04 aprile 2007

L’arte italiana? Prima anche nella modernità

Mentre le mostre celebrano gli stranieri, in un saggio il critico rivaluta il nostro Otto - Novecento
di Pierluigi Panza
Renato Barilli: «I Macchiaioli furono più avanzati degli Impressionisti»
E se i Macchiaioli fossero più avanzati degli Impressionisti? E se De Chirico fosse più «moderno» di Duchamp? Se l’Espressionismo italiano avesse poco di invidiare a quello tedesco? Tesi provocatorie, certo, quelle di un’arte italiana di Otto-Novecento capofila del rinnovamento estetico e persino delle avanguardie. Ma da leggere oggi in filigrana visto che, in concomitanza con le mostre «Da Moreau a Gauguin a Klimt» a Ferrara e «Cezanne a Firenze» è uscito un nuovo libro del critico d’arte Renato Barilli («Storia dell’arte contemporanea in Italia», Bollati Boringhieri, pp. 572, € 32), che tende a riposizionare all’insù l’apporto offerto dalla creatività italiana in rapporto a quella europea. Tesi in controtendenza visto che, mentre le mostre sull’Ottocento italiano non sempre trovano consensi nel numero dei visitatori, migliaia di appassionati non mancano mai a quelle sugli Impressionisti. Eppure, secondo Barilli, i primi artisti impegnati nel decostruire l’immagine dal vero furono proprio i Macchiaioli italiani. «In questo libro faccio il massimo conto dei Macchiaioli - afferma Barilli - mostrando le ragioni per cui talvolta sono migliori e più avanzati degli Impressionisti». Basta osservare quanto avviene nella Toscana degli anni Settanta dell’Ottocento con un dipinto come «Diego Martelli a Castiglioncello» di Giovanni Fattori, che Barilli così descrive: «L’immagine del Martelli, o della moglie, proiettata, schiacciata su quel supporto si allarga, si distende, si sfilaccia, non solo, ma sembra quasi che per fare star dentro a forza le sagome, in quello spazio ridotto, i nostri artisti siano costretti a metterle per traverso, in diagonale, ovvero i corpi possono sperare di essere colti in quel limitato campo visivo solo se vi entrano a scivolo. E beninteso non devono pretendere di essere ripresi con il criterio dell’alta definizione » (p.127). Si potrebbe definire con certezza questo dipinto meno «moderno» di quello nel quale, decenni dopo, Edgard Degas ritrae lo stesso critico toscano Diego Martelli? Insomma, la tesi che traspare dal libro di Barilli è che parte dei meccanismi di decostruzione dell’osservazione dal vero, dell’immagine e anche dei temi storici messi a punto dalle avanguardie si trovino, in nuce, già nella Toscana dei Macchiaioli. Ne consegue che il visitatore della mostra di Palazzo Strozzi, ad esempio, dovrà porre attenzione comparativa tra i vari Cezanne, Pissarro, Van Gogh, Matisse e i nostri Fattori, Soffici, Rosso, Ghiglia e Rosai lì esposti. Ma non è questa la sola tesi con la quale Barilli di fatto «rivaluta» l’arte italiana di Otto-Novecento nei confronti dei maestri europei. Il critico insiste infatti anche nella già nota interpretazione di Giorgio De Chirico come alter-ego di Marcel Duchamp, ma con qualcosa in più. Se il francese ripresentava come arte l’oggetto industriale «tale e quale» (la poetica del ready-made), De Chirico usa lo stesso metodo di ripresentazione prevalendo, però, in «esteticità» in quanto non utilizza oggetti industriali bensì opere di museo «ibridandole». All’ipervalutazione dei Macchiaioli e di De Chirico, Barilli aggiunge quella di Canova (dal quale parte il suo libro che giunge sino alla «Smaterializzazione dell’arte» con Maurizio Cattelan, Grazia Toderi...), nelle cui sculture vede «un deposito di stampi da prelevare in ready-made» che «aprono la strada a Paolini e a Koons». Barilli, infine, cerca anche di dimostrare che «è esistito un importante Espressionismo italiano attraverso tante figure isolate che vanno da Gino Rossi ad Arturo Martini e Lorenzo Viani ai Futuristi nei loro inizi» e conclude sostenendo che esiste una continuità, «un album di famiglia che va dagli Espressionisti di seconda generazione, come Licini e Scipione, a quelli di terza o quarta generazione quale Cucchi e gli altri Transavanguardisti». A Bonito Oliva la replica! Tesi interessanti per un «critico d’avanguardia» come Barilli (ha preso parte alla Neoavanguardia degli anni Sessanta e ha storicizzato pop art e body art) che si scopre attento a fondare sulla tradizione italiana alcuni aspetti che hanno caratterizzato l’avanguardia europea del Novecento e anche l’arte contemporanea.
«Corriere della sera» del 18 marzo 2007

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