Nel pensiero ufficiale di Firenze la donna vera deve lavorare
di Marina Corradi
Non è lo Stato che può decidere cosa qualcuno "deve" fare della sua vita
Ci sono espressioni che a Firenze si sono sentite moltissimo. Quoziente familiare, conciliazione tra lavoro e famiglia, famiglia come risorsa e priorità, come è giusto, sono state parole continuamente ripetute. Altre, sono state piuttosto assenti. Di sussidiarietà, per esempio, si è sentito poco. Ma altre realtà fondamentali della famiglia italiana sono parse quasi invisibili. Le casalinghe, per esempio: oltre otto milioni di donne che non scioperano mai, ma che se lo facessero bloccherebbero la cittadinanza. Ne ha rivendicato l'esistenza solo la onorevole Gasparini, dell'Udeur, e Luisa Santolini dell'Udc. La parola "casalinga" sembra impronunciabile in una visione culturale in cui si continua a ripetere la equazione «più occupazione femminile uguale a più figli». Cosa statisticamente vera in Europa, che tuttavia a Firenze è sembrata assumere il connotato di imperativo sociale, di parola d'ordine. Gli obiettivi della conferenza di Lisbona, tendenti appunto a aumentare l'occupazione delle donne, sono un imperativo morale delle politiche familiari venture. E va benissimo, e li aspettiamo con ansia - dopo averli a lungo invano sognati - tutti i nidi che permettano alle madri di dedicarsi al lavoro fuori casa. Ma qualcosa non ci piace in quel continuare a ripetere: le donne "devono" lavorare. No: tutte le donne che lo vogliono devono poter lavorare. Ma, se qualche rara sopravvissuta, qualche cocciuta passatista, trovasse assurdamente più interessante badare ai suoi figli che fare la manager, o anche la colf - va pur detto che non tutti i lavori sono così "realizzanti" - se insomma qualche raro esemplare femminile ritenesse che le piace di più stare con i suoi bambini, non ci sembrerebbe una richiesta indecente. Anzi, degna di un po' di considerazione e aiuto sociale. Non è lo Stato o una politica familiare, che può decidere cosa una donna, o un uomo, "deve" fare della sua vita. Deve piuttosto, la politica, mettere nelle condizioni di potere scegliere. Ma l'ipotesi che una donna possa scegliere di stare coi suoi figli pare oggi politicamente scorretta. Lo conferma la reazione del sottosegretario alla Famiglia, Chiara Acciarini, ex ds, ora confluita in Sinistra democratica, che alla tavola rotonda fra rappresentanti dei partiti nel sentir parlare di questa possibilità ha detto: «Ma le ragazze sono le più brave a scuola. Non lavorare è non esplicare le proprie potenzialità. Sarebbe un buttare via una risorsa». Cioè, chi si dedica ai figli spreca le sue risorse. Non sviluppa ciò di cui è capace - secondo l'assioma che solo produrre ricchezza è realizzante. Perché buttarsi via facendo solo la madre? Che lo dica una donna, e un sottosegretario alla Famiglia, è triste, ma non stupisce. C'è da decenni in Italia un pensiero femminile che identifica la parità dei diritti con l'adeguamento a quella logica maschile, secondo la quale il lavoro e la carriera sono cose importanti, e la cura dei figli faccenda modesta, in cui non spendere talenti. È la cultura delle casalinghe invisibili, e di quel sommerso femminile, che starebbe a casa almeno per i primi anni dei figli volentieri, se solo le si aiutasse. Di quelle che non si sentono così gratificate da otto ore allo sportello o in fabbrica, e invece non hanno la sensazione di buttarsi via, quando stanno con i figli. Pensare anche a loro, ammettere che esistano, pare cosa politicamente indicibile. Inammissibile, «buttar via risorse» nell'educazione dei figli. E perché poi solo le donne? Pari opportunità: gli uomini a allattare i bambini. Chissà perché gli uomini nascono senza mammelle, bisognerà pensare a correggere questa opportunità dispari. Cultura dominante, quotidiano messaggio. Che spiega in parte questa Italia senza figli, questa emergenza educativa su cui ci stiamo affannando. (Quanto a noi, diremo alle nostre figlie che buttar via tempo con i bambini è bellissimo).
«Avvenire» del 27 maggio 2007
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