17 luglio 2007

La rivincita del romanzo

Perché è inutile la discussione sul rapporto fra letteratura e potere: il talento non ha confini
di Alessandro Piperno
Alessandro Piperno: «La narrativa europea salvata dagli sconosciuti»
Eccoci qui - noialtri romanzieri europei a confronto - tristi, sudati, un pò patetici, che non smettiamo di interrogarci. Noi, epigoni degli epigoni, che non condividiamo alcunché. Neppure la lingua. Ci incontriamo di rado. Ci conosciamo a stento. Non siamo così interessati l’uno al romanzo dell’altro. Ci specchiamo nella nostra irrilevanza individuale e storica. Eccoci qui, lusingati dall’accoglienza trionfale riservataci dai palermitani: centinaia di persone stipate nella splendida Aula magna del Rettorato. Siamo consapevoli che un tempo la dizione «romanziere europeo» era una sciocca tautologia, nel senso che non ne esistevano altre. Se esistevano eri autorizzato a guardarle con la pietà appiccicosa che il gentiluomo rivolge al parvenu. Un tempo il romanzo era roba nostra (lo ha ricordato di recente anche Eugenio Scalfari). Henry James diceva che era nel DNA dello scrittore americano il guardare all’Europa con superstizione. Evidente la sua mancanza di lungimiranza: oggi il rapporto di forze è ribaltato. La superstizione ha cambiato domicilio, i posteri di James se ne infischiano di noi. E forse a ragione, perché siamo così trascurabili. Prendiamo il caso più emblematico. Il malato più grave. Il romanzo francese. Quello dalla tradizione più solida, più autorevole: Balzac, Flaubert, Proust Il più letto, il più esportato, il più influente, il più tradotto. Cosa resta oggi? Un amico di Transfuge mi diceva: «Ci hanno rovinato Proust e Céline, come fai a scrivere qualcosa di decente con quei due alle spalle? Ti ritrovi a imitarli o, ancor peggio, a rifiutarli. Comunque sia, sbagli». E, va bene, l’analisi è rozza, trascura il romanzo esistenzialista, il Nouveau Roman. E tuttavia esprime il disagio di una letteratura (una società?) ormai bizantina fin quasi alla stitichezza. E allo stesso tempo coglie lo stato di depressione che tutti ci assale - noialtri romanzieri europei - quando ci incontriamo a discutere di noi stessi. Sì, abbiamo un grande senso di consapevolezza, un amore illimitato per quelle letterature che non assomigliano alla nostra. Non facciamo che rivolgerci domande con l’ossessività di una madre che ha perso un figlio: come è potuto accadere? Cosa diavolo ci ha preso? Come ci siamo ritrovati a questo punto? È così che inizia la decadenza? Ti prende alle spalle quando meno te lo aspetti? Parlare di «morte del romanzo» è un esercizio corrivo e pacchiano che lasciamo volentieri a certi filistei privi di pietà. Eppure anche noi non facciamo che elucubrare su diagnosi e terapie. Qualche tempo fa un importante scrittore israeliano esasperato accusò la democrazia. Solo una società violenta, ingiusta, illiberale come quella zarista - disse - era in grado di nutrire gli animi mefitici di Dostoevskij e Tolstoj. Si levò un coro di scandalizzati distinguo: e Melville allora? Scrisse il suo capolavoro in un’epoca di liberalismo trionfante. Per non dire di Proust, di Nabokov, di tutti gli altri. E cosa hanno generato la Germania hitleriana o la Russia stalinista se non quell’ottuso silenzio di morte? Insomma il sistema politico non c’entra. E allora forse è un problema di potere. Recentemente, interrogato sulla ragione per cui i nostri romanzi non funzionano in America, ho ipotizzato l’esistenza di una relazione tra egemonia politica e capacità di produrre industrialmente miti letterari di esportazione. Mi sembrava che la cosa funzionasse: dalla Roma di Augusto all’Inghilterra elisabettiana; dalla Francia del Re Sole all’America di Eisenhower, il predominio politico che si trasforma in luce, in energia epica. La nostra materia. Ciò di cui ogni romanziere ha bisogno. Ciò di cui ogni vero romanzo è fatto. Ma, a ben guardare, anche il mio tentativo di elaborare l’equazione perfetta si scontrava contro ingombranti eccezioni: e il romanzo sudamericano? Quello irlandese? E quello israeliano? Quest’ultimo poi è proprio un mistero: come si fa a inventare una formidabile narrativa in pochi decenni? Il grande Agnon aprì le danze e, da allora, i suoi epigoni non hanno smesso di ballare: intrecci avvincenti, atmosfere inconfondibili, personaggi sofferenti, location d’eccezione, e soprattutto quella capacità inimitabile di rendere concreti i grandi simboli della modernità, sia laici sia religiosi. Insomma un miracolo da Terra Santa, così abbagliante da togliere prestigio alla mia strampalata teoria: neanche il potere politico spiega tutto. Il caldo di Palermo è opprimente, l’aria condizionata lotta con le molecole di vapore bollente che viene da fuori, ma noialtri romanzieri europei a confronto imperterriti ci ostiniamo a pontificare di fronte a un pubblico instancabile. Gli organizzatori del convegno (la titanica Domenica Perrone e i suoi eroici assistenti) ci mitragliano di domande: sull’essenza del romanzo europeo, sulle sue possibilità, sul suo futuro. Un serrato interrogatorio. Mi sento come un imputato in un processo politico: sono l’oligarca deposto di una nomenklatura spazzata via dalla storia. Come non ripararsi dietro a un cumulo di confortanti luoghi comuni? Il problema è la società. No, il problema è la tv. Anzi, il problema è la perdita di senso. È colpa della globalizzazione, della secolarizzazione, del Papa, del mercato, del nichilismo, degli editori, delle classifiche, delle pagine culturali... Tutto pur di non dire che è colpa nostra. Di noi romanzieri europei a confronto. D’altra parte niente più di questi scandalosi cliché rende merito alla nostra debolezza creativa. Forse il segreto sarebbe proprio farsi carico di tutta questa debolezza e di tutta questa inutilità. Ma è la solita formula generica con cui noi romanzieri europei cerchiamo di suggestionarci, e di infinocchiare il prossimo. È la vergogna che provo di fronte a tutta questa gente a spingermi a nascondere gli occhi in un piccolo libro, l’antologia di scrittori europei a cui anch’io ho aderito con un racconto. Non l’ho neppure sfogliata. È quasi naturale che mi ritrovi a leggere un racconto profeticamente e ironicamente intitolato Piccolo romanzo europeo. Di Koen Peeters, cinquantenne scrittore belga. Inizio a leggere con stanchezza ma via via mi rianimo. È bellissimo. Struggente. Ci leggi tutto il disagio, tutto lo sforzo, tutta la disperazione che ho cercato di trasfondere in questo lamentoso articolo. Mi sento invadere da una gioia lieve. E non mi resta che ricordare a me stesso ciò che troppo spesso tendo a dimenticare: che in letteratura esiste solo la prassi. Il resto è masturbazione.
«Corriere della sera» del 24 giugno 2007

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