10 marzo 2007

Scienza: ai confini dell’«imbroglionica»

Ancora oggi il dibattito tra ricerca, magia e miracolismo è lungi dall’essere risolto Per questo non è sempre facile scoprire le frodi
di Roberto Maiocchi

Nel 1996 sulla rivista americana Social Text, che solitamente ospitava scritti di sociologi, psicologi e filosofi ispirantisi al pensiero postmoderno di Lacan, Deleuze, Guattari, comparve l’articolo di un fisico della New York University, Alan Sokal, intitolato Violare i confini: verso una ermeneutica trasformativa della gravità quantistica. Oltre ad affermazioni politicamente gradite alla direzione della rivista, quali aspre rampogne rivolte all'uomo bianco razzista e maschilista, il saggio era composto da proposizioni che impiegavano massicciamente una terminologia scientifica tratta dai più ardui capitoli della fisica contemporanea, però totalmente prive di senso, oppure chiaramente false. Tutto l'articolo era completamente insensato, e ciò che aveva senso era sbagliato. Si trattava di uno scherzo che ebbe grande risonanza, divertente per molti, ma non per tutti. Sokal voleva dimostrare che i lavori ospitati dalla rivista usavano arbitrariamente un linguaggio ricco di termini scientifici, tratti dalla matematica, dalla fisica e dalla biologia, che conferiscono una parvenza di scientificità, ma nascondono la reale mancanza di senso; per questo il suo saggio era parso idoneo e subito pubblicato: era perfettamente allineato con lo stile degli scritti abituali.
Tutte le vicende della filosofia della scienza a partire dall’inizio del Novecento, con il convenzionalismo, il neopositivismo con le sue crisi, i vari Popper, Kuhn, Lakatos, Feyerabend, Laudan sono approdate a una conclusione che pare inevitabile: non si può definire un criterio di demarcazione operativo tra le scienze forti e la restante parte della cultura. La distinzione tra scienziati puri di spirito, che ritengono la ricerca della verità incompatibile con truffe e imbrogli, e intellettuali dai codici morali un po’ più lassisti è insostenibile, e questa è la seconda considerazione, da un punto di vista sociologico. Soprattutto a seguito dei mutamenti istituzionali e tecnologici realizzatisi a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, la ricerca scientifica avviene ormai in condizioni socioeconomiche tali da rendere necessaria per ogni ricercatore che voglia emergere in un mondo di una competitività parossistica la conoscenza approfondita di una nuova disciplina, l’«imbroglionica». Grazie ai suoi insegnamenti si possono imparare svariati trucchi per essere accreditati come scienziati degni di fiducia (e di soldi): metodi infallibili per ottenere un elenco di pubblicazioni chilometrico con poca fatica, come comunicare dati inventati o realizzare un plagio privo di pudore, manomettere i protocolli di laboratorio e i nastri di registrazione, rubare appunti dei colleghi con le idee ivi contenute.
Infine la distinzione netta tra la scienza nata nel Seicento con Galileo, Cartesio e Newton, chiara e rigorosa, e la cultura precedente, infarcita di magia, alchimia, stregoneria, astrologia, è errata storicamente. La scienza moderna è stata costruita anche da personaggi che non stanno né al di qua né al di là del confine, per il semplice motivo che non vi fu un confine. Le ricerche storiche hanno chiarito ormai da tempo che la separazione tra il mago (ciarlatano) e lo scienziato non è stata un evento databile, ma un processo complesso che è durato secoli e che, a ben vedere, non è del tutto terminato. Newton, ad esempio (ma è anche l’esempio più importante), manifesta caratteristiche apparentemente inconciliabili, che ne rendono impossibile la collocazione rispetto a un qualsiasi confine che dovrebbe delimitare la scientificità. Col progredire delle conoscenze sulla sua figura, Newton appare sempre più uno studioso che affiancava alle ricerche di ottica, meccanica e astronomia, che ne hanno fatto agli occhi di tutti il protagonista della rivoluzione scientifica, un’intensissima attività in alchimia, astrologia, studio delle profezie, delle cronologie bibliche, delle filosofie più antiche, sempre preoccupato di elaborare una scienza «pia» da contrapporre a quella «empia» di Cartesio. Quale conclusione si deve trarre da quanto detto? Parrebbe di dover ammettere che l’impresa scientifica è inesorabilmente, indissolubilmente mescolata a varie forme di ciarlataneria; ce lo dicono la filosofia della scienza, la sociologia, la storia. Questo significa allora che dobbiamo rassegnarci ad accogliere nella scienza verità genuine e frodi di vario genere? La risposta mi sembra debba essere un sì e un no. Sì per quanto detto in precedenza: in ogni momento storico quel che si definisce conoscenza scientifica sarà un miscuglio di forme di conoscenza e modelli operativi differenti, spesso impliciti e per questo tanto più difficili da individuare. No, perché quella miscela di serietà e ciarlataneria che definiamo scienza sembra avere la capacità di espellere le verità apparenti, i risultati della frode. Questo è un processo che può richiedere anche molto tempo.
Forse l’esempio di frode scientifica più celebre è il cosiddetto «uomo di Piltdown». Nel 1912 in una cava di ghiaia a Piltdown, in Inghilterra, furono scoperte una calotta cranica di tipo umano e una mandibola di scimmia, insomma le prove dell’esistenza nel passato di un essere a metà tra uomo e scimmia, l’anello mancante richiesto dalla teoria dell’evoluzione. Il ritrovamento fece sensazione e rapidamente venne accettato dalla scienza ufficiale. Si trattava in realtà di un falso, i cui autori non sono ancora stati individuati (fra i sospettati il gesuita filosofo Pierre Teilhard de Chardin e Arthur Conan Doyle, il padre di Sherlock Holmes), e per oltre 40 anni i biologi hanno creduto nella verità di un albero genealogico dell’uomo alla cui base stava il fasullo uomo di Piltdown. Solo nel 1953 il geologo inglese Kenneth Oakley, impiegando le nuove tecniche d’analisi, fu in grado di dimostrare che il preteso uomo di Piltdown non era mai esistito. Certo, più di quarant’anni erano trascorsi dal ritrovamento, ma questo insegna che la verità scientifica ha bisogno di tempo per farsi strada nella palude dell’errore. La scienza mostra un carattere autocorrettivo, anzi il saper riconoscere i propri errori e porvi rimedio può essere visto come il suo carattere più specifico, quello che la differenzia da ogni forma di sapere dogmatico.
«Il Giornale» del 6 marzo 2007

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