17 luglio 2007

Lo Strega non lava la macchia del cannibale


Il successo dell'autore di «Come Dio comanda» suscita invidia e fa rivivere le polemiche del ' 96
di Ranieri Polese

A dieci anni dall'esordio «pulp» Ammaniti è ancora nel mirino dei critici

«Il primo sorso affascina, il secondo Strega»: diceva così Sylva Koscina in un Carosello anni '60 dedicato al liquore che ha dato il nome al più importante premio letterario italiano. Dopo le reazioni all'annuncio del vincitore di quest'anno, verrebbe fatto di chiedersi quale sapore aveva il sorso dello Strega fatto bere a Niccolò Ammaniti. Senz' altro amaro come il veleno, con la festa già rovinata fin da subito dalla stroncatura in diretta tv fatta dal concorrente Mario Fortunato. Come non bastasse, domenica, su queste pagine, Angelo Guglielmi nell'intervista concessa a Paolo Di Stefano definiva Come Dio comanda «un libro deludente, totalmente costruito». Pur riconoscendo ad Ammaniti doti di narratore puro per le sue prove precedenti (Branchie, Fango, Io non ho paura), Guglielmi finiva per accomunare il libro premiato con quei romanzi italiani recenti «pensati in chiave televisiva o cinematografica», chiusi «entro spazi prefissati e poco originali, ma interessanti sul piano commerciale perché soddisfano il grande pubblico televisivo». Vincitore annunciato (non c' è stata vera gara fra i concorrenti), il giovane Ammaniti si era attirato gli odii inevitabili di quanti non tifavano per lui. Magari anche una discreta dose d' invidia, visto il successo internazionale di Io non ho paura, che ha superato nel mondo - grazie anche al film di Gabriele Salvatores - il milione di copie vendute. Su Come Dio comanda, a suo tempo, i critici si erano divisi: ad alcuni era piaciuto l'impianto realistico di questa storia italiana di un padre balordo e di un figlio trascinato in una stupida rapina; ad altri no. I primi avevano preso sul serio l' intenzione dello scrittore di raccontare la realtà di un paese «disgregato, sgrammaticato, popolato di persone senza passato e senza futuro». Gli altri non avevano apprezzato il nichilismo esibito, plastificato. Cose che capitano normalmente. Poi, però, il Premio ha scatenato un turbine di risentimenti e di effetti non controllabili. E allora, al di qua del valore del libro (personalmente ritengo che Come Dio comanda sia un bel romanzo e che il suo puntiglioso realismo - musiche, cellulari, auto, moto, programmi tv, capi di abbigliamento formano il catalogo degli oggetti che definiscono i personaggi - serva a descrivere il paesaggio di questo Paese), mi pare che stiamo assistendo a qualcos'altro. A una sorta di regolamento di conti cominciato molto tempo fa. Per l'esattezza, nel 1996, quando Ammaniti comparve nell'antologia Gioventù cannibale, pubblicata da Einaudi Stile libero. Quel manifesto del pulp italiano, quella summa del cattivismo di casa nostra divise fin da subito la critica. E se alcuni salutarono con gioia l' arrivo di una nuova generazione di scrittori «sgradevoli ma necessari» (Vassalli, Cases), altri attaccarono violentemente la «piatta insignificanza», l'assenza di stile, l'estrema povertà, il finto sangue ecc... (La Porta, Ferroni, Bonura, Onofri), denunciando l'antologia come una furba operazione di marketing. Da allora, quel dissidio non si è più ricomposto. Quell' odio non sembra essersi placato. Poco importa se i ragazzi cattivi sono cresciuti, se la loro scrittura ha saputo conquistare nuovi registri, se dalla contemplazione del trash televisivo sono passati alla rappresentazione della realtà (soprattutto con Aldo Nove e Niccolò Ammaniti). La macchia originata della nascita cannibale non si cancella. Nemmeno il liquore Strega basta a farla.

«Corriere della sera» dell’11 luglio 2007

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