04 luglio 2007

Zanzotto, l’ora della prosa

Un libro-intervista del poeta
di Marzio Breda
Colloquio con Laura Barile e Ginevra Bompiani
I suoi versi più recenti li vede un po’ come «quei fiumi che scendono alle spalle dell’Himalaya verso i deserti al centro dell’Asia» e lì spariscono dopo aver percorso migliaia di chilometri, ad esempio il Tarim. Sono cioè testi irrigati da una sorgente attiva già molto tempo fa, e infatti «nascono ancora sia dal paesaggio devastato che dai pensieri sconquassati e incerti delle spinte della poesia». Ma confessa che, da quando procede nella vecchiaia, scrivere è diventato per lui una cosa diversa, perché «cambia l’idea della finalità» e mutano le pressioni esterne, con il risultato che si accentua un rischio «d’inaridimento» (ecco la metafora dei corsi d’acqua che evaporano nelle steppe). Così oggi tenta di «parlare per qualcuno che, nonostante parli, si trova sepolto nel silenzio». E, mentre s’inoltra nel «deserto nella poesia», spiega che non allude alla biblica vox clamans in deserto, quanto a una voce «soffocata dalla sabbia» del deserto. Fa effetto leggere le ultime riflessioni di Andrea Zanzotto e scoprire che, a 85 anni, resta impegnato su più fronti senza apparente stanchezza: pronto a scavare ancora nel linguaggio, a inoltrarsi in nuovi campi di sperimentazione, a interrogarsi sui «terribili limiti della poesia» e a superarli. Fa effetto verificare come abbia evitato il pericolo dell’afasia, ricorrente nella terza età, pescando dal profondissimo pozzo di sentimenti, immagini, storie, grande cultura (anche scientifica) cui ha attinto sempre. Con il risultato di produrre ancora, mantenendo una sorta di impossibile «serenità col batticuore», lampi straordinari sul nostro tempo. A partire da certi «orrori dall’Italia». Pensieri lunghi, maturati durante il periodo di quasi immobilità al quale è stato costretto da un incidente domestico, la frattura del femore, e che riemergono ora in un colloquio con Laura Barile e Ginevra Bompiani verbalizzato in un libro, Eterna riabilitazione da un trauma di cui s’ignora la natura (edizioni nottetempo, pp. 100, 8). Quel «trauma», vissuto alla stregua di una «colpa» misteriosa e inestinguibile, lo porta a ragionare su infiniti altri traumi, che s’infilano nel dialogo e offrono qualche chiave di decodificazione del suo lavoro. Il poeta racconta delle leggendarie malattie e dell’ipocondria («che ha paura di se stessa come prima malattia ed è oggi classificata tra le forme depressive»), delle debilitanti insonnie accompagnate dalla ricerca del silenzio assoluto («idea sbagliatissima, perché si sentono i rumori del corpo»), dei sogni («che sono tornati per via chimica»), della psicanalisi (che gli pare serva più che altro «a rifinire l’azione dei farmaci»). Lega le bizzarrie del clima, forse indizio di prossime catastrofi, alle proprie difficoltà fisiche e ragiona: «Possibile che non mi sia dato / compiere la più minuta / azione senza che il tempo / venga a riscuotere, usuraio atroce / la sua parte, con interessi / sempre più spropositati / esponenziali, demenziali...?». Lo angoscia la distruzione dell’ambiente e l’eclissi della bellezza. Lo opprime il fenomeno della «pletora» sempre più invasiva, esaltata dal consumismo e che ci fa cadere addosso troppo di tutto, come succede con «l’arcicomunicazione» di tv e Internet, fenomeno sul quale ha composto un fulminante epigramma: «In questo progresso scorsoio / non so se vengo ingoiato / o se ingoio». Provinciale cosmopolita chiuso nell’appartato microcosmo veneto di Pieve di Soligo, Zanzotto si trova adesso più che mai sul palcoscenico pur non avendo fatto nulla per salirci. Da mesi nel suo nome si alternano molte iniziative, convegni di studio, recital, concerti, interviste scritte o video (come quella di Marco Paolini per la regia di Carlo Mazzacurati, appena ampliata e ripubblicata da Fandango), nuove traduzioni in Francia e Stati Uniti e nuove pubblicazioni (come il poemetto Elleboro: o che mai?, a cura dell’associazione culturale marchigiana La Luna), in un continuo remaking della vita e delle opere. Un’intrusione affettuosa e necessaria, che gli fa però guardare al futuro «con alquanta repellenza, come l’asino che punta i piedi». Di sicuro, schivo com’è, teme la prospettiva di trasformarsi in oracolo, in monumento vivente. Ma per un Paese in ogni senso depresso e smarrito era fatale ritornare a leggere quello che, per mutuare il giudizio di Gianfranco Contini, è «il migliore tra i poeti italiani nati nel Novecento». Lo si definisce moralmente indispensabile e si vorrebbe interrogarlo su tutto, richiamarlo in servizio, attribuirgli un ruolo di supertestimone, reclutarlo come voce critica in grado di correggere il quotidiano sciocchezzaio nazionale. E Zanzotto quando può si concede e esce dal guscio con qualche ironia, senza però offrire risposte consolatorie o ambigue o furbe. Delle mezze profezie, piuttosto, e non a caso i suoi versi ne hanno distillate tante, fin da quando era proibito far vacillare un certo modo d’intendere il progresso. Insomma: starlo ad ascoltare offre antidoti salutari.
«Corriere della sera» del 16 aprile 2007

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