
I misteri di un testo che sta al centro di quella storia dell’amore fra Dio e le Sue creature che è la Bibbia. Perché se l’Antico Testamento inizia con il grido esultante dell’uomo di fronte alla donna: "Questa, sì, è carne della mia carne, osso delle mie ossa", il Nuovo termina con il grido d’amore della sposa per lo sposo divino: "Lo Spirito e la sposa dicono: Vieni!", in mezzo, appunto, sta l’unico libro biblico a essere composto dall’inizio alla fine in forma di dialogo «Questo cantico comprende tutta la Torah; comprende l’opera della creazione; comprende il mistero dei Padri; comprende l’esilio d’Israele in Egitto e il canto del mare; comprende l’essenza del Decalogo e il patto del monte Sinai e il peregrinare d’Israele nel deserto, fino all’ingresso nella terra promessa e alla costruzione del Tempio; comprende l’incoronazione del santo nome celeste nell’amore e nella gioia. Comprende l’esilio d’Israele fra le nazioni e la sua redenzione; la risurrezione dei morti fino al sabato del Signore»

«Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei Cantici è stato donato a Israele» (Rabbi Aqiba, citato in Mishnah Jadajim 3,5). Queste parole di uno dei grandi maestri della tradizione ebraica dicono incisivamente quanto il Cantico sia stato considerato e amato da essa. Il testo è una delle «meghillot», uno dei rotoli, cioè, da leggere nella liturgia sinagogale: il fatto che venga proclamato a Pasqua, la festa centrale fra tutte che celebra la liberazione dalla schiavitù d’Egitto e il passaggio del Mar Rosso, testimonia di quale considerazione goda Shir Ha Shirim (questo il nome ebraico: il Cantico dei Cantici, il «Cantico sublime»). Ancora oggi nelle famiglie ebree il sabato è accolto come la sposa del Cantico (in ebraico «shabbat» è femminile). Il Libro dello splendore o Zohar riconosce nel Cantico l’intera rivelazione di Dio: «Questo cantico comprende tutta la Torah; comprende tutta l’opera della creazione; comprende il mistero dei Padri; comprende l’esilio d’Israele in Egitto e il canto del mare; comprende l’essenza del Decalogo e il patto del monte Sinai e il peregrinare d’Israele nel deserto, fino all’ingresso nella terra promessa e alla costruzione del Tempio; comprende l’incoronazione del santo nome celeste nell’amore e nella gioia; comprende l’esilio d’Israele fra le nazioni e la sua redenzione; comprende la risurrezione dei morti fino al giorno che è il sabato del Signore» (Libro dello splendore. Teruma 144a).
Nella tradizione cristiana il Cantico gode di una stima non minore: «Beato chi comprende e canta i cantici della Sacra Scrittura – afferma Origene –, ma ben più beato chi canta e comprende il Cantico dei Cantici» (Omelia sul Cantico l,l: Pg 13,37). Attraverso l’uso dell’interpretazione allegorica, tutto il Cantico appare come un paradigma del Cristo: così, l’Amato che viene saltando sopra i monti di Ct 2,8 è riconosciuto sin dal primo commento cristiano come «il Verbo, saltato dal cielo fin nel corpo della Vergine, dal sacro ventre sul leg no della Croce, dal legno negli inferi, di là nella carne (della risurrezione)... infine, dalla terra al cielo» (Ippolito di Roma, Commento al Cantico, XXI, 2). Le descrizioni del Cantico vengono interpretate come metafore della vita della Chiesa: «Se tu senti nominare le membra dello sposo, cerca di capire che in realtà sono evocati i membri della Chiesa» (Origene, Commento al Cantico, libro II, su Ct 4). Muovendo dal Cantico sviluppa la sua riflessione sui gradi della «violenta carità» Riccardo di San Vittore, combinando genialmente teologia ed esperienza spirituale per sottolineare come il rapporto d’amore con Dio non lasci nessuno come lo ha trovato, ma al contrario segni in modo indelebile la sua anima: «Grande è la forza dell’amore, meravigliosa la potenza della carità» (I quattro gradi della violenta carità, 2). Al Cantico si ispira la mistica cristiana, celebrando il rapporto d’amore con Dio: basti pensare ai versi di San Giovanni della Croce: «In una notte oscura / con ansie di amor tutta infiammata, / o felice ventura!, / uscii, né fui notata, / stando già la mia casa addormentata. / ... / Notte che mi guidasti! /oh, notte amabile più che l’aurora / oh, notte che hai congiunto / l’Amato con l’amata / l’amata nell’Amato trasformata» (San Giovanni della Croce, Noche oscura, Strofe l e 5).
Eloquente e ispirativo nelle più diverse stagioni della tradizione ebraico-cristiana, il Cantico continua a parlare anche oggi: «Questo – afferma Guido Ceronetti – è un Cantico di oggi, per il presente, per servirgli restando quel che è, un punto lontano» (Il Cantico dei Cantici, Adelphi, Milano 1975. 2005, 114). E aggiunge: «Colpisce la somiglianza delle sue parole coi gradi più alti del silenzio; è una musica cessata in ogni suo suono, che affiora come pura memoria» (115). La forza evocativa per ogni uomo, per ogni tempo, di queste poche parole (1250: 117 versetti), continua a essere riconosciuta: «Per esprimere l’Assoluto in una visione umana è bastato questo arco brev e» (115). Non si può non chiedersi come un’opera storicamente datata, probabilmente del tardo post-esilio (IV-III secolo a.C.), abbia potuto esercitare una tale influenza sull’anima ebraico-cristiana e in generale sulla storia culturale e religiosa dell’umanità. La ragione di questo fascino esercitato dal Cantico sta plausibilmente nel fatto che esso si muove sulla soglia, in quella sottile striscia di esperienza universalmente umana, dove la morte è eguagliata solo dall’amore. Scrive ancora Ceronetti: «Forse perché sei la sera, la morte velata – Cantico, sacro Cantico – di Te ho paura» (128). Proprio così il Cantico è poesia: «Senza poesia non si può vivere e tanto meno amare. Grazie a Dio c’è poesia nella Bibbia» (D. Garrone, Introduzione al Cantico dei Cantici, traduzione di G. Bemporad, Morcelliana, Brescia 2006, 30). Il Cantico è amore portato alla parola, non risolto in essa: «Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore» (4,9). Il Cantico è la prova di come sia l’amore a spingere a parlare dell’amore: «Urget caritas de caritate loqui» (Riccardo di San Vittore, I quattro gradi della violenta carità, l). Si può capire il Cantico, allora, solo se si è inquietati dall’amore, feriti da esso, attratti, animati o motivati dall’esperienza di amare. Per la comprensione del Cantico vale la legge dell’amore: «Amor che a null’amato amar perdona» (Dante, Inferno, V, 103). Solo l’amore capisce l’amore: solo l’amore introduce nel santuario del Cantico e ne rivela le profondità abissali.
È l’amore il tema del Cantico: si comprende, perciò, come proprio questo piccolo libro stia al centro di quella narrazione della storia dell’amore fra Dio e le Sue creature, che è la Bibbia. «Il Primo Testamento inizia con il grido esultante dell’uomo di fronte alla donna: "Questa, sì, è carne della mia carne, osso delle mie ossa" (Gen 2,23). Il Nuovo termina con il grido d’amore della sposa per lo sposo divino: "Lo Spirito e la sposa dicono: Vieni!" (Ap 22,17). In mezzo alla Bibbia, Primo e Nuovo Testamento, vi è il Cantico dei Cantici, il libro dell’amore, il cuore della Bibbia» (Cantico dei Cantici, nuova versione, introduzione e commento di G. Barbiero, Paoline, Milano 2004, 8). In quanto libro dell’amore, il Cantico è anche l’unico libro biblico a essere composto dall’inizio alla fine in forma di dialogo: «Il fatto stesso del dialogo è significativo, perché indica, nella prossimità, anche la distanza dei due amanti, come è tipico del vero amore» (ib., 420). Ma di quale amore si tratta? È amore umano, solo umano, quello di cui parla il Cantico? O è anche amore divino?


l verbo ’ahev = «amare» è un termine chiave in Shir Ha Shirim, tanto che esso e i suoi derivati vi ricorrono ben diciotto volte: ’ahavah = «amore» corrisponde ai tre termini greci eros, philìa e agàpe, ed esprime nella Bibbia ebraica sia l’amore per Dio (cfr. Dt 6,5), sia l’amore di amicizia (1 Sam 18,1: Davide e Gionata), sia l’amore di un uomo per una donna (Gdc 16,4: Sansone per Dalila). Si tratta di un unico amore che intreccia le varie possibilità: in tutte è però presente l’Eterno, come sottolineano i maestri ebrei mostrando come la parola ’ahavah abbia due lettere in comune col nome divino impronunciabile, significato dal Tetragramma sacro (Jhwh). L’identità di posizione delle he all’interno dei due termini viene interpretata come l’espressione di un rapporto mistico fra la coppia umana e il Creatore, in forza del quale l’uomo e la donna nella loro relazione d’amore rendono presente il Nome divino fra gli uomini. In ogni esperienza veramente umana di amore si fa esperienza di Dio: questo è il senso che al Cantico dà la professione di fede di 8,6: «Forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore!». «Come la morte l’amore chiede tutto. Amare vuol dire perdere la propria libertà e la propria vita, non appartenere più a se stessi... Bisogna perdersi per ritrovarsi» (i b., 427: cfr. Le 9,24). A questa esperienza della totale esigitività dell’amore corrisponde la convinzione che la fede d’Israele non può essere che riconoscimento della totale appartenenza al Dio unico (cfr. Dt 6,4).
Questa ricchezza di sensi del tema «amore» fa comprendere come del libro dell’amore che è il Cantico siano state date le più diverse interpretazioni: esse vanno dalla lettura voluttuosa, che ne esalta il senso erotico, a quella virtuosa, che vi coglie la parabola dell’amore indissolubile, da quella sapienziale, che vi legge la ricerca e l’amore della Sapienza, a quella mistica, che vi riconosce il canto dell’unione fra l’anima e Dio. C’è chi ha dato del Cantico un’esclusiva interpretazione simbolica e chi lo ha letto solo in senso letterale, come canto di amore o collezione di canti nuziali. Una foresta di simboli pervade comunque l’intero testo: l’Amato, l’amore, il corpo, il giardino, il creato, la società... Il «filo rosso» in questa selva di sensi è rappresentato dal tema della ricerca amorosa, con l’accentuazione della presenza gustata dopo l’amarezza dell’assenza, dell’aurora accolta dopo la notte, dell’oblio di sé vissuto come condizione per trovare l’Altro.


n indizio importante per cogliere nel Cantico la pluralità di sensi riferiti all’amore è il termine Dodî = «amato mio»: esso contiene le lettere del nome David. Già così, rimanda contemporaneamente al singolo innamorato di Dio, di cui Davide, il cantore dei salmi, è figura, e al popolo messianico, costitutivamente legato alla discendenza davidica. In quanto poi il termine ricorre ventisei volte nel Cantico, e ventisei è un numero sacro per la ghematria ebraica perché è il valore numerale del tetragramma Jhwh, è possibile riconoscervi anche il riferimento all’Amato divino.
L’amore del Cantico è allora al tempo stesso quello dell’amato per l’amata, quello di Dio per il Suo popolo e del popolo per Dio, e infine quello del singolo credente per il Signore. Che l’amore in tutta la ricchez za del suo significato sia il tema dominante del Cantico è mostrato anche dal fatto che il testo si preoccupa di presentare sin dall’inizio i due protagonisti come l’amata e l’amato. È interessante notare che a pronunciare il maggior numero di parole nel Cantico sia la donna (una sessantina di versetti), mentre all’uomo ne sono riservate poco più della metà (trentasei versetti). È questo un implicito riconoscimento dell’inclinazione che la donna ha verso la sapienza dell’amore, non solo nel senso della capacità oblativa che dimostra, ma anche della disponibilità a intuire, presentire ed evocare la presenza dell’Amato. Quest’attitudine alla percezione e alla comunicazione dell’amore è intesa dalla tradizione ebraica come risultante naturale dell’essere la donna sorgente della vita: se vivere veramente è amare, colei che nella casa accende la candela del sabato per introdurre la famiglia intera nella vita nuova del riposo divino, la donna, è anche quella che in generale saprà meglio accendere e alimentare la fiamma dell’amore.
A prendere la parola per prima è lei, l’amata, e lo fa per parlare di lui: «I tuoi amori sono più buoni del vino. Per fragranza sono belli i tuoi profumi. Profumo che si spande è il tuo nome, per questo le giovinette ti amarono» (1,2s). Per quanto letterale, la traduzione non rende la musicalità di queste bellissime parole d’amore: essa gioca sull’assonanza fra il termine shem, che vuol dire «nome», e il termine shemen, che significa «profumo». Il solo nome dell’amato riempie l’aria di profumo, che incanta lei, come incantò altre. Nel versetto seguente all’olfatto si unisce il gusto: «Ricorderemo i tuoi amori più del vino» (v. 4: cfr. v. 2). È come se il ricordo dell’amato abbia un sapore, forte come quello del vino. Tutti i sensi sono convocati per descrivere l’attrazione che lui esercita su tutto l’essere di lei, passando attraverso l’udito, la visione, il tatto: «Attirami dietro a te, corriamo!» (v. 4). Così lei si mette alla ricerca di lui , abbandonando la vigna sicura dei suoi fratelli per cercare lui nel rischio e nell’insicurezza (v. 6). E la ragione di questa scelta è che lui è l’amore dell’anima sua (v. 7).
Interviene quindi lui a parlare di lei, «bella fra le donne» (v. 8), e ne descrive le guance, il collo, il portamento regale (vv. 9s), rivolgendole un invito pieno di suggestione, perché pervaso dalla memoria sacra di tutto Israele: «Escitene sulle orme del gregge» (v. 8). È il verbo dell’Esodo jasa: l’invito è a mettersi in atteggiamento di esodo, ad abbandonare le proprie sicurezze per affrontare il nuovo. Come fu per Abramo (Gen 12,1), così per l’amata l’invito è a lasciare ogni sicurezza per andare verso la terra promessa dell’amore. Lontani fisicamente, i due sono vicini nell’anima, e il mondo intero sembra invitarli a realizzare il loro desiderio di incontrarsi: è il senso delle stupende parole dell’amato:

Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!
Perché, ecco, l’inverno è passato,
è cessata la pioggia, se n’è andata;
i fiori sono apparsi nei campi,
il tempo del canto è tornato
e la voce della tortora ancora si fa sentire
nella nostra campagna.
Il fico ha messo fuori i primi frutti
e le viti fiorite spandono fragranza.
Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!
O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi,
mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro (2,10-14).

Fra i due protagonisti si crea così il ponte dell’amore, che non tollera alcuna lontananza e sfida ogni separazione, perché l’amore è reciproca appartenenza, anche quando si vive la ferita del non essere insieme. È il senso della formula usata da lei in 2,16: «Dodî lî-wa’anî lô – il mio amato a me e io a lui». L’espressione dice il totale appartenersi degli amanti nell’amore: si tratta di un’appartenenza caratterizzata dalla reciprocità, che esclude ogni prevaricazione dell’uno sull’altro, come mostra il fatto che in 6,3 la s tessa formula è presentata nell’ordine inverso: «lo sono del mio amato e lui è mio». L’amore è insomma esodo da sé di ciascuno dei due per essere dell’altro. Questa trama complessa di legami d’amore non è presentata mai staticamente nel Cantico, ma evocata nelle forme proprie dei dinamismi dell’amore: l’amore è cammino che si apre al cuore e alla vita, e perciò non può non vivere di tappe e di gradi: «Grande è la forza dell’amore, meravigliosa la potenza della carità. Molti sono i gradi dell’amore e fra essi grande è la differenza» (Riccardo di San Vittore, I quattro gradi della violenta carità, 2).
Questi gradi o tappe caratterizzano il rapporto dell’Amato e dell’Amata, fatto di ricerca, di incontro, di nuova ricerca fino al definitivo reciproco possesso: «La fusione delle due persone rende il dialogo impossibile, mentre dei due amanti del Cantico è caratteristica la parola», e dunque la reciproca ricerca (Cantico dei Cantici, nuova versione, introduzione e commento di G. Barbiero, Paoline, o.c., 420). Appunto per durare l’amore ha bisogno di distanza, di incontro, di nuova distanza, di nuovo incontro. Si profilano così i gradi dell’amore nel Cantico, corrispondenti alle tappe in cui il dialogo fra i due si svolge, fra lontananza e prossimità. Sono gradi, riferibili sia all’amore umano, che al rapporto con Dio. Il primo grado è quello dell’amore che cerca. In esso a dominare sono il desiderio e la ricerca, e l’altro è percepito come l’assente Presenza. Proprio così i due si profilano in questa tappa come mendicanti d’amore, cercatori ardenti dell’amato altro. Il secondo grado dell’amore è quello del tocco dell’amore, dell’amore, cioè, che trova e nuovamente perde la persona amata. Ad aver rilievo è qui il «bacio mortale» , ovvero l’incontro con l’Amato, che sembra uccidere e dà la vita, perché, mentre tutto assorbe, tutto dona. Il movimento della relazione fra i due è quello dell’abbandono di sé nell’Altro: si delinea qui la grande legge dell’amore, quel morire p er vivere, che mostra come vita e morte stiano nell’esperienza d’amare in fatale duello, che però, quando l’amore c’è, è a favore della vita. Infine, la terza tappa è quella dell’amore vittorioso. Vi emerge il contesto del giardino fiorito, dove i due non sono più due, ma Uno, e il ritrovarsi di ciascuno nell’altro è pegno e caparra della vittoria sulla morte, che è la vita senza fine dell’amore.

poema mistico

Il Cantico dei Cantici è un libro presente sia nell’Antico Testamento della Bibbia cristiana che nella Bibbia ebraica. Nella raccolta cristiana è inserito tra i libri sapienziali; in quella ebraica è incluso nei Ketuvim. È conosciuto anche come Cantico di Salomone, poiché se ne attribuisce la paternità all’antico re di Israele del X secolo a.C.: la tradizione ebraica vuole sia stato scritto con la costruzione del Tempio di Gerusalemme. In realtà si ritiene sia opera di uno scrittore anonimo del IV secolo a.C. che ha fatto confluire nel testo diversi poemi antecedenti originari dell’area mesopotamica. Il libro, non seguendo un ordine prestabilito, ha sempre presentato delle difficoltà nel momento in cui si è voluto suddividerlo per uno studio più approfondito. Alcuni lo hanno considerato divisibile in cinque cantici, oppure in sei scene, oppure in sette poemi o più, e fino ad arrivare al caso estremo di considerarlo formato di ventitre cantici.
La suddivisione maggiormente accettata è la seguente, composta di un prologo, di cinque poemi e di due appendici:
Prologo 1,1-4;
Primo poema 1,5-2,7;
Secondo poema 2,8-3,5;
Terzo poema 3,6-5,1;
Quarto poema 5,2-6,3;
Quinto poema 6,4-8,4;
Prima appendice (chiamato anche epilogo) 8,5-7;
Appendice finale 8,8-14.
È uno dei testi più lirici e inusuali delle Sacre Scritture. Racconta in versi l’amore tra due innamorati, con tenerezza ma anche con un ardire di toni ricco di sfumature sensuali e immagini erotiche. Sia la dottrina canonica ebraica che cristiana lo interpretano come allegoria religiosa, nel primo caso dell’amore del creatore per il suo popolo (Israele), nel secondo caso dell’amore tra Cristo e la chiesa. Per la santità del contesto e del suo significato simbolico, il testo viene paragonato al luogo più santo ed interno del Tempio di Gerusalemme, il Kodesh haKodashim: il Cantico dei Cantici infatti include metaforicamente tutta la Torah.
Avvenire del 12 agosto 07

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