16 maggio 2007

Perché le vendite dei libri finiscono in classifica e quelle delle lavatrici no?

di Paolo Di Stefano
Il libro condivide ormai quasi tutto con gli altri prodotti commerciali. Sarà un bene? Sarà un male? Dando un’occhiata agli ultimi dati Istat sulla lettura, si direbbe che non è né un bene né un male: gli italiani non leggevano molto e continuano a non leggere molto, nonostante gli esiti brillanti delle fiere e dei festival, diventati benemerite istituzioni, che vorrebbero coniugare il divertimento e la lettura, dove però il primo termine prevale nettamente sul secondo nel richiamare il pubblico. Fatto sta che gli altri prodotti non condividono con il libro un curioso privilegio: quello di ritrovarsi tutte le settimane sulle pagine dei giornali in una speciale classifica che elenca i più venduti. Eppure ai consumatori potrebbe essere altrettanto utile (o inutile) sapere che la lavatrice Miele ha venduto più della Bosch o viceversa, come va il sapone da barba Gillette rispetto al Nivea, e quanto hanno venduto la pasta Barilla e la Divella la settimana scorsa rispetto alla De Cecco. Se nessuno mi informa sull’andamento del mercato delle lavatrici, delle creme e della pasta, perché dovrei sapere tutto delle evoluzioni, delle impennate, degli slittamenti, degli smottamenti di ogni singolo romanzo e saggio? Insomma, la domanda è: perché ci sono le classifiche dei libri, mentre non esistono quelle di tanti altri generi merceologici che vantano numeri molto superiori: yogurt, scarpe, pannolini, succhi di frutta, auto, computer, surgelati? Non saprei rispondere, ma bisognerà che qualcuno prima o poi ce lo dica. Un titolo di qualche settimana fa sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore diceva: «Dobbiamo abolire le classifiche?». Stefano Salis rispondeva a un lettore che «le classifiche dovrebbero servire a certificare il successo commerciale dei libri». E si chiedeva se è poi vero che vendere molto debba considerarsi sempre sinonimo di mediocrità. La risposta è: certo che no. Ma a pensarci bene è un paradosso tutto da ridere: negli altri settori il criterio della qualità resiste e nessuno si sognerebbe mai di stilare una classifica indiscriminata dei capi d’abbigliamento in cui si dichiari, che so: nell’ultima settimana H&M ha venduto 1000 capi e Armani 2, Top Shop 500 e Gucci 1. Cambiando genere merceologico, scriveva tempo fa Alberto Arbasino: «Per la letteratura nessuno fa ciò che si fa per i ristoranti, una classifica per livelli, si mette in classifica il McDonald’s. E certo che batte tutti sul fatturato!». In letteratura si tende a non distinguere tra il Tavernello e il Brunello di Montalcino: e chi lo fa viene accusato di snobismo, di elitismo se non di disfattismo. È una sorta di beffa del destino, di nemesi: tempo fa qualche pericoloso sovversivo osava ancora sostenere che il libro non è una merce come le altre ma richiede metodi, canali e criteri di produzione e di valutazione diversi. Oggi non c’è più nessuno che affermi un’eresia del genere. E va bene (anzi no). Ma succede che quello che fino a qualche anno fa veniva considerato l’oggetto meno «mercantile» disponibile sul mercato, la letteratura appunto, sia l’unico a essere valutato (ogni settimana!) sulla base di criteri nudamente quantitativi e commerciali: e in quanto tale spiattellato davanti agli occhi (quanto bramosi?) del potenziale acquirente. Che è una sorta di pubblicità neanche tanto occulta: è il famoso «luogo della quantità», uno degli artifici pubblicitari più frequenti. Ne parlava Eco in un famoso saggio del ‘68, ma i «codici retorici» sono sempre quelli: «ciò che fanno i più, è imitabile », «se 9 casalinghe su 10 usano il detersivo X, sarebbe bene che lo usassi anche tu», «se il romanzo X di Y edito da Z è nella top ten, sarebbe opportuno che lo leggessi anche tu». Vuoi vedere che l’editoria risparmia sulle pubblicità, perché tanto sa che ci sono le classifiche?
«Corriere della sera» del 15 maggio 2007

Se la bioetica divide i filosofi

Accenti diversi in due enciclopedie
di Natalino Irti
«Enciclopedia» evoca, già nel fondo etimologico, un’educazione circolare, un sapere intero e compiuto. In essa dovrebbe esservi «tutto»: un tutto, che, disponendosi in circolo, viene raccolto e ordinato ad unità. È, questo, il modello delle grandi enciclopedie, in cui si esprime una visione del mondo, una dottrina filosofica, un’ideologia politica. Manifesto dell’Illuminismo europeo è l’Encyclopédie, che ha nome da Diderot e d’Alembert, e che trascende, mediante lo «spirito sistematico», la sequenza alfabetica delle voci. E così fu della Enciclopedia Italiana, venuta fuori, in trentacinque volumi, fra il 1929 e il 1936: la Prefazione all’opera - in cui non è difficile riconoscere il timbro emotivo e lo stile potente di Giovanni Gentile, ideatore e direttore dell’opera - rende omaggio al più largo e generoso metodo storico, ma pure s’intona alla coscienza nazionale e alla cultura dell’epoca. Nelle due grandi enciclopedie, la francese e l’italiana, non c’è un disperso schedario di voci, un empirico regesto di vecchio e nuovo, ma un criterio unificante, che regge insieme i contributi di singoli autori e li fa quasi discendere da un tronco comune. Che ne è di questo modello nell’età nostra, quando, declinate ideologie politiche e visioni unitarie del mondo, il sapere si scompone in molteplici e chiusi specialismi? Quando il cammino umano non più somiglia ad un circolo, dove principio e fine in ogni punto coincidono, ma ad una linea, diretta non si sa da chi e non si sa verso dove? Sono domande, suscitate da due opere, che - si risponda in uno od altro modo a quei dubbi - onorano la cultura italiana per liberalità d’impostazione e prestigio di contributi. Ci stanno dinanzi: la nuova edizione dell’Enciclopedia filosofica (Bompiani, vol. 1-12), promossa dal Centro di studi filosofici di Gallarate, e affidata all’autorevole ed esperta direzione di Virgilio Melchiorre; e il primo volume della Enciclopedia italiana, XXI secolo (lettere A-E), che Tullio Gregory, in antica e operosa fedeltà all’omonimo Istituto, ha concepito e attuato con finezza intellettuale e audacia di scelte. Opere diverse e insieme concordi: diverse per la volontà di completezza dell’una (appunto, un sapere circolare e conchiuso), e per la selezione, propria all’altra, di lemmi significativi nel nuovo secolo. Concordi, come già si accennava, nello spirito liberale, nell’accogliere posizioni di dissenso e di critica, nel segnalare problemi piuttosto che nell’offrire pigre soluzioni. XXI secolo reca per sottotitolo «settima appendice», quasi che l’opera si rannodi alla Enciclopedia degli anni Trenta, e vi aggiunga, or qua or là, particolari elementi o curiose novità. Il vero è che XXI secolo sta a sé, sciolto dai vincoli della filosofia idealistica, e teso, non già a fissare e difendere un indirizzo di cultura, quanto a cogliere i sintomi del nuovo secolo ed a precorrerne i temi dominanti. Si spiega così la singolarità di talune voci: da acquacoltura ad antitrust, da autorità indipendenti a clonazione, da competitività a Costituzione europea, da derivati finanziari a doping. Lemmi di un secolo che ha appena consumato il proprio inizio, e che procede, come sempre nella storia, fra le tenebre del caso e dell’imprevisto, e tuttavia parole e concetti, già oggi penetrati nella nostra vita e capaci di guidare il nostro agire. Quell’essere diverse e insieme concordi si coglie nell’analisi di singole voci o gruppi di voci. Le due enciclopedie riservano largo spazio ai lemmi composti da «bio» (da bio-politica a bio-sfera etc.), e dunque riguardanti la struttura fisica e la corporeità dell’uomo. Ma la trattazione ne è svolta con accenti distanti; nell’Enciclopedia filosofica, emerge il profilo ontologico, la natura metafisica della persona; nell’altra, la libera fruizione del corpo, tutta consegnata alla volontà ed alle scelte dell’individuo. Prospettive lontane, che il lettore registra in consapevole autonomia e svolge in propria meditazione. Insomma, alle due cospicue opere non bisogna chiedere ciò che esse non possono dare, cioè soluzioni definitive e rimedi consolatori, ma attingerne lucidità di analisi e coscienza problematica, Che è di per sé ragione di schietta gratitudine.
«Corriere della sera» del 17 aprile 2007

Tecnocrate, ritrova l'anima

La modernità ha ceduto lo scettro della politica all'economia e il pragmatismo vince sulla trascendenza. Parla Domenico Fisichella
di Giorgio Ferrari
«Il potere dei manager deve trovare un fondamento culturale, altrimenti a farne le spese (come già si incomincia a vedere), saranno l’idea dello Stato, l’etica e la fede religiosa»
Quali e quante sono le trasformazioni del potere politico e sociale nella occidentale civiltà della produzione, dalla prima rivoluzione industriale fino alla recente stagione postindustriale? Si è forse vicini alla sostituzione della politica con una modalità manageriale e tecnocratica di guidare la società? All'impegnativo quesito prova a rispondere Domenico Fisichella, uomo politico, già vicepresidente del Senato, ma soprattutto intellettuale di lungo corso e ordinario di Dottrina dello Stato all'Università di Firenze e successivamente docente di Scienza della politica all'Università La Sapienza e alla Luiss, nella sua ultima fatica, Crisi della politica e governo dei produttori (Carocci, paggine 354, euro 19.50), il cui titolo già ci prefigura un teorema inquietante.
Non è così, professore?
«Nel medioevo si realizzano due grandi acquisizioni della cultura occidentale che rappresentano larga parte della nostra essenza sia culturale sia strutturale: il primo fenomeno è l'istituzionalizzazione della distinzione tra autorità spirituale e autorità temporale. L'altro grande fenomeno fu la nascita dell'homo oeconomicus nella sua autonomia rispetto al potere politico, e quindi l'emergere della specificità della società civile nella sua dimensione strutturale».
Dopodiché?
«Dopodiché avviene il progressivo e sistematico tentativo del mondo economico di occupare tutti gli spazi. Sia lo spazio della politica - da cui il titolo del libro - sia anche lo spazio del mondo spirituale e culturale attraverso una forte tendenza al controllo di tutti gli strumenti di persuasione che caratterizzano soprattutto un tempo come il nostro».
Già due secoli fa secondo lei questa tendenza prendeva corpo?
«Assolutamente sì. Secondo me la prima grande teoria della scomparsa della politica e della emergenza di un potere tecnocratico si trova già nei pensatori dell'ottocento francese, come Saint Simon e Auguste Comte. I quali si resero ben conto che la tecnocrazia - oggi si direbbe il potere dei manager, dei direttori - comporta il rischio grave di una subordinazione radicale di tutte le espressioni della vita individuale e collettiva nei confronti dell'economia. Tuttavia è stato costruito un sistema teorico che eliminando drasticamente la dimensione della trascendenza e risolvendo tutto nella immanenza storica rende molto arduo lo sforzo di contenere questa tendenza al primato dell'economia».
I pensatori francesi compresero questo fenomeno ma non lo contrastarono…
«Qui si pone il problema del ruolo e della dimensione della vita religiosa nella vita collettiva. Perché non vi è dubbio che una certa cultura - alludo ovviamente al positivismo - abbia saputo antevedere sviluppi importanti del mondo contemporaneo e difatti è proprio del positivismo la prima teoria tecnocratica che annuncia il superamento del capitalismo non secondo la logica del marxismo, ma secondo il criterio in ragione del quale nel mondo della produzione si determina una separazione fra titolarità e gestione degli strumenti produttivi. Ma essendo i positivisti i teorizzatori della "morte di Dio", essi sono anche i pensatori che rendono difficile recuperare nel tempo moderno quello che era stato il grande lascito del medioevo. Il massimo che potevano concepire era di affidare agli intellettuali laici il ruolo che nel medioevo svolgevano i chierici. Ma se viene meno l'idea della trascendenza, un'intelligentsija che si illuda di controllare la struttura tecnocratica del potere è destinata a soccombere».
Che cos'è oggi la politica, quale il suo potere?
«C'è una grande crisi della politica come luogo dell'equilibrio e del riconoscimento della pluralità delle esperienze - economiche, etiche, religose - una politica la cui capacità si sta drammaticamente attenuando. Nel mondo occidentale ha avuto per lungo tempo un primato nella dimensione temporale. Ma le grandi esperienze totalitarie del XX secolo ne hanno evidenziato il primato non regolativo ma interventivo: tutto era politica secondo la logica leninista, così come in quella nazista. Il che ha proiettato un lascito negativo sul nostro tempo che rende precaria la funzione della politica e spesso ne rende indistinto il ruolo».
Qualcuno potrebbe dire: la politica non serve più, bastano i consigli d'amministrazione…
«Già. Non a caso la fine della politica è il traguardo dei teorici della tecnocrazia. Io dico invece no: la politica va rivisitata sia sotto il profilo culturale che istituzionale».
L'economia è un nemico della civiltà?
«Assolutamente no. Io non ho nulla contro l'economia nel suo ambito e la sua capacità di produrre ricchezza. Ma attenzione, in assenza del lavoro culturale della politica e della sua elaborazione, i dati della forza economica, della forza materiale sono destinati a prevalere. Questo è il grande compito al quale, come politici, dobbiamo lavorare. Se non sappiamo che cosa l'affermazione del potere tecnocratico ha alla sua radice, cioè il tentativo di invadere sia la dimensione della politica annullandola, sia quella della persuasione morale e della fede religiosa subordinandole, non comprenderemo esattamente i termini in cui si profila questo fenomeno».
Stiamo davvero correndo un simile pericolo?
«Si guardi attorno. Viviamo una realtà nella quale lo Stato sta attenuando il suo ruolo. Siamo proprio sicuri che certe decisioni assunte in Parlamento siano endogene e non il prodotto di decisioni esterne che poi i Parlamenti ratificano? E non possiamo forse dire la stessa cosa per certi governi, dove le interferenze del mondo finanziario sono tanto significative?»
«Avvenire» del 3 maggio 2007

15 maggio 2007

Per l’Europa il vero nemico è la Chiesa

di Marcello Pera
La questione dell’omofobia è come quella del riconoscimento giuridico delle coppie di fatto. Si mira da una parte per colpire dall’altra. Sulle coppie di fatto non esiste un vero problema. Non lo hanno le stesse coppie di fatto, le quali, avendo liberamente scelto di essere di fatto, non chiedono di diventare di diritto. Né lo ha la società, perché nessun movimento è mai nato per protestare contro presunte discriminazioni in materia di unioni. In realtà, con la scusa della protezione delle coppie uomo-donna, si vuole arrivare al matrimonio uomo-uomo e donna-donna.
Lo stesso vale per la condanna dell’omofobia. Non esiste un problema sociale degli omosessuali, salvo che nei Paesi islamici (che però, al momento, non fanno parte dell’Unione europea), perché né di fatto né di diritto essi sono discriminati in Europa e in Occidente. Vale addirittura il contrario: da quando si sono liberati dal condizionamento sociale e dalla propria autorepressione psicologica e hanno cominciato a fare outing, non solo gli omosessuali sono stati accettati come tali (salvo i normali pettegolezzi che si riservano a tutti), ma addirittura sono diventati i nuovi eroi portatori di nuovi diritti, nuova cultura e nuova civiltà. Al punto che, se c’è, la discriminazione è a loro favore: ad esempio, mentre è possibile oggi bloccare strade e città per una manifestazione di gay pride, non è più possibile intralciare il traffico per una processione del Corpus Domini.
E allora contro chi ce l’ha il Parlamento europeo? Ce l’ha con la Chiesa cattolica, la quale, come tanti, i più, ritiene che l’omosessualità sia un disordine morale e una a-normalità, per ragioni culturali, genetiche, fisiologiche o che altro. Oltre a ciò, il Parlamento europeo ce l’ha con quei credenti e con quei non credenti (che solo in italiano e francese si chiamano «laici»), i quali, benché non abbiano problemi riguardo ai diritti degli omosessuali, ne hanno di irriducibili contro la loro richiesta di congiungersi in matrimonio, o comunque si chiami l’istituto giuridico a seconda delle fantasie dei vocabolari europei.
E perché il Parlamento europeo ce l’ha tanto con la Chiesa cattolica e coloro che, sul punto, ne condividono la posizione? Perché il Parlamento europeo è la punta avanzata del laicismo europeo, il quale è una delle due valvole mitraliche del cuore dell’ideologia europeista (l’altra, come è noto, è il pacifismo, ma solo se antiamericano e preferibilmente filoislamico).
Morti il fascismo, il nazismo e, alla fine e per grazia di Dio, anche il comunismo, l’europeismo è l’ultimo (nel senso di più recente) rifugio ideologico dell’Europa, soprattutto quella di sinistra e soprattutto quella che, da sinistra, l’aveva sempre osteggiata quando era atlantica e voleva essere cristiana.
A questa ideologia il laicismo fa così tanto da cemento che attorno a esso si edifica quel poco di identità europea che ancora è ammessa (l’Europa laica contro l’America bigotta) o su di esso si costruiscono partiti politici postcomunisti o postcattolici (in Europa, quella Margherita che si chiama partito liberale, in Italia il partito democratico, che non a caso si è definito «partito laico» e, al primo punto programmatico, ha posto il riconoscimento dei matrimoni omosessuali).
L’odio contro la Chiesa e le sue gerarchie (pericolosissimo perché finirà con l’armare ideologicamente la mano di qualche criminale) e l’apostasia del cristianesimo è ciò su cui oggi si basa l’Europa. Non sapendo più che cosa è, né avendo chiara idea di che cosa vuole essere (se non zona di pace e di ferie), l’Europa fugge da se stessa. Ma poiché senza un interlocutore o un avversario, anche immaginario, che consenta di distinguere «noi» da «loro» non si può esistere, l’Europa, per mostrare che invece esiste, ha fatto la sua scelta: ha puntato al fantasma degli omofobi per combattere il cristianesimo.
Trovato il nemico, fascismo, nazismo, comunismo si inventarono confini, campi e gulag per rinchiudercelo. Ma l’ideologia europeista, come ha scritto un Tale, è «una forza gentile»: al momento si limita alle minacce culturali e alle censure parlamentari.
«La Stampa» del 30 aprile 2007

Stato salutista non avrai il mio scalpo

Per opporsi ai diktat del nuovo pensiero igienico globale
di Michele Ainis
Lo Stato terapeutico ha inaugurato l'ultima crociata: quella contro Bacco e i suoi seguaci. Anche se le truppe governative, in realtà, sono schierate già da tempo. Nel giugno 2002 un decreto legge aveva abbassato il tasso alcolico consentito per chi si mette al volante, portandolo da 0,8 a 0,5 grammi per litro: in pratica significa un bicchiere di vino, o due di birra. Ma le sanzioni contemplano l'arresto fino a un mese, una multa stratosferica, la sospensione della patente per 3 mesi. Da qui la tragedia di Treviso, dove il 12 agosto 2002 un operaio si è ucciso quando i vigili gli hanno ritirato la patente, costringendolo alla disoccupazione: era infatti risultato positivo all'etilometro, e da appiedato non avrebbe più potuto raggiungere la sua fabbrica Benetton a 30 chilometri da casa.
Tuttavia non basta, non basta mai. Nel 2003 il governo ha stabilito la chiusura dei locali dopo le tre di mattina, e niente alcolici dopo le due. Nell'autunno del 2006 la bozza della legge finanziaria aveva previsto il divieto di vendere bevande alcoliche ai minori, compresa la birra in pizzeria; divieto poi stralciato per manifesta estraneità alla manovra di bilancio. Nelle stesse settimane il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge che castiga in ogni ora del giorno e della notte la mescita e la vendita di alcolici negli autogrill (fin qui il divieto valeva nelle sole ore notturne). Il mese scorso è stato annunziato un altro gire di vite al codice stradale, punendo ancora più severamente la guida in stato d'ebrezza: 6 mesi di arresto e una multa fino a 24 mila euro, il costo di un'automobile di lusso.
Infine il 12 aprile il ministro Ferrero ha promesso limiti alla pubblicità delle bevande alcoliche: proibito dire che il vino fa bene alla salute, vietata - come in Francia - la réclame degli alcolici in tv, ma viceversa obbligatoria l'etichetta che ci rimprovera e ammonisce contro i danni alla salute. È il sistema già sperimentato con le sigarette, ormai vendute in pacchetti listati a lutto, da cui s'affacciano scritte con ogni malaugurio per chi s'ostina ad acquistarle.
Che possiamo farci, sono i dettami del nuovo pensiero igienico globale. E infatti Ferrero è in buona compagnia: per dirne una, in marzo le autorità della Florida hanno deciso d'impedire ai giovani l'accesso notturno alle spiagge, dove è consuetudine bere un bicchiere in compagnia per festeggiare le vacanze di primavera dei college americani. E anche in Italia il salutismo è caro alla sinistra non meno che alla destra, oggi contro l'alcol, ieri contro il fumo o i cibi troppo grassi. Così, Fini e Giovanardi ci hanno regalato una legge iperproibizionista sulle droghe; l'ex ministro Sirchia ha messo alla berlina i fumatori, e per sovrapprezzo avrebbe voluto imporci il panciometro di Stato (limite massimo: 102 centimetri per lui, 88 per lei); il ministro Amato ha proposto l'antidoping all'uscita delle scuole. Dev'essere un riflesso biblico, l'idea che le porte del Paradiso s'aprano attraverso privazione ed espiazione. Sicché, per non andare fuori tema, non resta che contrapporre ai dieci comandamenti sui peccati di gola un decalogo di obiezioni recitate in punta di matita.
Primo: fino a prova contraria la Costituzione tutela il diritto alla salute, non già il dovere di sfoderare un alito che profuma di rose. Perché s'affida al senso di responsabilità degli individui, piuttosto che alla gomma del censore. E perché ne rispetta le inclinazioni, i gusti personali, gli stili di vita.
Secondo: se viceversa i nostri governanti vogliono propinarci uno Stato etico, se diventano alfieri dell'estremismo salutista, daranno giocoforza fiato all'estremismo opposto, quello di chi vuole sbarazzarsi dello Stato. Sarà un caso, ma il motto di David Friedman («non chiedere che cosa può fare lo Stato per te, chiedi cosa ti sta facendo»), nonché le teorie dei libertarians (che prendono a modello le comunità medievali, società senza Stato), non hanno mai guadagnato tanti estimatori.
Terzo: nella misura annunciata da Ferrero c'è un tradimento del patto elettorale. Perché il programma di Romano Prodi aveva un profilo antiproibizionista, promettendo per esempio di modificare la legge sugli stupefacenti. Ma dopo un anno non ne è caduta neppure una virgola, e ai divieti s'aggiungono i divieti.
Quarto: se la legge Fini-Giovanardi non distingue fra l'eroina e gli spinelli, Ferrero alza la mira contro ogni bevanda con un contenuto alcolico superiore a 1,2 gradi, senza distinguere fra la barbera e il whisky. È una logica da bombe termonucleari, che non si cura di quanti innocenti ci rimettono le penne.
Quinto: si dà il caso tuttavia che il «bere mediterraneo» sia un tratto della nostra identità culturale: da qui le immediate proteste della Coldiretti, dell'Aduc, di Città del Vino. E si dà il caso inoltre che l'uso moderato di bevande alcoliche riduca la patologia cardiovascolare: lo ha ricordato l'associazione europea che riunisce gli esperti del settore.
Sesto: se il divieto di pubblicità è già vigente in Francia - come ha osservato il nostro esterofilo ministro - esso è viceversa estraneo agli altri paesi dell'Unione. Dopo di che le morti del sabato sera restano, ovviamente, una tragedia da arginare, così come i 25 mila uccisi ogni anno dall'alcolismo; ma le statistiche vanno lette per esteso, e in Italia il quadro è meno fosco che nel resto d'Europa, mentre gli incidenti mortali sulle strade sono in calo dal 2001.
Settimo: si vieta la pubblicità ma non la vendita. Come per i tabacchi. È un atteggiamento ipocrita, che nel migliore dei casi trasmette messaggi ambigui. Non sarà che la torta del gettito fiscale è troppo ricca per lasciarla in frigorifero?
Ottavo: di sanzioni ce n'è già abbastanza. Ma come spesso accade, nessuno si cura d'applicarle. Una ricerca attesta che fra il 2002 e il 2004 solo il 3% degli automobilisti italiani ha subito il test dell'alcol (la media europea è del 16%).
Nono: siamo certi che l'oscuramento della pubblicità funzioni? Negli Usa la Federal Trade Commission, il ministero della Salute, l'Università del Texas e varie altre istituzioni hanno detto che non c'è nessuna prova che questa misura abbia effetti sul consumo, figurarsi sull'abuso. In più sui giovani suona come un invito a trasgredire.
Decimo: siamo altrettanto certi che il proibizionismo paghi? In Svezia un vinello da tavola costa 20 euro, ma l'alcolismo cresce a vista d'occhio. In Inghilterra c'è una campagna forsennata contro il fumo, ma senza risultati. Negli Stati Uniti, a dispetto dei 200 milioni annui per inserire la verginità nei curricula scolastici, chi frequenta i corsi di castità fa sesso per la prima volta a 14 anni. Ma gli Usa, durante gli anni Venti, hanno già fatto fiasco con il proibizionismo sui liquori. Adesso tocca a noi: ritornerà Al Capone?
«La Stampa» del 1 maggio 2007

Polonia: la nuova inquisizione

Jaruzelski incriminato
di Piero Ostellino
In un bel libro sulle rivoluzioni americana e francese, Hannah Arendt scrive che i regimi che le rivoluzioni generano assomigliano a quelli che hanno abbattuto. Gli americani avevano lottato contro l’Inghilterra colonialista, non contro il costituzionalismo inglese; così, il sistema politico americano è quanto di meglio il liberalismo britannico di Hume e di Smith, permeato di scetticismo, aveva espresso con l’Illuminismo scozzese. I francesi, con la loro rivoluzione democratica permeata di razionalismo utopico, avevano trasferito al «popolo» gli stessi poteri assoluti del re che avevano abbattuto, dando forma alla filosofica «volontà generale» di Rousseau che molto avrebbe finito con assomigliargli se non fosse stata mitigata dal costituzionalismo di Montesquieu, mutuato dal sistema inglese. Ora, la Polonia democratica - in un rigurgito di furore anticomunista - sembra voler riproporre, a diciotto anni dalla fine del comunismo e sia pure nella misura dell’autodenuncia, una sorta di moderato Terrore giacobino analogo a quello che aveva divorato in Francia gli stessi figli della grande Rivoluzione del 1789. Persino Walesa, Kuron, Micnik e Geremek, gli uomini che avevano messo in ginocchio il regime filosovietico, hanno rischiato di passare per «collaborazionisti». Così, la richiesta di una «confessione di massa», che coinvolge oltre 700mila polacchi, finisce con assomigliare, non del tutto accidentalmente, alle purghe staliniane, minacciando di far precipitare il Paese nell’incubo di un lungo e drammatico «buio a mezzogiorno». La Polonia pacifica e europea sta scrivendo, sotto la direzione non propriamente liberale dei fratelli Lech e Jaroslaw Kaczynsky, una pagina che - per dirla con la Arendt - sembra più un riflesso, più una specie di lascito totalitario che una corretta e democratica esigenza di giustizia. Nella rete dell’Istituto per la memoria nazionale di Katowice è caduto - né avrebbe potuto sottrarsene - il generale Wojciech Jaruzelski, accusato di «crimine comunista» per aver decretato la legge marziale nel 1981. L’atto di accusa è ampiamente comprensibile, persino giustificabile allo stato degli atti, certamente condiviso da milioni di polacchi che, in quegli anni, soffrirono persecuzioni e condanne in nome della libertà, della democrazia e, soprattutto, dell’affrancamento dall’Unione Sovietica. Ma è proprio sulla base di questa storica aspirazione all’indipendenza e all’autonomia dalla Russia - patrimonio secolare della nazione polacca - che all’accusa di «crimine comunista» andrebbe associato il riconoscimento al generale Jaruzelski di «contributo alla causa nazionale». Ne avevo parlato con lui, anni fa, nel corso di una lunga conversazione - in russo, la sola lingua, oltre il polacco, che parla - girando intorno nel cortile della casetta dove abitava. «So - mi aveva detto - che i miei compatrioti mi odiano per quello che ho fatto e non posso dar loro torto. Ma, se non avessi "invaso" io stesso il Paese con le nostre forze armate e imposto la legge marziale, lo avrebbero fatto i russi con i loro carri armati e sarebbe andata peggio. I polacchi hanno perseguitato e a volte ucciso altri polacchi, e per me è il dolore più grande». Erano gli stessi sentimenti che - durante una cena a due di qualche anno dopo, in Vaticano - mi aveva espresso il «Papa polacco», usando l’espressione «imperialismo russo» invece di Unione Sovietica. Jaruzelski aveva conosciuto l’inquisizione staliniana. Sarebbe davvero paradossale se rivivesse ora lo stesso incubo nella Polonia indipendente.
«Corriere della sera» del 18 aprile 2007

Fascismo, il consenso ha sempre ragione

La radio, i giornali, il cinema, lo sport: negli anni Trenta il regime consolida l’orgoglio dell’italianità impiegando tutti gli strumenti di massa
di Marco Meschini
Il rapporto tra consenso e cultura di massa sotto il fascismo, affrontato dal nuovo volume della collana sulla storia del XX secolo del Giornale, mette il dito in uno dei temi storiografici più dibattuti. Giacché se Renzo De Felice ha ben illuminato il radicamento effettivo del fascismo nella società italiana, vi è ancora chi ritiene che il fascismo debba essere confinato nell’ambito delle tirannie imposte dall’alto, in particolare per smarcarlo dall’immediato parallelo con il comunismo.
Ma le direttrici della fusione tra cultura di massa e consenso in ambito fascista sono state ben messe in luce da molti studi: in primis quelli dedicati ai «nuovi media», che proprio in quel torno di tempo si prestavano all’applicazione su scala nazionale e internazionale. E dunque la radio, intesa come voce del partito e dello Stato, capace di portare quasi in ogni angolo del Paese il timbro e la forza evocativa di alcune personalità, prima ancora delle loro idee. Poi la grande fascinazione del bianco e nero del cinema, prima muto e poi (1931) sonoro: un campo in cui il fascismo diede prova di notevoli capacità creative unite a non picciola ambizione, accanto ovviamente al tritume di una propaganda di basso profilo. E ancora la stampa, cui il giornalista Mussolini non poteva certo essere indifferente. E poi le attività censorie, a partire dalla nomina dei direttori responsabili di sicura fede fascista sino alle «veline», ovvero il controllo sempre più serrato sui contenuti, giornali d’opposizione a parte.
Vertice di questo processo fu il Min.Cul.Pop., famigerata sigla che compendiava l’azione di un Ministero per la Cultura Popolare il cui compito era condurre le menti - e le anime... - del popolo alla verità dell’obbedienza. L’azione di una siffatta propaganda era diretta a debordare pressoché in ogni campo del vivere e del pensare. E si accesero i fari sul mito dell’Alfa Romeo, della Bugatti e della Maserati, vessillifere icone di un’italianità fascista, rombante e vincente da un capo all’altro del pianeta. O sulle vittorie di una nazionale di calcio capace di inanellare serie impressionanti di vittorie, intervallate da qualche pareggio e poche, pochissime sconfitte. O ancora sulle vittorie in atletica leggera, in particolare durante il rito neo-pagano delle Olimpiadi di Berlino (1936).
E poteva essere trascurato il «dopolavoro»? Niente affatto, considerato che l’OND (Opera Nazionale Dopolavoro) risale al 1925. Il fascismo aveva ben compreso come fosse necessario occupare lo spazio del tempo quotidiano per imporsi a livello delle masse. Una «cultura di massa» che si sostanziava anche di immagini e modelli, come quello del fascista sempre agile e scattante, volto rasato e muscolo bene in vista, archetipo inconscio di tanto wellness e fitness d’oggidì. E poi c’era il gesto repentino e identitario, il saluto romano che italianizzava retoriche del corpo ammantate di impasto storico ed emulazione d’importazione.
Lo scopo ultimo era unitario: cementare il corpo sociale lungo la direttrice d’un nazionalismo coagulato intorno a pochi concetti chiave - fede laica e obbedienza laicizzata, sostanziate da una disponibilità alla lotta su ogni fronte - e a un unico uomo. Dux-lux fu una fonetizzazione di idee-forza che non si vergognavano di storcere elementi della tradizione profonda del Paese per piegarli al nuovo vento: giacché parlare di «luce» significava cavalcare il mito luciferino della modernità e sfidare il fondamento cristiano di tanta parte della cultura europea, giacché «in principio era la luce». E, su questa falsariga, si pensi pure al canzoniere dei piccoli balilla del ’29, che non si vergognava di usare l’inno del Christus vincit, regnat, imperat per rivolgerlo al Duce.
E poi le grandi adunate, la scuola, l’università, gli intellettuali... Il che non spiega del tutto, ma almeno aiuta a capire come l’aumento vertiginoso degli iscritti al partito fascista, negli anni Trenta, non fosse solo il risultato di una imposizione burocratica, ma qualcosa di molto più profondo.
«Il Giornale» del 1 maggio 2007

07 maggio 2007

Chi odia l’America

Il saggio di Andrei Markovits, opinionista liberal, critica le tentazioni ideologiche del Vecchio Continente
di Ennio Caretto
«Le due facce della sinistra europea che ripete gli errori della destra: contro Bush e nemica d’Israele»
Uncouth Nation, «Una nazione volgare», sottotitolo Perché l’Europa detesta l’America, è l’ultimo e più polemico libro di Andrei Markovits, un noto germanista dell’Università del Michigan, uno dei leader intellettuali americani. Tirando le conclusioni di un dibattito iniziato anni fa sulla spaccatura tra l’America e l’Europa causata dall’intifada in Palestina e dalla guerra contro l’Iraq, Markovits sostiene la tesi che in Europa l’antiamericanismo e l’antisemitismo (che a suo parere coincide con l’antisionismo) rappresentano le due facce della stessa medaglia, anzi che il primo alimenta il secondo. «La virulenza dell’ostilità europea verso gli ebrei e verso lo Stato di Israele - scrive Markovits - non si spiega senza l’antiamericanismo. L’antisemitismo e l’antiamericanismo sono inseparabili, costituiscono un fattore unificante per l’Europa, ne rappresentano la lingua franca». L’antisionismo, aggiunge l’autore, è in più rapida crescita nell’Europa occidentale rispetto a quella orientale, proprio perché la seconda è meno antiamericana. Il germanista incolpa soprattutto la sinistra europea. «Mentre una volta - sottolinea - era antiamericana e antisemita la destra, ora lo è la sinistra». All’inizio del XX secolo, osserva, gli americani e gli ebrei apparivano alla destra europea come un pericolo modernista, i nemici dei valori tradizionali, mentre la sinistra li considerava l’avanguardia del progresso sociale, forze di riforma. Adesso invece la sinistra scorge negli americani e negli ebrei, dei quali Israele è il simbolo, l’espressione di ciò a cui si oppone: l’imperialismo, il capitalismo, la globalizzazione. «Il vecchio antisemitismo di destra si è trasformato nel nuovo antisemitismo di sinistra» dice Markovits. Secondo questo punto di vista, l’America e Israele condividono non soltanto lo spirito colonialista, ma anche il fondamentalismo religioso e si comportano da Rambo. Giudizi ai limiti della demonizzazione, ammonisce l’autore, che non si possono giustificare razionalmente. Andrei Markovits è un liberal, un ebreo romeno, trapiantato negli Stati Uniti, che si è tenuto in stretto contatto con l’intellighenzia europea. Precisa che l’antiamericanismo è un sentimento diffuso non tanto tra le popolazioni quanto tra le élite dell’Unione Europea e lo attribuisce alla loro paura di venire «americanizzate». Nel libro ne ricostruisce le origini storiche, citando una caterva di critici dell’America, da Heinrich Heine a Charles Dickens a Bertolt Brecht, fino a Dario Fo e - sorpresa! - all’ex campione di calcio francese Michel Platini. Ed evidenzia che il presidente George W. Bush lo ha aggravato «con le sue politiche, il suo comportamento, il suo modo di essere». Bush, afferma il germanista, rappresenta il peggiore stereotipo di americano, quello «arrogante, ignorante, volgare, sconsiderato e aggressivo». Ma neppure cambiando presidente e politiche, conclude, l’America scioglierebbe le riserve europee, sono troppo radicate. Conclusione discutibile: gran parte delle élite europee è antibushista, non antiamericana, risponde per esempio il filosofo politico Michael Walzer. La tesi di Markovits che l’antiamericanismo e l’antisemitismo si sovrappongono in Europa riscuote vasti consensi negli Usa. Al Congresso, il deputato democratico Steven Israel ha chiesto al Dipartimento di Stato di «esaminare ogni anno i testi di storia delle scuole straniere», non solo europee, per accertare se i bambini crescano antiamericani e antisemiti e se possibile prendere dei provvedimenti. L’editore Mortimer Zuckerman ha detto che l’Europa «è daccapo malata, incomunicabile e inaffidabile». A una tavola rotonda alla tv, la leader femminista Phyllis Chesler ha accusato l’Ue di avvicinarsi alle posizioni dell’Islam: «Israele è giudicato il piccolo satana, figlio del grande satana, l’America una potenza egemonica». La Chesler è una figura autorevole, autrice di due bestseller: Women and Madness («Le donne e la pazzia», ed. Palgrave Macmillan) e New Antisemitism («Il nuovo antisemitismo», ed. Jossey-Bass). Nel processo all’Ue, vengono addotti come testimoni a suo carico i pensatori francesi André Glucksmann, che giudica l’antisionismo una conseguenza dell’antiamericanismo, e Bernard-Henri Lévy, per cui l’antiamericanismo è legato all’antisemitismo, al fascismo e via di seguito, nonché il tedesco Josef Joffe, stando al quale la sinistra europea vede nell’America e in Israele «degli accoliti di Mammona e di Marte, due falsi dei». La politologa Melanie Phillips si rifà ai tre censurando le vignette dei giornali europei: sull’Independent inglese, lamenta, ne apparvero una della bandiera americana con la stella di Davide e una seconda di un carro armato israeliano con il vessillo Usa. Jeff Weintraub, dell’Università della Pennsylvania, non nasconde il proprio risentimento: «Noi ebrei e americani siamo oggi detestati non per ciò che facciamo, ma per ciò che siamo. Gli europei ci considerano moralmente e culturalmente inferiori, forse anche per soffocare il loro senso di colpa per non essersi opposti al nazismo e per avere permesso l’Olocausto». Su questo punto però non tutti sono d’accordo. Sebbene critico dell’Ue, Michael Walzer è convinto che antiamericanismo e antisemitismo siano un prodotto anche delle violazioni del diritto internazionale da parte degli Stati Uniti e di Israele: «È vero che gli europei tendono a considerarsi superiori a noi. Ma è altrettanto vero che in Palestina e in Iraq abbiamo compiuto alcuni eccessi». Walzer è ebreo, un frequente visitatore di Israele, ma come due insigni esponenti dell’ebraismo britannico, lo storico Eric Hobsbawm e il drammaturgo Harold Pinter, ha preso le distanze dalla strategia di Washington e Gerusalemme. Sulle stesse posizioni è l’ex presidente Jimmy Carter, l’architetto della pace di Camp David tra l’Egitto e Israele, secondo cui la fine della guerra dell’Iraq e la soluzione del problema palestinese ridurrebbero l’antiamericanismo e l’antisemitismo, o antisionismo, in Europa. Carter, Walzer e altri invitano l’Europa e l’America a farsi un esame di coscienza. L’Europa perché sembra non sapere più distinguere tra amici e nemici, al punto da additare nei sondaggi gli Stati Uniti e Israele quali i massimi pericoli per la pace (per gli americani lo sono invece, più realisticamente, l’Iran, la Corea del Nord e l’Iraq). E l’America perché la sua denuncia dell’Ue cela un certo antieuropeismo e finisce per screditare anche le critiche legittime all’operato americano e israeliano. Carter in particolare auspica che gli Usa incomincino a premere su Israele e disimpegnarsi dall’Iraq da un lato e a riformarsi internamente dall’altro. Per l’ex presidente, l’attuale simbiosi tra antiamericanismo e antisemitismo è un fenomeno passeggero e, quando esso sarà diminuito, i due mali potranno essere curati separatamente. Non basta accusare l’Europa, termina Carter, bisogna ovviare ai motivi che la inducono a farlo, dall’unilateralismo di Bush alla violenza insita nella società Usa: «Se ci riusciremo, riscopriremo che è più ciò che ci unisce di ciò che ci divide».

Il libro di Andrei Markovits «Uncouth Nation. Why Europe Dislikes America» è edito da Princeton University Press (pagine 302, $ 24,95)
«Corriere della sera» del 16 aprile 2007

Quei 6,8 milioni di giornate di lavoro da recuperare

di Pietro Ichino
Secondo i dati forniti dall’Inps, dal 2003 al 2005 le giornate di malattia certificate dai medici di base ai lavoratori italiani sono aumentate di 6,8 milioni; per la precisione, da 66.900.000 a 73.700.000: un aumento di oltre il 10% in due anni. Poiché in quel periodo non si è verificata alcuna catastrofe sanitaria, dobbiamo attribuire il fenomeno a una piccola catastrofe socio-culturale: per qualche causa che ancora non conosciamo, in quei due anni è bruscamente aumentata la propensione dei lavoratori italiani a stare a casa (ma anche la disponibilità dei medici ad assecondarla). Se il costo complessivo medio di una giornata di lavoro è di 150 euro, quei 6,8 milioni di giornate di malattia in più - stabilizzatesi nel 2006 - stanno costando alle aziende italiane oltre un miliardo di euro l’anno: quasi un terzo di quanto il governo ha destinato alle aziende stesse con l’ultima legge finanziaria per ridurre, con il «cuneo fiscale», il costo del lavoro. Data l’enorme entità di questa perdita, vale davvero la pena di investire risorse e attenzione sullo studio dei meccanismi socio-culturali che la producono; e dei possibili rimedi. Il basso livello relativo delle retribuzioni italiane non può spiegare un aumento improvviso dell’assenteismo di questa entità. In un sistema che consente a quasi tutti i lavoratori di «mettersi in malattia» con grande facilità e senza perdita di retribuzione, ciò che induce ad andare ogni giorno al lavoro è, certo, l’attaccamento al lavoro stesso, sul quale il buon compenso certo influisce; ma conta anche il senso del dovere, il senso di responsabilità verso i colleghi e l’intera collettività. E questo senso di responsabilità è alimentato dalla percezione che esso sia condiviso dalla generalità dei consociati; se invece la coesione sociale e il clima di fiducia reciproca tra i membri della comunità si deteriorano, se prevalgono i messaggi di egoismo e svalutazione del bene pubblico, si innesca il circolo vizioso che tende a collocare il sistema a un livello più basso di efficienza ed equità. Occorre rendersi conto che la cultura delle regole, il senso civico e l’attaccamento al bene comune, alla res publica, non costituiscono soltanto risorse morali essenziali di un Paese, ma costituiscono anche un fattore produttivo indispensabile, di cui per certi aspetti (come questo di cui stiamo discutendo) è misurabile con precisione l’enorme valore economico. Coltivare e alimentare questo delicatissimo «gioco a somma positiva» è compito precipuo del governo nazionale, ma anche di tutte le altre istituzioni e formazioni sociali intermedie, ivi compresi gli ordini professionali, i sindacati dei lavoratori, i giudici penali e del lavoro (i quali - come mostra anche l’impressionante articolo di ieri di Gian Antonio Stella - proprio sul terreno dell’assenteismo abusivo solitamente dimenticano il rigore applicato in altri campi). Riattivare il gioco a somma positiva è possibile soltanto con un’iniziativa a 360 gradi, che coinvolga tutti questi soggetti e faccia leva al tempo stesso sulla campagna di opinione e sugli incentivi giusti, dando a tutte le parti sociali interessate la percezione che si sta voltando pagina. Pensiamo, per esempio, a un governo che - mediante un accordo con i sindacati, gli imprenditori, l’Inps e possibilmente anche gli Ordini dei medici - lanci l’obbiettivo del recupero, nell’arco del prossimo anno, di quei 6,8 milioni di giornate di astensione dal lavoro sicuramente evitabili; e magari - perché no? - negli anni successivi l’obbiettivo di allineare il nostro tasso di assenze per malattia a quello dei Paesi europei più virtuosi. Come? Richiamando tutti, i medici per primi, a un maggior rigore e senso di responsabilità; attivando quella rilevazione telematica di tutte le certificazioni e le prescrizioni terapeutiche (già prevista fin dalla Finanziaria 2005, articolo 1, comma 149°, ma ancora inattuata per ritardi del ministero della Salute) che consentirebbe un controllo molto efficace sull’operato dei medici e su alcune forme di assenteismo abusivo; richiamando i dirigenti pubblici alla necessità di un riallineamento dei tassi di assenza nel loro settore a quelli delle aziende private; ma anche adottando un’opportuna riduzione della retribuzione per i primi tre giorni di malattia, eventualmente compensata dalla possibilità di autocertificazione per quei giorni, ma, soprattutto, da un aumento generale delle retribuzioni corrispondente al risparmio conseguito dalle aziende, in modo che tutti i lavoratori percepiscano immediatamente il vantaggio della riforma. L’obiezione di rito, a questo punto, è che i veri problemi del mondo del lavoro sono «ben altri»: il lavoro nero, le «morti bianche», e anche le retribuzioni troppo basse. Ma se andiamo alla radice del fenomeno del lavoro nero e di quello connesso degli infortuni nei cantieri troviamo ancora l’illegalità diffusa, il difetto generale di cultura delle regole che affligge il nostro Paese: qui la battaglia, in ultima analisi, è ancora la stessa. Quanto alle retribuzioni troppo basse, perché non incominciamo col restituire a chi lavora quel miliardo indebitamente distribuito ogni anno a chi sta a casa senza vera necessità?
«Corriere della sera» del 16 aprile 2007

Cassola la letteratura che anticipa la storia

di Massimo Onofri
Nel bell’articolo dedicato al capitolo azionista della Resistenza, Giovanni De Luna ha ricordato sulla Stampa di ieri il processo revisionistico avviato da Pavone e De Felice, all’inizio degli anni ‘90, in vista d’una lettura non oleografica del fenomeno, non senza segnalare, però, i rischi di «impoverimento» del discorso storiografico. Non ho potuto fare a meno di pensare a come, proprio sul piano del giudizio storico, la letteratura abbia spesso anticipato, e di molto, i laboriosi risultati degli storici. Ci voleva Paul Ginsborg per diagnosticare quel «familismo» che De Roberto aveva già implacabilmente intuito nei Vicerè (1894)? Nel romanzo dove un rampollo degli Uzeda poteva dire, a nome della sua rapace e trasformista famiglia: «L’Italia è fatta, ora facciamo gli affari nostri».
La Resistenza - è vero - ha avuto presto la sua edificante traduzione nell’Agnese va a morire (1949) di Renata Viganò. Ma anche i suoi precoci demistificatori. Non dico del solito e grande Fenoglio, ma proprio del vituperato Cassola. E non quello autobiografico di Fausto e Anna (1952), piuttosto lo scrittore ingiuriato della Ragazza di Bube (1960). Qui, i valori della Resistenza non sono mai in discussione: ma le azioni sì. Il Bube partigiano e comunista è un’analfabeta morale: nato alla vita adulta su un rozzo abbecedario di partito. Siamo in Toscana: e non è difficile riconoscere sotto suoi i panni una delle varianti di quell’eroe manesco e protofascista, pronto alla rissa e facile all’omicidio, che Soffici aveva celebrato nel suo Lemmonio Boreo (1912).
Calvino, in un’inchiesta fatta a caldo da Mondo Operaio, osservò che Cassola non aveva dato conto del contrasto fondamentale della storia del partito comunista del dopoguerra: quello tra il partito armato estremista, disposto a ogni violenza per la Causa, e il partito «modernamente strumentato, da classe operaia egemone, capace d’agire sul piano d’una democrazia avanzata». Calvino, allora, come tanti altri intellettuali comunisti, era ancora convinto di possedere il senso della Storia: sicuro di poter distinguere tra la violenza «giusta» dei partigiani e quella iniqua dei fascisti. Cassola, dal canto suo, aveva invece avvertito il problema senza possibilità di scampo: quanto porteremo, nel mondo futuro e radioso che crediamo di costruire, di quella cieca e feroce violenza, di quella mancanza di pietà di cui, come Bube, siamo stati capaci? In questo senso, e solo in questo, La ragazza di Bube è stato il vero romanzo della «crisi della Resistenza» e il carteggio Agosti-Bianco ne è una dolorosa verifica.
«La Stampa» del 1 maggio 2007

Satira: non c’è (più) niente da ridere

Da Cavour ad Andreotti, due secoli di sarcasmo e potere messo a nudo. Con un rimpianto: «“Cuore” l’ultima fiammata. La satira è morta, sorvoliamo sui comici tv...»
di Cristiano Gatti
Bergamo - Per celebrare adeguatamente i sessant’anni, ha deciso che fosse il momento di confezionarsi un bel pacco dono, con dentro tutti i sogni di una vita: la biblioteca che ospiterà nei secoli dei secoli la sua arguta collezione, un’associazione di amici che si occuperà della gestione, nonché una grande mostra nel cuore della Bergamo antica («Ludere et ledere», chiuderà il 10 giugno, finora un successone). Seduto alla scrivania della sua tana, circondato da scaffali colmi di ironia, sarcasmo, genio e perfidia, Paolo Moretti ha tutta l’aria di un uomo finalmente pago. Indica la raccolta più cara - in tutti i sensi - e il suo sguardo diventa languido come quello di una puerpera davanti al pupo: sono cent’anni del Punch, storica rivista satirica inglese, scovati nel Liechtenstein e qui da noi ormai un pezzo decisamente unico. Sposta l’osservazione su L’Asino, giornale anticlericale di fine Ottocento, e non esita a raccontarlo come il più geniale e il più innovatore, peraltro prontamente contrastato dal clericalissimo Il Mulo, arrivato appena un momento dopo e un gradino sotto.
Sto assistendo a un mezzo prodigio, per dire come i luoghi comuni abbiano limiti abissali: quest’uomo ha una laurea in legge, ha lavorato a lungo sui grafici e sulle cifre delle consulenze aziendali, ha insomma sviluppato una formazione tendenzialmente arida e ingessata, eppure coltiva da oltre trent’anni la passione pazzoide e svitata della satira, per di più qui, a Bergamo, un luogo d’Italia che brillerà pure per tante qualità, ma non certo per il senso dell’umorismo e la battuta al fulmicotone. Glielo faccio notare, Moretti sorride: «Vai a sapere: io questa insana passione, che mi è costata tantissimo tempo e tanti soldi, l’ho maturata come reazione all'impegno politico. Ci avevo provato nei primi anni Settanta, con i socialdemocratici: arrivai ad essere anche segretario regionale. Poi però compresi un sacco di cose, e mi chiamai fuori. Proprio in quel periodo cominciai ad osservare la storia e la politica da una visuale diversa, chiamiamola pure alternativa e dissacrante, ma sicuramente più divertente. Iniziai a collezionare materiale: raccolte, singoli giornali, vignette. Quello che vede attorno a lei è il risultato».
Vivere di satira. Meglio: da guardone della satira. In vita sua non ha mai provato a disegnare nemmeno la casetta col fumo che esce a spirale dal camino. Nessuna caricatura, nessuna battuta contundente. Ma della satira sa tutto. In Italia, ci tiene a ricordarlo, sono una decina i grandi collezionisti come lui. Racconta di quanto sarebbe importante che qualche università avviasse corsi specifici su questo genere storico, «ma finora, al massimo, abbiamo valorosi professori che organizzano qualche ricerca o qualche convegno, nonché qualche studente che ci fa la tesi». La verità, aggiunge, è che in Italia parliamo tutti di satira, ma poco facciamo per restituirle una dignità adeguata. Quando scoppia un caso, perdiamo giornate a stabilire se la satira debba avere limiti o non debba averne, senza però mai comprendere fino in fondo il ruolo di un’arte così sofisticata...
Parla a briglia sciolta, ne parlerebbe per ore. Lo interrompo però proprio lì, dove forse preferirebbe sorvolare: a proposito, Moretti, la satira deve avere limiti? «Il limite deve darselo l’autore. Un limite di gusto. Certo non possiamo appaltare la questione a un tribunale. Ma mi rendo conto che è una posizione troppo idealista, da amante fazioso...».
Preferisce continuare lungo altri percorsi. «Ho pensato anche di donare il materiale a enti pubblici, ma alla fine ho scelto la gestione privata. Da qui la decisione di trovare una “casa” alla collezione. Abbiamo aperto un anno fa: è tutto riunito e catalogato. Chi vuole, ricercatore o studente che sia, può prendere contatto diretto con noi e ha la porta aperta. L’indirizzo: www.fondopaolomoretti.it. Siamo qui».
Una satira a portata di mano. Tremila libri, quattromila almanacchi, sessantamila fogli singoli di oltre quattrocento testate. Una satira che non stia chiusa a chiave nel cassetto, o in un bunker antiatomico, ma che riviva tutti i giorni, genere prêt-à-porter. Gli chiedo: perché tutto questo? La risposta non è per niente satirica, siamo sul serissimo: «Studiare la storia attraverso questo genere è affascinante. Aiuta ad avvicinare ancora di più la verità, spesso più di quanto permetta la storia ufficiale. L’importante è avere ben presente che la satira non è soltanto contropotere: spesso, è essa stessa strumento di potere e di propaganda. Due esempi: Cavour e Andreotti. Il primo nell’800, il secondo nel ’900, si sono serviti astutamente della satira. Fingendo d’essere bersagli, in realtà ne hanno sempre usufruito per costruire il proprio carisma. Tutto il contrario di Giolitti: lui, non volendo avere niente a che fare con la satira, ne è diventato una vittima sacrificale. Credo che su Giolitti la satira abbia espresso il potenziale più crudele».
Altre curiosità in ordine sparso. «La satira vive le sue stagioni più fertili nei periodi di grande tensione morale, politica, religiosa. Cito i moti del 1848, il 1870 con Porta Pia e la questione clericale, poi l’entrata in guerra del 1915, quindi il secondo Dopoguerra, con le grandi questioni monarchia-repubblica e Dc-Pci, la bella stagione del Candido di Guareschi». Quanto alla satira di oggi, «non vive un’epoca felicissima: segno dei tempi abbastanza fiacchi che viviamo, con la politica sempre più scaduta e il costume sempre più svilito. Difatti, manca un grande giornale satirico. Per fortuna, ogni singola testata mantiene comunque uno spazio vitale, anche solo con la vignetta di prima pagina». Tra i contemporanei, i meriti maggiori vanno a Forattini: «Con Satyricon aprì una grande palestra per giovani di talento. E comunque negli anni Settanta-Ottanta caratterizzò la satira politica con uno stile e un linguaggio inconfondibili. Ricordo alcuni guizzi grandiosi: quel basco che galleggiava solitario tra le onde, quando morì Nenni... Più di recente, è cresciuto molto Giannelli: lo trovo raffinato». Meglio sorvolare, invece, sulla satira televisiva: «Hanno il vizio di esaurirsi. Gente come Crozza e come Cornacchione all’inizio ti conquista. Poi, alla lunga, diventa prevedibile e ripetitiva».
Si coglie un retrogusto di malinconia. La lunga storia che cominciò da noi nel 1848, con le prime vignette ispirate alla moda dei francesi, sembra come interrotta, senza un futuro, quasi smarrita nel vago. Moretti sorride e amaramente conferma: «Certo abbiamo ancora grandi vignettisti come Altan e ElleKappa, o caricaturisti di rango come Ardito e Bruna, ma la satira vera, feroce e spassosa, si è fermata già da tempo. L’ultima fiammata, tutto sommato, resta il Cuore di Michele Serra...».
Mostra un pezzo pregiatissimo: fine Settecento, libro del grande caricaturista Gillray, promotore di terribili campagne antinapoleoniche. Come per dire: altri tempi, tutta un’altra cosa. Non resta molto da aggiungere. La visita alla nobile casa delle geniali carognate, simbolicamente arroccata tra le antiche Mura di Bergamo, si chiude su questi puntini di sospensione. Brutto segno, quando persino la satira si scopre a vivere di rimpianti.

Aggrappáti a Dagospia
di Caterina Soffici
Dicevano gli antichi: castigat ridendo mores. Loro la satira la praticavano ad altissimo livello e ci hanno insegnato che non c’è niente di più efficace contro la retorica di una bella risata. Antidoto liberatorio anche contro il potere dei potenti veri e maggiormente contro quelli che si ritengono tali.
Negli anni Settanta si poteva ancora ridere di tutto, oggi si ride ben poco. La satira come genere politico e morale è morta e sepolta schiacciata sotto i seriosi schieramenti dello scontro di civiltà e del politicamente corretto. Gli islamici non si toccano, pena rivolte popolari e minacce di morte. I monsignori, bersagli prediletti della vivacissima satira anticlericale ottocentesca e risorgimentale, sono intoccabili pena accuse di laicismo. Gli immigrati, le donne e tutte le minoranze sono ormai specie protette pena accuse di scorrettezza politica.
Allora domandiamoci: perché non c’è un solo giornale satirico oggi in edicola? Perché non si vedono giovani disegnatori o battutisti di rango all’orizzonte? Qualcuno dice che la satira si è spostata dai fogli stampati alla televisione. Ma non vorremo mica chiamare satira quella dei comici in tv? Dai fratelli Guzzanti passando per le imitazioni di Crozza fino al Bagaglino la televisione fa casomai umorismo, ma non certo satira, ormai confinata nelle vignette sulle prime pagine dei giornali. Poche e circoscritte aree di sollievo in un plumbeo conformismo, dove tutti più o meno procedono con il freno a mano tirato.
Se la satira non si è spostata in televisione, dove è andata? Azzardiamo qui un’ipotesi spericolata: ha migrato su Internet nelle varie rubriche Cafonal e Stracafonal di Dagospia. Lì si castigano i mores e anche i tempora. Forse i personaggi messi lì alla berlina fanno più piangere che ridere. Ma questo è un altro problema.
«Il Giornale» del 5 maggio 2007

Scacco matto all’accidia

Tra pochi giorni si apre a Lodi il festival dedicato alla tentazione dell’Occidente non più assillato dalla sopravvivenza. Un male oscuro che demotiva, spegne la creatività e il gusto della vita; una malattia polimorfa, vista qui da un monaco e da tre scrittori, alle prese con l’impasse della pagina bianca
di Enzo Bianchi
Per curare il «demone meridiano» impariamo dai Padri del deserto: questa «passione» nasce in una vita vissuta alla giornata, nutrita di spiritualità vagabonda in cui l’amore non è legato a una storia, ma solo all’istante. Chi non discerne il proprio desiderio, la propria volontà, il proprio operare, assumendo fallimenti e riuscite, finirà per incontrare l’acedia

Oggi l'accidia - dopo essere stata vittima di una prolungata amnesia per cui non si sapeva neppure più che tipo di malattia spirituale fosse - gode di un rinnovato e vasto interesse: ne parlano i filosofi, i sociologi e anche quanti si interessano alla spiritualità. In realtà non credo che siano molti a esercitarsi contro di essa con la lotta spirituale, non molti a conoscerla fino a farne una diagnostica personale, non molti, di conseguenza, ad avere esperienza della possibile vittoria su di essa. Inoltre, anche se molti sostengono di parlare e scrivere sull'accidia, sovente parlano e scrivono d'altro, finendo per confonderla con disagi e patologie differenti. Sì, l'accidia gode oggi di grande attenzione, eppure pochissimi ne parlano per conoscenza autentica, vissuta con la mente, il cuore, il corpo.
Cos'è, dunque, l'accidia o acedia? Akedia nel greco classico indica la mancanza, il venir meno di un interesse, un'attenzione, una sollecitudine: è quindi uno stato di scoraggiamento, di sconforto, un sentimento che rasenta la disperazione perché non si scorge più la possibilità di un senso e, dunque, di "salvezza". Nella tradizione cristiana, il primo a parlare dell'acedia è Origene che la indica come tentazione subita da Gesù nel deserto e la individua come assopimento, intontimento, perdita di vigilanza. Poco più tardi Evagrio identificherà l'acedia e la descriverà tra le otto passioni, le otto tentazioni contro le quali il monaco deve lottare: una dominante, una suggestione efficace, un «demonio» che assale tentando di invadere la persona fino a offuscare lo sguardo del cuore, fino a travolgerla per trascinarla ai bordi della patologia psichica grave, fino alla depressione. Sarà lo stesso Evagrio, riprendendo un'esegesi rabbinica al Salmo 91,6, a definire questa tentazione «demone meridiano» perché è proprio verso mezzogiorno - ora che nel deserto è particolarmente calda, afosa, ora in cui il peso del digiuno si fa sentire - che affiora nel cuore del monaco la do manda ossessiva: «Ma vale la pena? A che serve tanta fatica? Chi me lo fa fare?». Chi conosce bene questa tentazione sa che si manifesta subito come patologia, come cattivo rapporto con lo spazio, e sa anche che ad essa si può aggiungere la tristezza - l'altra tentazione, parente così stretta dell'acedia che l'occidente le ha unificate in un unico «vizio capitale» - che è un cattivo rapporto con il tempo.
L'acedia è veramente il «male oscuro»: al suo apparire ispira un turbamento tra il nostro corpo e il nostro intelletto, tra lo spazio in cui siamo e la nostra persona: si cessa di habitare secum, non si riesce più ad abitare la solitudine, il deserto, il silenzio in una quiete pacificata e si tentano fughe da se stessi accompagnate da uno smarrimento di adesione alla realtà. L'ansia interiore viene percepita con disgusto spirituale, invade l'intera persona e diventa matrice di sensazioni e dominanti che possono condurre verso il vuoto, l'abisso, la «nientità», il cinismo nei confronti della vita e degli altri; a volte invece prevale il sogno di una diversità impossibile, il pensiero di un «altrove» in una situazione irreale in cui non c'è più sforzo spirituale, né esercizio di vigilanza e neppure la presenza di Dio che pur si percepisce a tratti come schiacciante.
Così il sentimento dell'acedia si insinua nel cuore e poco alla volta lo occupa interamente a scapito di ogni altro sentimento perché non è una sensazione epidermica o superficiale ma sorge dalle profondità più nascoste e meno conosciute dell'essere umano. È una malattia radicale e cronica del cuore, uno stato d'animo che porta al disorientamento, alla de-costruzione di tutto ciò che si è fatto nella vita, alla de-vocazione di ciò che si è diventati. Evagrio dice che l'acedia ha il terribile potere di spegnere la luce di Dio negli occhi dell'uomo.
Questa tentazione, che l'essere umano ha sempre conosciuto, forse oggi si fa più frequente e intensa, soprattutto nel mondo occidentale: là dove non si è più assillati dalla fame e dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza, ecco aprirsi lo spazio per desideri e bisogni che vanno al di là di quelli primari e che, proprio per questo, hanno in sé una vena di insaziabilità. Quando oggi si cerca di capire l'aumento di suicidi in tutte le fasce di età, la rivendicazione sempre più insistente ed esplicita di essere aiutati a morire senza sofferenza, la rimozione della morte per l'insostenibile pesantezza della sua realtà, allora bisognerebbe avere il coraggio di fare una diagnosi nella società e nella cultura e riconoscere che siamo in una società depressa, viziata dall'acedia, da questa malattia che impedisce il dinamismo dell'amare e dell'essere amati: nemmeno l'amore appare più credibile, nemmeno questo «vale la pena». Umberto Galimberti chiama l'acedia «noia», «vuoto intellettuale», «malinconia»: espressioni che fanno riferimento non tanto a un vizio o a una nevrosi, ma piuttosto a un sentimento di «esilio sulla terra». C'è del vero in questo, ma non si pensi che questa tentazione sia estranea a chi vive nella tensione verso «un altro cielo e un'altra terra»: l'acedia a volte è seduzione di ateismo e in questa particolare tentazione i monaci sono esperti proprio in virtù del loro esercitarsi a fare a meno di molte cose.
Atonia del cuore, asfissia dell'intelletto, paresi della volontà riducono l'uomo ad abitare zone infernali, a dimorare agli «inferi», cioè in abissi di nonsenso dove l'uomo ha smarrito la sua dignità. Eppure, anche in questa situazione, la voce di Dio può risuonare e chiedere addirittura, come a Silvano del Monte Athos, di abitare agli inferi senza disperare! È un caso che santi della nostra epoca come Teresa di Lisieux e Silvano dell'Athos, santi che percepiamo così attuali, abbiano conosciuto questa tentazione fino ai bordi dell'inferno? Ma i padri del deserto di ieri e di oggi, i solitari capaci di discernimento, non solo conoscono questa tentazione e la sanno diagnosticare fin dai primi sintom i, ma - da autentici «cardiognostici», conoscitori del cuore umano - sanno anche indicare i comportamenti atti a prevenirla e i rimedi adatti a curarla. Essi sanno che questa «passione» nasce innanzitutto in una vita vissuta alla giornata, una vita nutrita di spiritualità vagabonda in cui l'amore non è legato a una storia, a una vicenda ma solo all'istante e all'esperienza di un momento. Chi fa una vita obbediente solo a uno sfrenato attivismo - magari anche assunto «a fin di bene», in favore degli altri - e non sa habitare secum per attingere alla sorgente, chi si sfibra in molteplici rapporti superficiali, chi non si esercita quotidianamente a discernere il proprio desiderio, la propria volontà, il proprio operare, assumendo fallimenti e riuscite, questi finirà per incontrare presto o tardi l'acedia nel suo devastante incedere.
Per questo i rimedi che i padri del deserto indicano per controllare e vincere questo demone hanno essenzialmente tutti a che fare con la vigilanza e il discernimento sulla volontà propria: l'invocazione del Nome di Gesù, la preghiera, l'assiduità alle sante Scritture, lo stare saldi senza inseguire il vento... E per questo io credo che il rimedio per eccellenza rimanga l'eucaristia: eucaristia come esercizio di rendimento di grazie, eucaristia come rapporto con le cose dono di Dio, eucaristia come strumento di comunione cristica e cosmica. Ora, l'acedia è l'esatto contrario dell'eucaristia, cioè dello spirito di ringraziamento: incapace di cogliere il rapporto con lo «spazio» e il senso delle cose, chi è preda dell'acedia vive nella a-charistia, nell'incapacità a stupirsi della bellezza, dell'amore e, quindi, nell'incapacità a rendere grazie. Come affermava già Giovanni Climaco: «nella solitudine, privi di consolazione, si è tentati dal demone dell'acedia e della acharistia». Sì, l'acedia è non credere all'amore, mentre il cristiano dice con l'apostolo Giovanni «noi crediamo all'amore»!
«Avvenire» del 6 maggio 2007

Le Goff inventa il politeismo del Medioevo

Lo storico francese configura la religione dell’Età di Mezzo come un ibrido che aggiunse la quarta persona della Vergine Madre alla Trinità
di Marco Meschini
Jacques Le Goff è uno dei più grandi medievisti viventi e ogni suo intervento merita di essere ascoltato con attenzione, anche sotto le vesti di un’agile conversazione, come nel piccolo libro dedicato a Il Dio del Medioevo. Il tema è di quelli centrali: il ruolo di Dio nella storia medievale, cioè in quei mille e più anni di storia europea che sono parte ineliminabile di noi. E visto che il Medioevo si autoconcepì come Cristianità, cioè come lo spazio sociale, culturale e politico di una forma di cristianesimo, ebbene le parole di Le Goff meritano una doppia attenzione, perché qui il discorso ruota attorno al «cuore» del Medioevo stesso.
E dunque: Le Goff ha ragione quando ricorda che «con il Dio del Medioevo si opera una profonda riorganizzazione dello spazio, tramite l’occupazione compatta e strutturata della topografia. Si organizzano reti e strade, di ordini religiosi e di pellegrinaggi». È vero: parte della nostra viabilità, il paesaggio, i luoghi di identità territoriale devono molto al Medioevo, in stretta connessione con la dimensione del divino: culti di santi e reliquie, crocicchi e cappelle, abbazie e cattedrali... Che cosa sarebbero tanti spazi europei senza questo? E l’autore ha ancora ragione quando ricorda il ruolo riconosciuto dagli uomini del Medioevo allo Spirito Santo, una delle persone della Trinità che in quest’epoca occupa un ruolo centrale, nella spiritualità e nella cultura in genere. Ed è sempre merito del Medioevo se il Cristo in trono, giudice e sovrano, dell’iconografia tardoantica scese dal seggio per risalire sulla croce, mostrarsi sofferente, compassionevole e redentore dell’uomo.
Tuttavia, questi passaggi significativi si trovano accanto ad altri stranianti. Che cosa significa, infatti, che «per la grande maggioranza dei cristiani, chierici compresi, non sempre Dio si presentava come lo stesso Dio»? Che la pietà colta e popolare insistesse - e insista ancora oggi - ora sul Padre, ora sul Figlio o lo Spirito, oppure sulla Vergine e i santi, significa forse che vi fossero diverse divinità? È quanto sembra pensare il nostro autore, quando propone di pensare al cristianesimo medievale come una forma di «politeismo». In bilico tra monoteismo e politeismo, Le Goff configura la religione medievale come un ibrido, capace persino di aggiungere una «quarta persona» a Dio, cioè la Vergine Madre ...
Qui la ricerca di una nuova concettualizzazione sconfina nel travisamento: il cristianesimo ha da sempre visto in Maria la theotòkos, la «madre di Dio», tanto da scatenare eresie (il nestorianesimo, per dirne una) intorno a questo problema... ma si era nel Tardoantico, non nel Medioevo. Insomma Maria ha sempre avuto quel ruolo, senza che ciò significasse una sua confusione con la divinità: per Dante essa non è forse «figlia del suo Figlio»? Ma l’errore è più profondo: il monoteismo cristiano è sui generis, distinguendosi nettamente dallo Jahvè ebraico e dall’Allah islamico (che non è un «nome proprio», ma significa semplicemente «il Dio», cioè «Iddio»). Il Dio cristiano è concepito come Persona e Relazione, non come Idea e Solitudine.
Anche l’«antropomorfizzazione» di Dio, che Le Goff attribuisce al Medioevo, è un elemento primigenio: Cristo è vero uomo e vero Dio da sempre, nel cristianesimo cattolico e ortodosso, e dunque di quale «politeismo» si può parlare? Senza contare che il Medioevo combatté duramente - e a tratti spietatamente - il politeismo, come per esempio il catarismo che vedeva due dei, il Bene e il Male, in lotta perenne. Insomma mi pare che l’autore finisca con il confondere la causa con l’effetto: che i fedeli non pensassero uniformemente e monoliticamente a Dio non derivava dai loro «bisogni», ma dalla ricchezza in sé della religione cui avevano aderito e che li aveva, per tanti aspetti, generati.

Jacques Le Goff, Il Dio del Medioevo (con Jean-Luc Pouthier, Laterza, pagg. 118, euro 12).

«Il Giornale» del 29 aprile 2007

01 maggio 2007

Narrare i fatti

Il rapporto tra storiografia e finzione in un confronto a Milano con Pietrangelo Buttafuoco, Antonio Scurati e Alessandro Piperno
di Luciano Canfora
Borges: esistono soltanto punti di vista - Momigliano: ma la verità non si inventa
La posta in gioco di ogni discussione su «storia e narrativa» è molto alta. Si tratta o di arrendersi di fronte all’ondata che declassa la storiografia a mero racconto possibile, non molto distinguibile - tranne che per essere meno attraente - da qualunque narrazione che sia frutto di fantasia artistica, ovvero di fare quadrato intorno alla discriminante, comunque, della ricerca della verità: anche quando questa sia una verità parziale (e dunque, potenzialmente, una non-verità). Le conseguenze dell’una o dell’altra opzione sono molto chiare. Esse furono costantemente e reiteratamente messe in luce dagli storici: ad esempio da Tucidide nel suo proemio polemicamente incentrato sull’antitesi fra «verità» (che è frutto, come egli si esprime, di «indagine») e «narratività» (muthòdes); ma anche, al tempo nostro, da Arnaldo Momigliano nelle memorabili Regole del gioco nello studio della storia antica (1974); o, per fare un esempio ancor più recente, nel lavoro di scavo, empirico e teorico insieme, di Carlo Ginzburg (soprattutto nel volume del 2000 Rapporti di forza). La riduzione della storiografia a non più che «racconto possibile» comporta anche, specie là dove la battaglia è ancora aperta, una insperata mano a sostegno dei «negazionismi». C’è un sofisma alla base di certi virtuosismi «relativistici», fondati sull’ovvio richiamo alla parzialità della documentazione archivistica accessibile. E certo, chi non è consapevole del carattere provvisorio della documentazione su cui qualunque storico, anche il più fortunato, costruisce il suo racconto? Ma questo non può esimere dall’accettare acquisizioni inconfutabili né impedirà di respingere le menzogne quando esse sono inequivocabilmente tali (e non ci sarà documento che potrà «riabilitarle»). Dunque il problema è mal posto. Non si tratta di due possibili verità al paragone (quella storiografica e quella narrativa), ma, semmai, di come tener conto della insostituibile, sui generis, «verità» della narrativa. Certa grandissima narrativa del Novecento è stata, a pieno titolo, storiografia sul Novecento. Del resto il contributo, non necessariamente intenzionale, della narrativa alla «verità storica» risale di molto nel tempo, e forse appartiene ad ogni tempo: dall’epos omerico (che è anche storia) al romanzo di Grimmelshausen, a Cervantes, a Stendhal, a Manzoni, eccetera. Nel capitolo IX della prima parte del Don Chisciotte, Cervantes definisce la storia, intendendo beninteso lo scrivere storia, «madre della verità». «L’idea è meravigliosa - commenta Borges -: non vede nella storia l’indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica per lui non è ciò che avvenne ma ciò che noi giudichiamo che avvenne» (Finzioni). La questione del tasso di verità presente nel tessuto narrativo di una pagina storiografica è, ab origine, il problema dello scrivere storia. Ciò vale già per Tucidide, che pure condanna gli «abbellimenti» dei poeti e dei logografi loro imitatori, e che, nondimeno, fa parlare direttamente i personaggi (come faceva Omero) e dedica un intero capitolo alla questione di come si è regolato nel riferire la parola dei protagonisti. Non lo fa per esibire la sua bravura oratoria, e comunque questo è un obiettivo secondario. È per lui una via d'uscita di fronte ad una aporia capitale e onnipresente per chi tenti di scrivere storia: quella inerente al nesso e alla sintesi fra le volontà dei singoli, di quell’insieme di singoli che sono le masse, e la volontà direttiva dei capi. È il problema, che si pone a lungo Tolstoj (Guerra e pace), di quanto valgano i piani dei capi nello svolgimento di una battaglia. E non a caso il suo «eroe» è Kutuzov, il quale si addormenta mentre i generali prussiani e austriaci disquisiscono a tavolino intorno ai piani di una battaglia che nella realtà sarà il frutto di miriadi di comportamenti individuali e del loro intreccio. Tucidide si è trovato, raccontando la guerra e la politica, di fronte alla medesima questione: quanto pesano le volontà collettive nella determinazione delle decisioni. O meglio: come avviene che tante volontà individuali si fondono in una decisione collettiva, che qualcuno «interpreta» e gli altri accettano? Nella sua diagnosi è la volontà dei capi che conta, in ultima analisi, più di ogni altra. Ed è per questo che risolve narrativamente la questione ponendo al centro la parola dei leader, riscritta o parafrasata. Ma forse non era un’arbitraria prospettiva, una sopravvalutazione dell’efficacia dell’arte del discorso. Forse la prassi dimostrava che per lo più le cose andavano effettivamente così. E forse la polarità, senza mediazioni, tra capi e popolo era effettiva, non un ritrovato letterario per dare la parola solo ad alcuni. Siamo ancora una volta sul limitare di congetture che tentano di scrutare ciò che le fonti non dicono. E quando invece lo dicono resta in noi il dubbio: in che misura interferisce in queste descrizioni, non sempre frutto di autopsia, la componente retorica? La componente retorica investe anche un altro aspetto, indissolubile dalla questione della «verità», e cioè il pathos. Un verso notevolissimo di Lucrezio dice che «a causa del tempo intercorso» noi «non abbiamo provato alcun dolore» per le carneficine del tempo della guerra annibalica (III, 832: nil sensimus aegri): non soffrimmo perché non c’eravamo. Per Lucrezio quello è un semplice tassello nell’incalzante ragionamento demolitore della credenza nell’immortalità dell'anima, ma tocca, sia pure di sfuggita, la aporia capitale della comprensione storica: essere scevro delle emozioni, e indenne dalle sofferenze è un vantaggio o non piuttosto un limite per capire «cosa veramente accadde»? La distanza temporale, di solito esaltata come matrice di equanimità, non è forse in ultima analisi un danno? Gli effetti dell’accrescersi progressivo della lontananza temporale (al di là della distruttività che il tempo comporta per la conservazione dei documenti, tema che qui lasciamo da parte), specie se coniugati con la velocità della trasformazione di civiltà, possono risolversi in una totale estraneazione, e quindi incapacità di intendere il passato. Anche di questa lotta contro il tempo è fatto lo scrivere storia. Arte a praticar la quale l’atarassia senza passioni non è la migliore, ma forse la peggiore condizione. Sicché, il pathos narrativo (la partecipazione emotiva, non il volgare patetismo) non è un cascame del lavoro storiografico ma al contrario l'indizio della perdurante vita del passato dentro di noi. Erodoto, greco d’Asia divenuto poi partigiano di Atene e storico delle guerre persiane, parlava di un passato che egli non aveva visto, ma che sentiva ancora come presente. In questo senso, e con l’abilità immaginifica propria dell'idealismo italiano, Croce poté efficacemente scrivere, al principio della sua Storia come pensiero e come azione (1938): «L'uomo è un microcosmo, non in senso naturalistico, ma in senso storico: compendio della storia universale».
«Corriere della sera» del 28 aprile