18 luglio 2007

Ammaniti

Lo scrittore vincitore del premio Strega racconta come nascono i suoi romanzi. E risponde ai detrattori
di Cristina Taglietti
«I critici non spiegano, da loro si impara poco; preferisco i pareri dei lettori che si trovano in rete»
La notte dell’incoronazione, la bottiglia di Strega in mano, aveva promesso: «Me la bevo tutta». E così ha fatto. Niccolò Ammaniti lo Strega se l’è bevuto fino in fondo, veleni compresi. In poche ore ha dovuto prendere atto di quello che Anna Maria Rimoaldi, madrina storica del premio, da sempre sa e cioè che senza le polemiche non sarebbe lo Strega. Certo, è stato un po’ uno choc per uno scrittore dotato di un naturale e indiscutibile talento narrativo, abituato a «farsi gli affari suoi», che ha dedicato l’ultimo lustro a Come Dio comanda, edito da Mondadori, («per due anni me lo sono costruito nella testa, poi ho cominciato a scriverlo») un romanzo che, già prima del trionfo di Villa Giulia, aveva venduto oltre 250 mila copie. «All’inizio non avevo nemmeno preso in considerazione di poter concorrere - spiega Ammaniti -. A differenza di Io non ho paura, che era più ecumenico, Come Dio comanda mi sembrava un libro duro, complesso. Si partecipa allo Strega e a tutto quello che si porta dietro. È un premio molto ambito, ha un impatto fortissimo sulle vendite, quindi è impegnativo, stressante. Certo, se fossi stato più giovane, avrei sofferto di più». Così, invece, a 41 anni e con alle spalle un successo da oltre un milione e 300 mila copie con Io non ho paura, (entrato nelle letture consigliate nelle scuole, il libro raggiunge in estate picchi di vendita di 30 mila copie al mese), Ammaniti non si è fatto turbare nemmeno dalla stroncatura in diretta di Mario Fortunato, secondo classificato. «Mi è solo sembrato poco sportivo. Non mi risulta che sia mai successa prima una cosa del genere, diciamo che io non l’avrei fatto. Oltretutto lui mi è stato anche simpatico, quella sera. Era divertente, mi faceva ridere. Forse era molto motivato e non si è tenuto». Dall’alto della raggiunta maturità, nonostante l’aria da eterno ragazzino (si presenta con le mani sporche di vernice perché sta imbiancando casa), guarda le polemiche con un certo distacco cercando di riportare le cose al loro posto: «Sono come tutti: le critiche positive mi fanno piacere, soddisfano il mio ego, per le stroncature tendo a rimanerci male. E quasi mai sono d’accordo». Non lo è stato con quella di Angelo Guglielmi (raccolta da Paolo Di Stefano sul Corriere del 7 luglio), suo estimatore da tempi lontani, («mi sono sembrate tre righe buttate lì, un po’liquidatorie») né lo è stato con gli «anatemi» di Giulio Ferroni che (Corriere, 11 luglio) auspicava provocatoriamente che venisse vietato l’acquisto del suo libro. «Mi piacerebbe che ci fosse lo spazio per spiegare, per fare delle vere analisi del testo, dei personaggi. Invece quasi sempre sono boxettini che raccontano la trama e poi nelle ultime righe si dà un giudizio sintetico, senza approfondimenti». Qualche volta avrà pure avuto delle critiche negative ma utili... «Sì, quelle dei lettori, che si leggono in Rete. Per esempio, di Come Dio comanda a molti non è piaciuto il finale aperto, che suggerisce ma non chiude la storia, o la descrizione di alcuni personaggi. Si imparano molte cose dai lettori». Quello che invece la critica ufficiale ha più spesso rimproverato all’ultimo romanzo è di non riuscire a rappresentare, com’era sua ambizione, una certa realtà italiana, risultando una specie di specchio deformato da altre rappresentazioni, il cinema, la tv, il fumetto, persino i videogiochi. «L’impressione è che finché l’aspetto grottesco era predominante, come in Fango, il mio stile, in cui si poteva riconoscere il coacervo dei miei interessi paralleli, il fumetto, il cinema, l’horror, andava bene. Anche in Io non ho paura l’aspetto un po’ fiabesco funzionava, forse perché applicato agli anni 70. Invece è come se, per raccontare l’Italia di oggi, l’unico registro possibile fosse il realismo assoluto. In Come Dio comanda c’è un aspetto quasi favolistico, più che grottesco, e questo non è piaciuto, come se fosse una mancanza di serietà e non una cifra stilistica. Io sono cresciuto con certi linguaggi, fanno parte di me e anche quando racconto la realtà, non posso farne a meno. Il montaggio cinematografico del racconto, con piani sfalsati che si incrociano, permette di allargare la visione, di spostare il punto di vista tra la preda e il predatore. Anche questo fa parte del mio stile. Per alcuni rende il racconto più vivo, più immediato, ad altri sembra quasi un atto sacrilego». Il montaggio cinematografico non implica che il romanzo sia stato pensato già per una trasposizione per il grande schermo, tanto che la sceneggiatura che Ammaniti ha scritto con Antonio Manzini per il film che Gabriele Salvatores girerà in inverno sarà sensibilmente diversa. «Il romanzo, così corale, complesso, mi sembrava molto difficile da trasformare in film. Non avevo grandi aspettative, e infatti non ho ricevuto molte proposte. È stato Gabriele a crederci. Ne verrà fuori una storia più breve, serrata, quasi in soggettiva, dal punto di vista del ragazzino, incentrata sul suo rapporto con il padre». La realtà che Ammaniti racconta nel romanzo è cupa, desolata. «Parlo di una società ai margini, in costante difficoltà, di una fetta di popolazione che non si sente tutelata da nessuno, a cui anche lo Stato più che una difesa pare una minaccia, che si percepisce all’ultimo gradino della scala sociale, dietro anche agli immigrati che la sinistra tutela di più. È un terreno reso fertile dall’ignoranza, dalla paura, che alimenta il razzismo, la xenofobia». Come Dio comanda è stato letto da qualcuno anche come un ritorno al pulp, in un circolo che riporta l’autore alle sue origini «cannibali» e la critica alle vecchie diatribe che l’avevano divisa dieci anni fa. Un’etichetta che Ammaniti non tiene in grande considerazione anche se, dice, «in fondo ci sono abituato». Certo non la rinnega, «però credo di aver avuto una certa evoluzione in questi anni. L’antologia Gioventù cannibale è stata un’iniziativa interessante: ha portato alla luce alcuni scrittori che avevano uno stile simile. Ma tra noi non ci conoscevamo nemmeno. Non c’era alcuna poetica comune, non ci univa la mitologia del sangue, dell’orrore. Figuriamoci, allora avrei fatto qualunque cosa, anche romanzi rosa se me l’avessero chiesto. Dietro c’era una strategia molto intelligente di Einaudi Stile libero: l’introduzione, geniale, di Daniele Brolli ha fatto da esca». Con alcuni di loro, per esempio con Aldo Nove, Tiziano Scarpa, Isabella Santacroce sono nati dei rapporti di amicizia, cementata da comuni interessi, «dopo, però, non prima». Oggi, tra gli scrittori italiani Ammaniti ama Francesco Piccolo («una scrittura molto sensibile, grande capacità di raccontare l’Italia»), Diego De Silva («intenso, bravo nella costruzione delle trame»), Giancarlo De Cataldo, Roberto Saviano. L’horror è sempre tra i generi prediletti, «anche se ultimamente mi appassionano molto i libri di avventure, di viaggi. Mi piacciono le scalate, le sfide con le forze della natura, dove bisogna superare degli ostacoli». Insomma, più o meno, come il premio Strega.
«Corriere della sera» del 16 luglio 2007

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