30 luglio 2007

L’esclusione democratica

Il veto a Pannella candidato per il Pd
di Piero Ostellino
L'ufficio di presidenza del costituendo Partito democratico ha respinto la candidatura di Marco Pannella alle elezioni primarie per la futura leadership del partito perché «persona notoriamente appartenente a forze politiche o a ispirazioni ideali non riconducibili all’Ulivo-Partito democratico». Se si trattasse di una decisione «tecnica» che riguarda solo le procedure interne per la scelta della propria dirigenza da parte di un partito che per ora non c’è, non ci sarebbe molto da dire. Ciascuno dispone i mobili come meglio gli pare quando mette su casa. E decide, poi, come più gli piace, chi invitare e chi non. Ma si tratta di una decisione «politicamente motivata» che già definisce la collocazione ideale e politica di un partito che ci sarà, i cui costituenti si dicono intenzionati ad «aprirsi alla società civile» e si prefiggono l’obiettivo di incidere profondamente sul quadro politico nazionale. Qui, la questione non riguarda più «chi decide di invitare chi», bensì chi - gli elettori - decide di accettare o non l’invito a votare il partito. La decisione del Pd a me pare, dunque, culturalmente criticabile e politicamente persino autolesionista. Per due ragioni. Una di merito; l’altra di metodo. La ragione di merito. Marco Pannella è liberale. Respingendone la candidatura alle primarie perché «persona appartenente a ispirazioni ideali non riconducibili all’Ulivo-Partito democratico», l’Ufficio di presidenza del Pd fa sapere che, non solo i due partiti che daranno vita al nuovo partito, i Democratici di sinistra e la Margherita, non sono mai stati liberali. Ma che anche il Partito democratico non intende esserlo. Insomma, ammesso, e non concesso, che il Pd non finisca con essere la «fusione fredda» fra gli apparati dei due partiti, un fatto è certo: sarà la «fusione caldissima» dalla quale nascerà una forza politica che tutto sarà tranne che liberale. Mi chiedo, a questo punto, quanti - fra coloro i quali vorrebbero che a destra e a sinistra gli «ideali» liberali fossero più presenti e attivi - pensino valga ancora la pena di votarlo. Se non fosse una cosa seria, ci sarebbe da concludere che la sinistra riformista italiana assomiglia tragicamente a quel Tafazzi televisivo che godeva nel picchiarsi sulle proprie parti basse. La ragione di metodo. Le elezioni primarie sono lo strumento attraverso il quale, negli Stati Uniti, il Partito democratico e quello repubblicano scelgono i propri candidati alla Casa Bianca. Nessuno dei due - come ricorda una fonte non sospetta, Furio Colombo, a sua volta candidato alle primarie del Pd - si sognerebbe di inibire a qualcuno di candidarsi. Chi decide quale sarà il candidato alla presidenza Usa non sono i partiti, ma gli elettori. La stessa funzione si presumeva avessero nella elezione della leadership del Partito democratico. Ma, evidentemente, non è così. Aver respinto la candidatura di Pannella - che oltre tutto non avrebbe alcuna probabilità di essere eletto - equivale a aver detto che l’Ufficio di presidenza del Pd non crede nella sovranità degli elettori, ma solo in quella di chi voterà i candidati che piacciono ai futuri maggiorenti del partito. Che sembra si voglia far nascere proprio con questi metodi. Qui, ci sono due incongruenze. La prima è l’affermazione che i costituenti vogliono «aprirsi alla società». La seconda è l’attributo «democratico», dopo il sostantivo partito. Che i partiti, tutti i partiti, siano organizzazioni oligarchiche, rette da procedure più prossime al centralismo democratico leninista che alla democrazia rappresentativa, già lo si sapeva. La novità è che, ora, lo teorizzi formalmente l’Ufficio di presidenza di un partito «nuovo». A costo di ripetermi: Tafazzi for president?
«Corriere della sera» del 26 luglio 2007

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