17 luglio 2007

«Mio padre, Manganelli, era come un orso impaurito»

Scontroso, ironico, complessato e terrorizzato dalle donne: un ritratto intimo del grande scrittore
di Cristina Giudici
«Avevo tanto sperato che nascesse di martedì, giorno in cui avvengono i miracoli e invece no, ha cominciato a farmi i dispetti da subito. E poi, via, le persone per bene non nascono alle 4 di mattina...». Così inizia la biografia che Lietta Manganelli sta scrivendo su suo padre, Giorgio, il genio furioso definito da Pasolini «teppista letterario», che ha donato alla letteratura italiana del ’900 capolavori quali Centuria e Dall’Inferno.
Comincia dalla reazione di nonna Amelia che voleva una femmina e per questo lo vestirà con completini di velluto e collettoni di pizzo macramè fino all’età di sei anni, quando andrà alle scuole elementari e sarà bocciato («Non so l’italiano e perciò faccio lo scrittore, non so l’italiano perciò scrivo sul Corriere della Sera» graffiò in un’occasione). Una biografia a cui Lietta, figlia unica di Giorgio Manganelli - Manga per amici e conoscenti -, sta lavorando da anni e vorrebbe completare entro il 2008. Si intitolerà Aspettando che l’inferno cominci a funzionare (il titolo è preso da uno dei racconti di Centuria) «perché mio padre non vedeva l’ora di andarci, all’inferno per poter mettere fine alla sua sofferenza fisica, psicologica ed esistenziale, per sperimentare finalmente la sospensione dei sentimenti».
Il viaggio di Lietta è finalizzato alla ricostruzione della vita di suo padre per rimarcare i tratti intimisti che emergono dalle lettere spedite ai familiari, soprattutto quelle alla moglie Fausta, ancora inedite, che pubblichiamo a lato per concessione di sua figlia. Un aspetto meno conosciuto di uno scrittore onnisciente e prolifico - che planava su ogni argomento e amava persino le strisce dei Peanuts - considerato istrionico, seduttore, dissacrante, incostante negli affetti e nelle passioni. Un ritratto fatto da una signora che ha 60 anni, vive in una frazione di Cascina, a pochi chilometri di Pisa, in una casa colonica stretta tra una fabbrica e i campi di grano, con i suoi tre figli, di cui due affetti da acondroplasia. «Adottati perché volevo crescere bambini che nessuno vuole».
Come Andrea, 36 anni, attore teatrale, voluto durante il primo matrimonio, quando lei faceva l’insegnante di sostegno con i portatori di handicap. «Volevo un nano», scherza lei che ha il naso del padre «e anche il suo dissacrante sarcasmo», sottolinea. Poi è arrivata Elisabetta, trovata in un ospedale intubata perché aveva deciso di morire e non voleva più mangiare. «Ho deciso immediatamente di portarmela a casa», spiega Lietta che è profondamente cattolica. «Scriva anche apostolica e romana», aggiunge con un sorriso sulle labbra che non l’abbandona mai, consapevole di essere riuscita - con la sua vita affettiva vissuta come un azzardo - a dare agli altri «ciò che non si ha», per parafrasare Lacan. Spezzando così la catena di crudeltà, dipendenze ossessive, amori spezzati o non ricambiati, dolori reiterati, nevrosi affettive di cui è intrisa la storia della famiglia Manganelli.
«I funzionari non ci hanno pensato molto su e mi hanno subito dato Elisabetta in affido. E mi hanno detto: che fa signora, gliela portiamo a casa noi o viene a prendersela?», ironizza Lietta che ha avuto in affido anche dodici bambini cresciuti e amati per cambiare il destino di suo padre, il quale in una lettera dell’8 luglio del 1974 le scrisse: «Cara Lietta tu hai forse il genio dell’amore, e allora potrò sperare che tu possa essermi veramente vicina senza giudicarmi, cosa che neppure io so fare, sebbene con furore ubbidisca a ciò che chiamo il mio destino...». Tutto questo dopo aver sposato un uomo «cattolico», con cui ha avuto anche una figlia biologica, Lara, e «un pisano», (l’attore Luca Fagioli, anche lui nano, che ha recitato in Gangs of New York di Scorsese), come se entrambe le caratteristiche (e i menage coniugali) fossero due fedi religiose che le hanno imposto sacrificio e sofferenza perché, per dirla con le parole di suo padre «non può esistere dolore inerte».
Lietta, nata a Milano, è cresciuta a Parma, dove sua madre l’ha affidata alla nonna per quindici giorni «ed è venuta a riprendermi 15 anni dopo». Ha conosciuto suo padre all’età di 18 anni, quando sua madre Fausta, che probabilmente non gli aveva perdonato di essere diventato un famoso scrittore solo dopo averlo cacciato di casa, la portò a Roma. «Non lo vedevo dal 1955. Per mia madre era un tabù assoluto, perciò quando andavo da lui dicevo a mia madre che andavo da Teresa, da una mia compagna di studi. Ci vedevamo di nascosto, come due amanti. Dopo la sua morte, ho trovato una valigia di lettere di mio padre indirizzate a me, e nascoste. Quando nacqui, io stavo nell’appartamento della servitù con mia madre, loro comunicavano solo attraverso dei bigliettini, la casa era grande e c’erano la stanza blu, rossa, verde. Lui non sopportava sentire nessuno respirare, figuriamoci un neonato: era terrorizzato e si sentiva responsabile di aver messo al mondo un’altra creatura che avrebbe potuto solo soffrire».
Il loro incontro è avvenuto nel ’63. «Io suonai il campanello e quando lo vidi pensai “oddio quanto è brutto (lui diceva di se stesso “con qualche aggiustamento posso assomigliare a un essere umano”), devo aver bussato alla porta di uno sconosciuto”». Manganelli la fece entrare e poi la chiuse per un’ora sul terrazzo, tirando giù le tapparelle. «Sentii degli urli. Quando mi liberò mi confessò che era venuto da lui Gadda: gli aveva fatto una scenata perché sosteneva che Hilarotragoedia (la sua prima opera pubblicata nel 1964 da Feltrinelli) fosse in realtà una dissacrazione de La cognizione del dolore; ma, come diceva lui, che colpa ne aveva se a quell’epoca c’era una grande abbondanza di madri matte? Per caso ne avevano entrambi una a testa e per questo i loro due libri avevano alcune analogie».
E infatti dal rapporto morboso e infelice con sua madre Amelia, possessiva e turbata, che non gli permise di andare a studiare alla Normale di Pisa, che non voleva che si sposasse, è partito il viaggio di Lietta attraverso la memoria del padre. «L’unica chiave per interpretare e capire il significato della sua opera è il rapporto di dipendenza e di paura delle donne che aveva amato, a cominciare da mia madre». Una madre che lui tentò di ammazzare il giorno in cui scoprì che aveva rubato i soldi destinati alle cure di suo padre, ammalato di cancro dopo aver bevuto della candeggina scambiandola per acqua perché al ritorno dalla prima guerra mondiale aveva perso oltre che alla gioia di vivere uno dei cinque sensi, il gusto. «Solo allora lui capì che il padre disprezzato era la vittima e la madre adorata il carnefice», spiega oggi Lietta, che conosce a memoria ogni frase, corsivo, aforisma, poesia di suo padre e ricorda ciò che lui diceva di sua madre Amelia, di origine ebraica. «Fra una mamma yiddish e un condor, non c’e differenza: entrambi strappano il cuore ma il condor almeno aspetta che tu sia morto».
Lietta gira l’Italia per incontrare scrittori, intellettuali, preti, amici, nemici, critici d’arte, pittori, ex fidanzate, amanti, per analizzare ogni frammento di lettere, quadri, cimeli, appunti, oggetti. È partita proprio dalle lettere scritte da suo padre alla madre Fausta, bellissima, cupissima, e alquanto ingrata, pare. «La chiamava “la mia favola bella” -, le sue lettere sono una testimonianza di un amore sprecato. Infatti lui morì due mesi esatti dopo di lei, dopo aver confidato a Giulia Niccolai: “Il mio psicoanalista dice che non ho più voglia di vivere e forse ha ragione”».
Il viaggio di Lietta parte dall’inizio, dalla sua nascita poco protetta dagli astri («I nati di mercoledì, governati da Mercurio, spiccano per intelligenza e razionalità, ma hanno un’autentica repulsione per doveri e responsabilità»), e cerca di cogliere ogni frase, ogni sfumatura, ogni frazione di una vita dolorosa, «la cui sofferenza era un prezzo da pagare per il suo genio», aggiunge. Dall’amore mai ricambiato da sua madre a quello per la poetessa Alda Merini, fino alla chiamata alle armi, nel ’43, nel 78º reggimento di Fanteria Lupi di Toscana. «Il suo capitano, Giovanni Terranova, mi disse che un giorno lo sorprese a leggere un libro in ungherese, e quando gli chiese se sapeva leggere quell’idioma lui rispose: “Ovviamente no, se no perché dovrei leggerlo?”». Fino alla sua militanza nelle file dei partigiani a Endenna, dove divenne capocellula, «senza mai riuscire a diventare comunista», afferma lei. «Il nostro in realtà era un dialogo affettuoso fra due persone adulte». Osteggiato dalla madre, che gettava dalla finestra tutti i suoi libri «e fece una tragedia quando scoprì che eravamo andati insieme a Barcellona», ricorda.
Lei e suo padre avevano due giochi, più che altro due riti: la religione e i necrologi. «Ci sfidavamo a trovare analogie fra la Bibbia e il Corano. E ovviamente vinceva sempre lui», sorride Lietta che però ha vissuto tutta la vita alla ricerca della religione giusta, con il movimento dei focolarini e anche con i mormoni. «In realtà mi sono avvicinata ai mormoni solo per via dei loro archivi genealogici perché volevo ricostruire la storia della mia famiglia. E poi io gli andavo dietro nella sua divertente mania di leggere gli annunci mortuari e cercavamo di immaginarci le storie di quelle persone che se ne erano andate, i destini di quelli rimasti...».
Quando Lietta incontrò suo padre, nel ’63, lui la portò immediatamente dal suo medico: «Questa è mia figlia», gli disse. «Che danni posso averle fatto?». «Mia madre lo aveva terrorizzato, lo aveva convinto che se mi avesse avvicinato sarei diventata pazza come lui», ride lei che non si considera affatto pazza, e ammette che suo padre - che sulla lapide fece incidere «non sono un ricordo ma una provocazione» - continua a essere uno spirito burlone e ogni tanto le fa i dispetti, facendo scomparire fogli, lettere e appunti che lei vorrebbe pubblicare, e manda acquazzoni, piogge e tempeste ogni volta che lei organizza un convegno alla sua memoria.
Dispetti che lei sopporta senza scomporsi, mentre apre le pagine del suo testo preferito: l’incipit di Sconclusioni. «Con calma e lentamente, rimisi mio padre nel cassetto...»: ma cosa diavolo avrà voluto dire? si chiede lei. Proprio la domanda che il Manga rivolgeva ai registi, quando rileggeva i suoi testi teatrali: «Ma cosa diavolo avrò voluto dire?».
«Il Giornale» del 5 luglio 2007

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