05 luglio 2007

La laica ipocrisia sulle droghe leggere

di Luca Doninelli
I recenti attacchi alla libertà della Chiesa, che vorrebbero vietarle di esprimere la propria posizione in materia sociale e bioetica (una posizione cui compete anche, talora, l’esercizio della sua autorità), ci invitano a considerare culturalmente - e, quindi, anche editorialmente - più importanti quei campi nei quali l’attrito ideologico si fa pesante e ingiustificato.
Il criterio è presto detto: occorre (come raccomandava la vecchia apologetica cristiana) essere vigili e aggredire senza paura la menzogna e la contraddizione (ossia la sragione) soprattutto là dove essa si fa spudorata. Per questo ben vengano libri preziosi come Cannabis di Claudio Risé (ed. San Paolo, pagg. 210, euro 12,50), che mette allo scoperto una piaga che si estende sulla nostra cultura, sul nostro sistema di intervento sanitario, sul nostro sistema educativo, sulla nostra politica: il problema delle cosiddette droghe leggere - espressione del tutto insensata di un’ipocrisia del tutto italiana.
Ci voleva la morte di un ragazzo, a scuola!, dopo aver fumato uno spinello per suscitare un minimo - davvero minimo - di discussione. Del resto, in un Paese in cui sono gli stessi ministri ad affermare che di spinello non è mai morto nessuno c’era poco da sperare. Anche perché, come dimostrato in tv, un Parlamento dove si fa abituale uso di droga non potrà legiferare al meglio in materia. Ma il libro di Risé scoperchia un’altra ipocrisia: quella di una società che non può più combattere la droga poiché ne dipende, in gran parte, in modo strutturale.
Prendiamo il tema del doping sportivo. Gli scandali si susseguono ormai quotidianamente, ma sono ancora in pochi a ricordare che i primi responsabili sono coloro che, per esempio, disegnano il tracciato di un Giro o di un Tour. È lo spettacolo a esigere la droga, è la legge degli sponsor, dell’audience e via dicendo. Ma lo stesso si potrebbe dire di tanti ambienti artistici, cinematografici, della moda e così via: la droga è un ingrediente del grande business. Nella società-spettacolo noi non possiamo più permetterci di dire che di cannabis di muore. E invece si muore, e si muore a scuola, dove i prof permettono l’uso di cannabis perché è così che gira il mondo.
Siamo in un mondo preterintenzionale, fatto di una cultura e di comportamenti preterintenzionali. Io personalmente sono ammirato che uno psicanalista famoso come Risé si esponga personalmente in una battaglia come questa - in cui troverà molti nemici - solo in nome della verità. Tanto di cappello, professore. Questa (questa umiltà, anche) è vera cultura. Dobbiamo imparare tutti.
«Il Giornale» del 23 maggio 2007

Nessun commento:

Posta un commento