La Fiera del Libro chiama a raccolta autori di tutto il mondo. Un fantasma si aggira al Lingotto: la crisi dell’impegno oltre le ideologie e l’industria culturale
di Maurizio Cecchetti
Negli anni Trenta fondarono i Congressi internazionali in difesa della cultura e contro i totalitarismi: da Orwell a Bernanos, da Brecht a Tolstoj fino a Hemingway
Sono passati circa settant'anni da quando Bertolt Brecht scriveva questi versi rivolti «a coloro che verranno»: «Quali tempi sono questi, quando / discorrere d'alberi è quasi un intollerabile delitto, / perché su troppe stragi comporta silenzio!». Era il 1938, eppure sembrano di oggi. O meglio: viviamo in un'epoca di parole sempre più ecologiche, anzi quasi igieniste, ma di pochissime voci che abbiano voglia di sporcarsi con il fango di un mondo che per molti sta assumendo sembianze apocalittiche, mentre da più parti sale lieto e quasi frivolo il «tutto va ben, madama la marchesa». Gli scrittori forse non possono cambiare questo mondo, ma hanno quantomeno l'obbligo di porsi la domanda: perché va così? Nell'epoca dei regimi dittatoriali, lungo gli anni Trenta, alcuni di loro si riunirono nei Congressi Internazionali degli Scrittori; non che fosse la panacea per tutti i mali, era però una risposta alla preoccupazione suscitata dall'avvento dei fascismi in Europa. Naturalmente, la medaglia ha sempre due facce: dietro un certo anarchismo c'era anche l'opera dei movimenti della sinistra europea e già l'ombra del grande burattinaio sovietico che grazie all'internazionale comunista portava avanti una strategia atta a incrinare il già traballante equilibrio delle democrazie europee. C'era, nondimeno, un vasto fronte che venne poi denominato «non conformista», nel senso che univa scrittori e intellettuali di culture politiche diversissime, animati però da una pervicace volontà di combattere ogni forma di totalitarismo (compreso quello capitalista e democratico).
C'è anche l'anniversario tondo tondo, se si pensa al Congresso del 1937 a Valencia, che durò quindici giorni e venne monopolizzato dal dibattito sulla Spagna, la guerra e il fascismo iberico. Si chiedeva, ovviamente, solidarietà per la causa repubblicana. E fu forse il primo caso in epoca moderna di un impegno così massiccio di scrittori e intellettuali (Tolstoj, Benda, Aragon, Bergamín, Brecht, Tzara, Malr aux, Spender, Anna Seghers, Neruda, Alberti, Stern, Hemingway, per dirne soltanto alcuni più celebri). L'eco si allargava agli altri paesi europei: un sondaggio fra gli scrittori inglesi dava un sostegno schiacciante alla causa repubblicana (Auden scrisse il poema «Spain» invitando a prendere le armi, invito che Orwell aveva anticipato arruolandosi in una milizia anarchica a Barcellona: poi, però, in Omaggio alla Catalogna registra le magagne che divisero al suo interno la compagine repubblicana e la sua penna quasi si fa racconto senza opinioni della deriva in corso); e qualcosa del genere accadde anche fra gli scrittori americani, col sostegno morale di Hemingway, Faulkner, Hammett, Steinbeck, Th. Dreiser...
La Francia aveva tenuto banco già nel 1935, col Congresso di Parigi, dove la squadra di casa sfoggiava nomi come Aragon, Gide, Tzara, Aveline, Rolland, Malraux (che partecipò poi alla guerra di Spagna a capo di una squadriglia aerea e da questa avventura trasse il romanzo L'Espoir). Fu allora che nacque la categoria dell'impegno: e numerosi in Francia furono gli appelli sulla stampa affinché il governo francese prendesse partito: ne firmarono, per esempio, Nizan, Mauriac, Maritain, Eluard o Saint-Exupery. Sul fronte della destra il poeta Paul Claudel scrisse un poemetto in cento versi dedicandolo Ai martiri spagnoli dove difendeva la tradizione della Spagna cattolica. Anche Bernanos aveva cominciato partecipando alla guerra nelle fila della destra, ma divenne poi uno dei nemici più accesi del falangismo. Fu da questa disillusione che trovò la spinta per scrivere un libro tremendo e controverso come I grandi cimiteri sotto la luna.
I Congressi di settant'anni fa hanno fatto scuola per un po': nel 1956 e nel 1959 si tennero a Parigi e a Roma i Congressi internazionali degli Scrittori e Artisti neri, e fra i promotori c'era anche Léopold Sédar Senghor, poeta e futuro presidente senegalese. E l'epoca sovietica suscitò altre mobilitazioni ufficiali e clandestine nell'Europa dell'Est e dell'Ovest durante gli anni Sessanta e Settanta, emblematicamente riassunte nelle vicende umane e letterarie di Pasternak e Solzenicyn.
Fa riflettere, dunque, una Fiera come quella che si apre domani al Lingotto di Torino dove si parla di confini, di frontiere reali e immaginarie, di globalizzazione e apertura alle culture; arriveranno a Torino scrittori da ogni parte del mondo, ma è già sicuro che questo accade non perché vi sia bisogno di mettere insieme le forze e testimoniare contro i poteri forti di oggi. Cosmopolitismo di un tempo, internazionalismo degli anni Trenta e globalizzazione attuale stanno su sponde diverse e anche opposte. Ciò che un tempo serviva a unire oggi sembra dividere e ciascuno pensa a tirare acqua al proprio mulino, rispondendo al marketing dell'industria culturale. Lo scrittore non produce più idee, immagini, critica, ma merci. E le merci devono avere un target, uno slogan, un prezzo (accessibile ma remunerativo): è l'aspetto appariscente di un totalitarismo più subdolo, quello che equipara il lettore al consumatore, lo rende addomesticabile a un gusto grazie a un principio di esclusione che ha regole ferree: ciò che non rende economicamente, oppure disturba e inquieta, esige fatica e applicazione, critica l'ordine esistente, smonta dall'interno i pezzi del meccano linguistico e ne mostra le connivenze col potere; ciò che, in qualche modo, è contro l'industria culturale viene con logica darwiniana sacrificato, negato già nel pensiero. E questo accade forse anche perché l'«internazionale degli scrittori» ha abbandonato da molto tempo il «tutti per uno uno per tutti» considerandolo, in ossequio al luogo comune della fine delle ideologie, un vizio anacronistico. Può essere. Dopo l'«impegno» sembra doveroso guardare ogni appello a far fronte comune con un certo sospetto. Quarant'anni fa Günter Grass - cui l'estate scorsa si è fatto un processo mediatico per aver denunciato in ritardo un peccato in fondo veniale (considerando che venne commesso da un ragazzetto: quanti ce ne sono in Italia come lui, che poi hanno occupato posti di prestigio a destra e a sinistra e pure al centro) -, ragionava sulla «scarsa autostima di scrittori buffoni che scrivono per corti che non esistono»: era una critica al moralismo di chi, volendo essere consigliere del principe in realtà finisce per essere un melanconico ipocrita. Ma di fronte alle scaramucce letterarie, di cui abbiamo avuto nei giorni scorsi in Italia l'ennesimo teatrino di vacue schermaglie, cannibali sì/no (roba per tubi digerenti pelosi e a prova di chiodi), si capisce che oggi Torino e gli altri infiniti luoghi-festival sono soltanto ring dove gli sfidanti non combattono per una causa, tantomeno per la vittoria. Ciò che conta è che il pubblico esclami: guarda come se le danno! Accidenti che botta! Adesso lo spezza in due... Ma sai già che è tutto finto. Come in un incontro di wrestling, mero spettacolo.
C'è anche l'anniversario tondo tondo, se si pensa al Congresso del 1937 a Valencia, che durò quindici giorni e venne monopolizzato dal dibattito sulla Spagna, la guerra e il fascismo iberico. Si chiedeva, ovviamente, solidarietà per la causa repubblicana. E fu forse il primo caso in epoca moderna di un impegno così massiccio di scrittori e intellettuali (Tolstoj, Benda, Aragon, Bergamín, Brecht, Tzara, Malr aux, Spender, Anna Seghers, Neruda, Alberti, Stern, Hemingway, per dirne soltanto alcuni più celebri). L'eco si allargava agli altri paesi europei: un sondaggio fra gli scrittori inglesi dava un sostegno schiacciante alla causa repubblicana (Auden scrisse il poema «Spain» invitando a prendere le armi, invito che Orwell aveva anticipato arruolandosi in una milizia anarchica a Barcellona: poi, però, in Omaggio alla Catalogna registra le magagne che divisero al suo interno la compagine repubblicana e la sua penna quasi si fa racconto senza opinioni della deriva in corso); e qualcosa del genere accadde anche fra gli scrittori americani, col sostegno morale di Hemingway, Faulkner, Hammett, Steinbeck, Th. Dreiser...
La Francia aveva tenuto banco già nel 1935, col Congresso di Parigi, dove la squadra di casa sfoggiava nomi come Aragon, Gide, Tzara, Aveline, Rolland, Malraux (che partecipò poi alla guerra di Spagna a capo di una squadriglia aerea e da questa avventura trasse il romanzo L'Espoir). Fu allora che nacque la categoria dell'impegno: e numerosi in Francia furono gli appelli sulla stampa affinché il governo francese prendesse partito: ne firmarono, per esempio, Nizan, Mauriac, Maritain, Eluard o Saint-Exupery. Sul fronte della destra il poeta Paul Claudel scrisse un poemetto in cento versi dedicandolo Ai martiri spagnoli dove difendeva la tradizione della Spagna cattolica. Anche Bernanos aveva cominciato partecipando alla guerra nelle fila della destra, ma divenne poi uno dei nemici più accesi del falangismo. Fu da questa disillusione che trovò la spinta per scrivere un libro tremendo e controverso come I grandi cimiteri sotto la luna.
I Congressi di settant'anni fa hanno fatto scuola per un po': nel 1956 e nel 1959 si tennero a Parigi e a Roma i Congressi internazionali degli Scrittori e Artisti neri, e fra i promotori c'era anche Léopold Sédar Senghor, poeta e futuro presidente senegalese. E l'epoca sovietica suscitò altre mobilitazioni ufficiali e clandestine nell'Europa dell'Est e dell'Ovest durante gli anni Sessanta e Settanta, emblematicamente riassunte nelle vicende umane e letterarie di Pasternak e Solzenicyn.
Fa riflettere, dunque, una Fiera come quella che si apre domani al Lingotto di Torino dove si parla di confini, di frontiere reali e immaginarie, di globalizzazione e apertura alle culture; arriveranno a Torino scrittori da ogni parte del mondo, ma è già sicuro che questo accade non perché vi sia bisogno di mettere insieme le forze e testimoniare contro i poteri forti di oggi. Cosmopolitismo di un tempo, internazionalismo degli anni Trenta e globalizzazione attuale stanno su sponde diverse e anche opposte. Ciò che un tempo serviva a unire oggi sembra dividere e ciascuno pensa a tirare acqua al proprio mulino, rispondendo al marketing dell'industria culturale. Lo scrittore non produce più idee, immagini, critica, ma merci. E le merci devono avere un target, uno slogan, un prezzo (accessibile ma remunerativo): è l'aspetto appariscente di un totalitarismo più subdolo, quello che equipara il lettore al consumatore, lo rende addomesticabile a un gusto grazie a un principio di esclusione che ha regole ferree: ciò che non rende economicamente, oppure disturba e inquieta, esige fatica e applicazione, critica l'ordine esistente, smonta dall'interno i pezzi del meccano linguistico e ne mostra le connivenze col potere; ciò che, in qualche modo, è contro l'industria culturale viene con logica darwiniana sacrificato, negato già nel pensiero. E questo accade forse anche perché l'«internazionale degli scrittori» ha abbandonato da molto tempo il «tutti per uno uno per tutti» considerandolo, in ossequio al luogo comune della fine delle ideologie, un vizio anacronistico. Può essere. Dopo l'«impegno» sembra doveroso guardare ogni appello a far fronte comune con un certo sospetto. Quarant'anni fa Günter Grass - cui l'estate scorsa si è fatto un processo mediatico per aver denunciato in ritardo un peccato in fondo veniale (considerando che venne commesso da un ragazzetto: quanti ce ne sono in Italia come lui, che poi hanno occupato posti di prestigio a destra e a sinistra e pure al centro) -, ragionava sulla «scarsa autostima di scrittori buffoni che scrivono per corti che non esistono»: era una critica al moralismo di chi, volendo essere consigliere del principe in realtà finisce per essere un melanconico ipocrita. Ma di fronte alle scaramucce letterarie, di cui abbiamo avuto nei giorni scorsi in Italia l'ennesimo teatrino di vacue schermaglie, cannibali sì/no (roba per tubi digerenti pelosi e a prova di chiodi), si capisce che oggi Torino e gli altri infiniti luoghi-festival sono soltanto ring dove gli sfidanti non combattono per una causa, tantomeno per la vittoria. Ciò che conta è che il pubblico esclami: guarda come se le danno! Accidenti che botta! Adesso lo spezza in due... Ma sai già che è tutto finto. Come in un incontro di wrestling, mero spettacolo.
«Avvenire» del 9 maggio 2007
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