21 marzo 2007

Senza bellezza non c’è verità scientifica

Un grande studioso spiega perché calcolare sia sinonimo di creatività e di eleganza. la Matematica e il Canto delle Sirene
di Michael Francis Atiyah
Per gran parte della gente comune la matematica solitamente è un’austera disciplina intellettuale, comprensibile solo ad un esiguo numero di eccentrici terrestri e caratterizzata da una scarsa attinenza con l’esperienza umana. Molti si portano infatti dentro la penosa memoria dei grandi sforzi e delle energie impiegate sui banchi di scuola nel disperato tentativo di risolvere problemi apparentemente inintelligibili. Questi sopravvissuti alla matematica scolastica ricordano invece con sommo gaudio l’ultimo giorno in cui dovettero avere a che fare con un’equazione. E anche se pochi metterebbero in discussione l’idea che la matematica sia vera, la bellezza è l’ultimo tra gli aggettivi con cui descriverebbero questa materia. Tuttavia non sono poche le celebri citazioni di altrettanto insigni matematici che non solo vedono bellezza nella loro disciplina, ma le attribuiscono altresì un’importanza suprema. Paul Dirac, uno dei padri fondatori della meccanica quantistica, disse: «Una legge fisica deve possedere matematica beltà». Pronunciate da lui, uomo notoriamente parco nell’uso delle parole, l’espressione assume un significato davvero incisivo. Il famoso matematico tedesco Hermann Weyl si spinse oltre: «Il mio lavoro è sempre stato orientato verso l’unificazione di verità e bellezza, ma quando mi trovavo costretto a scegliere tra esse, solitamente propendevo per la bellezza». Una simile considerazione può sembrare scioccante e perversa: non solo dovremmo riuscire a cogliere l’estetica della matematica ma, peggio ancora, ci verrebbe richiesto di sacrificare la verità in nome del bello. Si presume che la prova ultima della geometria euclidea sia il cuore della matematica. Gli studiosi gongolano all’idea che la loro materia sia l’unica attività umana in cui - grazie all’arma del calcolo - possa essere raggiunta una certezza assoluta. Probabilmente Herman Weyl era in vena di scherzi. Dunque tutta la sua ricerca non è stata altro che un allegro jeu d’esprit? Niente affatto, Weyl era infinitamente serio e mi impegnerò a spiegare perché. Credo che il modo migliore per far capire come i matematici intendano il concetto di bellezza sia attraverso un confronto tra matematica e architettura. L’architettura trae molte delle sue caratteristiche dall’impatto visivo del suo insieme, dalla natura artistica della sua progettazione, dall’ingegneria che sottintende la sua struttura e dall’attenzione sofisticata al dettaglio delle decorazioni. Diversi artigiani lavorano contemporaneamente a parti differenti della costruzione, la quale risulta permeata da una costante tensione tra estetica e funzionalità. La matematica può essere vista sotto la stessa luce: un edificio astratto, la cui struttura elegante esprime un progetto d’insieme di estrema bellezza, in cui la raffinatezza del dettaglio può essere ammirata nella sua intricata argomentazione e la cui solidità è costantemente rafforzata da una tecnica rigorosa e da un’intrinseca utilità nelle sue innumerevoli applicazioni pratiche. Sia nella matematica sia nell’architettura è possibile elencare le qualità la cui somma crea bellezza: l’eleganza, la simmetria, l’equilibrio, la precisione, la profondità, ma alla fine l’estetica matematica inizia a esistere soltanto quando diventa finalmente visibile ai nostri occhi. Ma per poter apprezzare lo splendore della matematica in tutta la sua grandiosità, come fosse la Basilica di San Pietro, è necessario ricorrere a un esempio: la celebre storia della risoluzione delle equazioni. La formula per quelle quadratiche si insegna a scuola, dopo secoli di tentativi venne scoperta quella per le equazioni di terzo e quarto grado. Ogni sforzo per venire a capo delle espressioni algebriche alla quinta potenza andava invece incontro ad un sistematico fallimento. Furono due giovani matematici, Niels Henrik Abel in Norvegia ed Evariste Galois in Francia, a dimostrare che tutto ciò era inevitabile: la formula cercata semplicemente non esisteva. I loro ragionamenti matematici portarono alla costruzione di un grande edificio astratto, chiamato la teoria di Galois, il quale spiega la simmetria nascosta che sottintende le equazioni e può essere utilizzata per arrivare ad una comprensione più profonda della materia. Questa è, senza ombra di dubbio, la più grande cattedrale mai costruita dai matematici. D’accordo, la bellezza potrebbe anche indirizzarci verso la verità, ma come potrà mai superare l’importanza di quest’ultima? Come poteva Hermann Weyl giustificare la sua preferenza del bello al posto del vero quando si trovava dinnanzi a una scelta conflittuale tra i due valori? Una delle possibili risposte è di natura filosofica. La percezione della bellezza è soggettiva, pertanto si può essere certi della sua validità. L’individuo sa infatti cosa gli piace. La verità è invece un concetto oggettivo e dunque non possiamo essere sicuri: in quanto valore sfuggente la nostra percezione del vero può essere distorta. Di conseguenza sorge un conflitto quando ciò che riteniamo vero è soltanto illusorio. Un esempio chiaro è più convincente di una argomentazione filosofica astratta. Il caso vuole che sia proprio il lavoro di Hermann Weyl a fornircelo. Nel 1918, dopo che Einstein aveva già ideato la sua teoria generale della relatività, la quale rimpiazzò la teoria della forza di gravità coniata da Newton, Weyl fece un tentativo per unificarla con la teoria dell’elettro-magnetismo di Maxwell. La sua idea fu un esempio splendido di lavoro matematico ma purtroppo, come fece notare lo stesso Einstein, il suo sforzo contraddiceva la realtà della fisica. Ciononostante il calcolo matematico di Weyl venne pubblicato con una obiezione redatta da Einstein in appendice. Pochi anni dopo la comparsa nel campo scientifico della meccanica quantistica, l’idea originaria di Weyl fu leggermente modificata. Così, mentre oggi l’obiezione di Einstein è decaduta, la teoria di Weyl è stata globalmente accettata ed è diventata la base su cui è stato postulato tutto il lavoro successivo nell’ambito della fisica teorica. Se Weyl avesse abdicato alle sue convinzioni e non avesse invece insistito affinché il suo lavoro matematico fosse pubblicato ugualmente, la fisica non sarebbe mai evoluta. Un caso simile è accaduto anche a me. Durante una conferenza tenutasi nel Massachusetts trent’anni fa, insieme al mio caro amico e collega di Harvard Raoul Bott, concepii un’idea che trovammo entrambi molto attraente. La teoria era dotata di un’armonia che ci sedusse irrimediabilmente e, oltre a ciò, si traduceva facilmente in numerose applicazioni pratiche. Ma i matematici, anche se rischiano di essere fuorviati dalla bellezza, non sono persone irresponsabili. Volevamo dunque che le nostre idee superassero l’attento esame dei colleghi. Un disegno armonioso potrebbe nascondere difetti strutturali che conducono fatidicamente alla prova del suo sfacelo. Pertanto prendemmo il caso più semplice per testare la nostra idea e la proponemmo come una sfida all’intero gruppo di esperti riuniti alla conferenza. Dopo un breve ma attento esame il verdetto fu negativo. La nostra teoria era caduta al primo ostacolo reale. Secondo la logica avremmo dovuto abbandonare subito il nostro «sogno matematico». Invece, attratti come dal canto delle sirene, la bellezza della sua musica ci spinse a non accettare la sconfitta senza dare battaglia fino in fondo. Riesaminammo così l’intero sistema con intransigenza scoprendo che i colleghi avevano commesso un errore di calcolo e, alla fine, rivendicammo la correttezza della nostra tesi. La bellezza aveva trionfato. Lasciamo l’ultima parola a Hermann Weyl, un matematico con l’anima del poeta: «Credo che certe caratteristiche insite nella matematica - disse - avvicinino questa materia più alle arti creative piuttosto che alle altre discipline sperimentali».
«Corriere della sera» del 14 marzo 2007

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