17 luglio 2007

«Ci ha rovinati Hitler. E il Sessantotto»

Il pedagogo tedesco Bernhard Bueb rovescia i luoghi comuni educativi
di Danilo Taino
L’autoritarismo e il permissivismo hanno distrutto l’idea di disciplina
Quando gli storici faranno i conti, le generazioni che hanno guidato le società europee - soprattutto dagli anni Settanta in poi - avranno parecchio di che arrossire. Non solo la perdita dell’ottimismo; nemmeno solo il pianeta surriscaldato; o il carico insostenibile delle pensioni future. Ai giovani, ai ragazzi, si è negato e si continua a negare anche «il diritto alla disciplina», dice Bernhard Bueb, filosofo, teologo, pedagogo. Lui ne sa qualcosa: è stato per trent’anni, dal 1974, rettore del collegio privato più famoso della Germania, la Schule Schloss Salem, al confine con la Svizzera; ed è un tedesco del 1938, cioè si porta dentro le ferite degli opposti estremismi che sull’albero della disciplina sono germogliati al loro peggio nel Vecchio Continente. Bueb ha aperto un dibattito serio, in Germania, con un libro che mette in discussione l’intero impianto pedagogico tedesco del dopoguerra. E lo stesso dovrebbe succedere in Italia ora che il testo - Elogio della disciplina, Rizzoli - è andato in libreria proprio mentre la scuola di massa mostra i segni di quello che è forse il suo momento peggiore: violenze, bullismo, squilli di cellulari, genitori interventisti oltre il segno, insegnanti in fuga, dalle responsabilità quando non fisicamente. È il crollo - sostiene il professore tedesco - di un sistema fondato sull’idea sbagliatissima che della disciplina un giovane può fare a meno, che la disciplina, anzi, è reazionaria e in qualche modo limita la mitizzata creatività del pargolo. Storie, sia che lo sostenga un insegnante sia - attenzione - che lo sostenga un genitore: perché su queste cose non ce la si cava dando la colpa a scuola e a società, su queste cose si deve riflettere e cambiare cominciando dalla famiglia. Herr Bueb sa bene che in Germania la disciplina è come la corda in casa dell’impiccato. Anzi, dice che il problema nasce proprio da lì. «In Germania - scrive - il nazionalsocialismo ha minato le fondamenta stesse della cultura dell’educazione. I valori e le virtù che costituiscono il cuore della pedagogia patiscono ancora le conseguenze dell’uso improprio che ne fece il nazionalsocialismo: anche la variante tedesca della rivolta giovanile post-sessantotto non è stata altro che una conseguenza della catastrofe in cui il Paese era precipitato». Dopo gli anni bui in cui la disciplina era stata drammaticamente ridotta a passo dell’oca, il corno è stato spostato, come spesso accade quando si reagisce, eccessivamente dall’altra parte. Qualcosa che è successo anche in Italia, dopo la caduta del fascismo? Probabilmente sì, adattato alle differenze che il termine disciplina ha nelle culture dei due Paesi. Per apprezzare il saggio di Bueb, fondato su un’esperienza pedagogica lunghissima, non su teorie, è necessario cancellare molti pregiudizi. E forse è più semplice farlo sapendo che la sua denuncia del fallimento educativo degli ultimi decenni non è mossa da sadismo o da rigidità ideologiche: anzi, l’umorismo, la ricerca da parte del pedagogo della specificità individuale di ogni singolo giovane, la sua disponibilità incondizionata sono caratteristiche che Bueb ritiene indispensabili. Come la necessità di avere tempo per i figli: cosa che molti genitori credono di poter sostituire con un allentamento delle regole (fondamentali nell’educazione) che certe volte arriva ad annullarle. I due estremi della metodica pedagogica sono «guidare i giovani o lasciarli crescere da soli»: bene, dice il professore tedesco, «chi vuole trovare la giusta via di mezzo tra gli estremi opposti dell’educazione dovrebbe prima valutare il proprio rapporto con il tempo, e dovrebbe registrare tra i profitti personali il tempo che trascorre con i figli». Stabilito che parlare di disciplina non è un tentativo di aggressione a dei poveri ragazzi ma prima di tutto un carico che gli adulti si devono prendere sulle spalle - molto più comodo lasciar fare ai bimbi quel che vogliono sin da piccoli -, Bueb può forse essere letto in modo non ideologico. E si scopre, per esempio, che dietro al rifiuto di concetti come «autorità» e «obbedienza» - «che hanno perduto il loro ovvio valore anche tra i borghesi conservatori» - sta in realtà il fallimento dei genitori e degli insegnanti che dietro quei concetti vedono - per limiti loro - solo un fatto di potere e non l’autorevolezza. O che un’educazione senza castighi e punizioni non funziona. Libro serio, insomma, che solleva problemi veri. Per chi ha figli da crescere e studenti da educare. Se poi lo leggeranno anche quei politici che si rendono conto che gli opposti «eccessi educativi» del Novecento hanno fallito, meglio.
Bernhard Bueb, «Elogio della disciplina», traduzione di Monica Bottini, Rizzoli, pagine 156, 12,50
Bernhard Bueb è nato nel 1938 e ha studiato filosofia, teologia cattolica, pedagogia. Per trent’anni, dal 1974 al 2005, Bueb è stato rettore del collegio privato più famoso della Germania, la Schule Schloss Salem, sul lago di Costanza, fondata nel 1920 dal Principe Max von Baden e da Kurt Hahn.
«Corriere della sera» del 25 giugno 2007

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