Legato al poeta-sacerdote, Enzo Fabiani racconta il secolo passato e l’amicizia coi grandi autori. Nella sua casa milanese conserva lettere e manoscritti. «Così amo costruire i miei versi»
di Pierangela Rossi
«Sono stato tra i primi a fare le trasmissioni culturali alla televisione di Milano nel '54, eravamo un gruppetto tra i quali Crovi e Nascimbeni e fui uno dei collaboratori alle prime rubriche culturali in tv, sempre a Milano, scrivendo per varie testate. Ho lavorato moltissimo». Intorno a Enzo Fabiani, poeta e giornalista, una grande casa concresciuta di libri negli anni - accanto alla porta d'ingresso Pessoa, nello studio Papini e le foto con papa Montini, con Rebora, l'attestato di accademico pontificio, la foto della bella moglie morta dieci anni fa - a cui ha dedicato il libro La sposa vivente - e ritratti della moglie di Usellini e Sassu. Una casa che respira cultura. Mi mostra tra le cose più care anche la maschera funeraria di Rebora. Al primo dei tre figli ha dato il suo nome, Clemente. In una stanza, una ragazza sta raccogliendo in cartellette, siamo a 130, le lettere scambiate negli anni: le servono altre cartellette, non bastano. In questa casa che è tutta cultura e vita, nello studio anche Crocefissi e angeli, perché Fabiani è un poeta di cultura religiosa e dostoevskijana. Ha pubblicato sette libri di poesia raccolti poi nell'antologia intitolata Il cammino e la pietà.
«Secondo me il periodo di crisi, in poesia, è forte perché mancano delle personalità forti ai quali i giovani possono guardare. Io penso a me e ho avuto la fortuna di cominciare a 18 anni, ero di Fucecchio quindi ero sempre a Firenze, e ho avuto la chance di andare alle Giubbe Rosse il famoso caffè dove si riunivano i pittori e gli scrittori, un punto di riferimento di tutta la cultura italiana. Infatti c'erano Rosai, Papini, Lisi, vari altri. E ho conosciuto Papini che mi ha aiutato molto culturalmente. E ho fatto amicizia anche con La Pira e Barsotti. Fra gli amici miei c'erano Faraoni e vari altri giovani divenuti poi importanti. La mia partenza è stata fiorentina.»
E poi?
«Poi da lì siccome non avevo una lira per mangiare, Papini ha scritt o una lettera a degli amici milanesi e ho trovato posto a Milano. La cosa curiosa è che un giorno io ero andato a mangiare alla mensa dei frati, in via Moscova e vedo un tizio, mi avvicino, e dico: Lei è Quasimodo, dice: sì, come fai a riconoscermi? Io vengo dal gruppo fiorentino e ci siamo messi a chiacchierare e mi ha detto: ma cosa fai, ma mangi... eh mangio dai frati e dormo in una casa bombardata».
Che anni erano?
«Era il '47, circa. Quasimodo mi disse: domani vieni al Giamaica, il caffè di Brera, io vado lì e c'erano sedute una fila di persone che mi son detto: anche questi li conosco, e infatti quelli fanno eh Salvatore e lui, siciliano, fa: silenzio, questo giovane, è fiorentino, si chiama, eccetera, è bravo, ho letto le sue poesie, ma attenzione non ha da mangiare e da dormire e si trova nelle condizioni in cui eravamo noi venti trent'anni fa e me li presenta, erano Marini, Sironi, Birolli, quelli di Brera, mi diedero giorni dopo disegni, acquerelli, e dove venderli e io ho fatto un po' di soldi e ho cominciato a tirare avanti. Questo è il mio ingresso milanese. Il resto è una lunga storia».
È stato fortunato. E oggi?
«L'idea con alcuni amici è riprendere una collana, anzi una casa editrice».
Riprendere una collana di poesia illustrata da pittori?
«Oggi c'è crisi, i testimoni sono rimasti pochi. È avvenuto perché guai ai falsi profeti in questi decenni, tra politica ed editoria, che hanno le cantine piene di libri di grandi nomi, i giovani non hanno la possibilità di continuare, di approfondire e di maturarsi. Allora, bisognerebbe cercarli e aiutare a pubblicare i giovani buoni ma anche tornare indietro da fine Ottocento a ora con altri grossi artisti sepolti da grandi papaveri. E adesso si sta impostando una "revisione" per ritornare a una vitalità che ormai s'è persa».
Come lavora?
«A mano e a macchina. Ora mi hanno operato agli occhi. Ma ho scritto in maniera folle negli anni scorsi. Decine di migliaia di articoli. Collaboravo al Popolo e Rusconi mi ha chiamato. Ho lavorato a Gente. Poi al Corriere, all'Informazione e a riviste culturali e giornali di mezz'Italia. Ho però degli aneddoti curiosi. Un mio libro, Il legno verde, con introduzione di Spagnoletti, io l'avevo dedicato a Clemente Rebora. Sono andato al Giamaica e l'ho offerto e mi dicono perché l'hai dedicato a Rebora. Perché mi piacciono le sue poesie, rispondo. Mi ribattono: prima di tutto è morto, seconda cosa poi si fece prete, è sparito da decenni».
Ma non era morto ...
«Due giorni dopo arrivò un ragazzo al Giamaica e disse: Rebora è vivo, insegna al tale liceo classico, là sul lago. Io ho telefonato, e abbiamo parlato, don Clemente, gli ho detto, ho scritto un libro di poesie e gliel'ho dedicato e lui tutto gentile. Dopo tre giorni sono andato là e m'ha tenuto tutto il pomeriggio raccontandomi la sua vita poi siamo diventati amici e il mio primo figlio fu benedetto nel grembo della mamma da lui e si chiama Clemente. Poi ne scrissi. E sono insomma quello che ha resuscitato Rebora. Mi disse anche che quella poesia sull'immagine tesa...imminenza d'attesa. Deve venire, verrà non era il documento della sua conversione al cristianesimo. Mi disse perché dicono questo? Scrivilo: aspettavo una ragazza. Si diceva anche che gli era apparsa la Madonna. Gli chiesi se era vero, lui mi guardò e: non posso dirti di sì e neanche di no. Segno che gli era apparsa davvero. Poco prima di morire (è morto nel '57) mi hanno raccontato che tese le braccia verso una persona che lui solo vedeva e disse: arrivo subito, arrivo subito».
Altri ricordi?
«Un'altra cosa curiosa che devo raccontare è che in seguito andai nella stanza a Stresa e per terra vidi dei fogli fissati, lessi: "Diario delle ultime giornate della vita di Rebora"; così lo pubblicai ed è il diario degli ultimi giorni della malattia del segretario che gli faceva da infermiere. E c'era anche un rotolo, il ritratto di Rebora da giovane fatto da Cascella. Ho scritto una commemorazione dalla radio di Firenze quand'è morto, nella rubrica diretta da Betocchi. E tutti a bocca aperta perché credevano fosse già morto. Ogni tanto veniva a Milano, prima da Rovereto poi da Stresa ma nessuno sapeva che era un poeta. A me Rebora disse che Prezzolini lo aveva aiutato molto e gli pubblicò il primo libro. Anche a me hanno aiutato, così io cerco di fare con altri, anche oggi. Con i giovani. E recuperando il passato e dando giustizia». Racconta, Enzo Fabiani, anche della stima di padre Pio per Rebora, e del suo (di Fabiani) incontro personale con il santo. A 83 anni è un prezioso testimone. Mostra le foto con Pound, con Kerouac della Beat Generation giunto ubriaco a una presentazione, di altri protagonisti. Ricorda che nella sua via è vissuto Arturo Martini e poco lontano Sironi e nientemeno che Leonardo, quando fu a Milano.
«Avvenire» dell’11 luglio 2007
Mi colpisce lo spirito di questo 82enne che pensa ai giovani preoccupandosi degli insegnamenti che non possono ricevere. C'è timore, nelle sue parole, che non riescano a raggiungere il livello intellettuale e culturale che ha fatto di lui l'uomo che è. Quanta umiltà e ricchezza interiore, quanto di Rebora c'è in lui! Che possa vivere molto a lungo.
RispondiEliminaFranco Rebora