04 luglio 2007

Il rischio clericale

di Marcello Pera
Un prelato entra nel merito del disegno di legge sui Dico e arriva quasi a proporre emendamenti. Un altro sponsorizza un partito e lo raccomanda agli elettori. Un altro ancora benedice un intero schieramento. E poi, sul lato opposto, c’è il politico che ha già parlato tre volte col Papa, quello che si accerta che le telecamere lo riprendano mentre, pio e compìto, assiste alla messa; quello che la gerarchia ecclesiastica; quello che la famiglia; quello che i diritti individuali; quello che siamo un partito cattolico, e così via. Anche le istituzioni seguono: c’è quella che sorride alla sorridente segreteria di Stato e quella che si fa severa davanti alla severa presidenza della Conferenza episcopale. Mentre i mezzi di comunicazione si adeguano: per un direttore che mette Padre Pio alle pareti ce n’è un altro che colloca San Gennaro sulla scrivania; chi sceglie un aspersorio, chi si fa benedire da un altro.
Che cosa sta accadendo? Per tentazione profana da parte ecclesiastica e per calcolo elettorale da parte politica, là perché le porte si spalancano qua perché i consensi si svuotano, sta accadendo che rischia di rinascere, se non un partito, un movimento neo-clericale italiano.
Quanto attuale sia questo rischio ce lo diranno gli eventi prossimi, a cominciare dal Family Day, che da alcuni è già vissuto come una processione politica al séguito della gerarchia ecclesiastica; quanto pericoloso possa essere ce lo ricorda la storia italiana. Ma ancor prima degli sviluppi, su un paio di punti già si può riflettere. Se il clericalismo rinascerà, allora i laicisti agnostici o atei avranno sperimentato la legge del contrappasso.
Quelli che non concedono neppure che l’Italia e l’Europa abbiano tradizione cristiana, che vogliono negare alla religione qualunque ruolo pubblico, che intendono relegare la fede nella sola sfera privata, rischiano oggi di sollevare proprio quel mostro che desiderano esorcizzare. Un movimento neo-clericale li condannerebbe alla sconfitta.
Ma anche i laici non laicisti, quelli credenti oppure aperti al credo, rischiano di perdere. Essi avevano e hanno un altro progetto. È quello del risveglio religioso delle coscienze, della ripresa del senso di appartenenza ad una cultura o civiltà, dell’impegno a difesa di una storia, del recupero di una tradizione, del cristianesimo come religione civile. Questi laici pensano che senza una religione, una fede, una credenza, neppure c’è un popolo e un’identità, e perciò né un’Italia né un’Europa né una qualunque società coesa da princìpi morali. Per questi laici, che vedono il relativismo e lo scientismo come minacce, esiste la verità, esiste la natura umana, esistono i valori non negoziabili, esiste la salvezza. Ma esistono nelle coscienze, nei costumi, negli abiti di vita, nei comportamenti individuali e sociali, non in un catechismo che diventasse prontuario o nei documenti del magistero che diventassero formule. Se un movimento neo-clericale rinascesse anche questi laici avrebbero perduto.
Oggi la politica ha davanti a sé una sfida storica: comprendere le ragioni profonde della rinascita del sentimento religioso, farsene interprete e affidarle un compito rigenerativo contro la crisi che in Occidente stiamo attraversando. Da parte sua, la Chiesa ha davanti a sé una sfida non meno epocale: capire che quella rinascita è occasione non di rivincita, ma di salvezza, non di conquista ma di servizio. «Velut si Christus daretur» è la formula con cui vogliamo vivere. Ma se qualche politico e qualche prelato la intendessero in senso profano, alla maniera, per capirsi, di «come se quel vescovo o quel cardinale fosse ministro o sottosegretario», allora un nuovo clericalismo ci farà perdere un’occasione che invece abbiamo drammatico bisogno di vincere.
«La Stampa» del 5 maggio 2007

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