10 marzo 2007

Piovene: visse cercando di espiare una colpa che dentro di sé sapeva irredimibile

A un secolo dalla nascita dello scrittore: la vergogna, l’ambizione, l’adesione al fascismo di un grande trasformista
di Franco Cordelli
Guido Piovene è uno degli eroi intellettuali del XX secolo, la cui grandezza, proprio come non si può giudicare una vita da un suo singolo evento, si percepisce non scegliendo il cosiddetto capolavoro, Lettere d’una novizia o Le Furie, ma leggendo l’intera opera come itinerario, anche come martirio, dalla Storia fino a Dio, assoluto o niente che esso sia. Ecco perché non stupisce che un così esigente scrittore, nel feroce darwinismo che in aenigmate ovunque captiamo, sia poco letto o che si sia depositato nella memoria in un qualche malo modo, o con una certa condiscendenza. Egli, in vita, ebbe lettori tra i massimi del suo tempo. Borgese, che fu suo professore, valutando nel 1931 il debutto dell’allievo, La vedova allegra, gli profetizzò un futuro ariostesco o cervantino. (Mai profezia fu più sbagliata, e mai scrittore fu più dissimile dal se stesso iniziale come lo fu Piovene). Poi Cecchi, Bo, Debenedetti, Baldacci, Montanelli, Parise, Zanzotto, Fernando Bandini. L’ultimo suo sostenitore è stato Ceronetti. Il più accanito, direi grandioso, Enzo Bettiza, che sempre lo ricorda con la devozione di un figlio spirituale e l’ardore e l’intelligenza di un combattente, che non vuole cedere un palmo al nemico, l’oblio, o la malafede. D’altra parte, a far testo sono i nemici, chiamiamoli così. Se ne ricorda uno prestigioso, Gianfranco Contini, che avrebbe potuto espungere Piovene per ragioni di poetica (d’essere scrittore mai obliquo, lui intimamente super-obliquo) e che invece lo ripudiò per ragioni politiche. Per ragioni di poesia/non poesia le recensioni più feroci Piovene le ebbe da Walter Pedullà, il quale scriveva nel 1963: «Egli crede di essere un â ispiratoâ e invece è solo uno che scrive velocemente». (Erano, quelle di Pedullà, le ragioni della neo-avanguardia; negli anni Sessanta Piovene appariva un conservatore o un elegante manipolatore di forme destrutturanti del totem assoluto della letteratura moderna, il romanzo). Tra i cripto-non sostenitori si collocava Geno Pampaloni. Scrivendo che con Idoli e ragione Piovene si collocava al primo posto tra i saggisti novecenteschi, in fondo lo giubilò. Anche per Pampaloni Piovene era troppo intelligente per essere un grande romanziere. Infine, gli storici. Dopo le polemiche suscitate dalla sua confessione in pubblico (La coda di paglia, 1962), ancora oggi Sandro Gerbi in Tempi di malafede e Pierluigi Battista in Cancellare le tracce non gli perdonano il troppo sensibile trasformismo. La verità più vera la coglie Montale nella poesia «L’onore», scritta nel 1974 dopo la morte dell’amico. Perché, gli chiede, lucidare gli stivali di Cecco Beppe, il tuo sogno, sarebbe un onore? Se lo è, è perché dietro questo desiderio si nasconde la vergogna. Onore e vergogna vanno insieme. Ma, mi chiedo io, Piovene non lo sapeva? Lo sapeva benissimo. Divenne lo scrittore che è perché di ciò ebbe coscienza, mai se ne liberò. C’è, nell’opera di Piovene, una frattura percepita come silenzio creativo (tra I falsi redentori, suo quarto romanzo del 1949, e Le Furie del 1963). In realtà, dal 1963 Piovene divenne un altro scrittore, lì cominciò la sua metanoia. Esauriti i fasti del giornalismo, i quattro libri successivi delineano un corpo a corpo con la propria vicenda esistenziale, politica, storica, che non ha l’eguale. Voglio dire che la faccenda dell’onore (rimpianto, nel segno della asburgica madre) e della vergogna è tutt’altro che liquidabile con La coda di paglia. Quello non è che il prologo. Le Furie, Le stelle fredde, Romanzo americano e Verità e menzogna sono un’altra storia, la storia di un tormento, il disperato tentativo di liberarsi da una colpa (di vivere) che la letteratura di Piovene e la sua stessa vita giudicarono irredimibile. Basterà leggere le pagine che Bettiza dedica alla descrizione della malattia che afflisse l’amico negli ultimi quattro anni perché se ne faccia una ragione anche chi non sia groddeckiano come me. Volendo tentare un bilancio che non sia discendente solo dalla sfera etico-politica o solo da quella letteraria, vedo l’enormità della presenza di Piovene delinearsi in due modi ambigui, complici tra loro. Perché scrisse quegli esagerati articoli su Mussolini e quell’orribile articolo sugli ebrei e poi si dichiarò addirittura comunista fino a essere sfottuto come il Conte rosso? Perché fu fascista e comunista, liberale e conservatore illuminato o, se si vuole, né cattolico né ateo? Quando Flora Volpini, che fu la sua seconda compagna, lo mise a fuoco (lo racconta ne La Fiorentina) captò un uomo astratto che viveva senza sapere di vivere. Mille altre testimonianze colgono Piovene così, come un essere passivo fino alla fantomaticità. Questo il carattere, ovviamente molto veneto, vicentino; quindi pieghevole, cedevole fino al ludibrio. Su un simile fondamento prese il via la sua ambizione mondana, il giornalismo. Ecco, Piovene fu fino in fondo un giornalista, del giornalista reca in sé le stimmate, d’essere sempre presente sul luogo del delitto, sempre bruciato dal fuoco dell’attimo: proprio lui, l’uomo che non aveva mai smesso di distaccarsene, di desiderare la distanza o, come la chiama Bettiza, l’assoluto o il niente. In questo contrasto, ovvero complicità, c’è il destino dannato del XX secolo, la sua tragedia, il suo oscillare tra due diversi amour de la boue, l’attrazione per le masse e il desiderio delle stelle, di una distinzione. La seconda ragione per cui Piovene non viene più letto è anch’essa duplice, letteraria e filosofica. In questo senso Pampaloni ha ragione. Piovene fu mostruosamente intelligente. Ma l’intelligenza, l’essere stato uno scrittore per così dire francese (alla Constant, alla Sénancour, tutto analitico, privo di quella divina facoltà, diventare plastico, se non corporeo) è sempre, in Italia, percepito come limite, come colpa. In questo caso, una colpa in più. L’altro aspetto dell’intelligenza di Piovene è lo stesso che condanna Flaiano. Se Flaiano si salva è per i suoi meriti comici, cioè extra-letterari. Ma egli fu uno dei due grandi scrittori nichilisti del Novecento italiano. L’altro fu Piovene. Perché spostò infine da Vicenza a Gorizia lo scenario del suo ultimo-penultimo romanzo Verità e menzogna, se non perché vi trattò il supremo tema del suicidio? E che cosa significano verità e menzogna se non persuasione e rettorica, come le chiamava quel nostro sommo filosofo, il goriziano Carlo Michelstaedter? Ho appena detto che Verità e menzogna è l’ultimo-penultimo romanzo di Piovene. Egli dettò contemporaneamente il romanzo nuovo e uno giovanile, Romanzo americano, che della gioventù conserva la gioia. Anche questo non è ambientato a Vicenza, bensì a Pavia, come si chiamava la moglie Mimy. All’ultimo Piovene spostò tutto. Le sue Furie non divennero Eumenidi. Le sue Eumenidi furono stelle fredde. Pure, la fissità delle costellazioni non fu un sigillo di totale glaciazione. Sue costellazioni furono anche quelle di pienezza figurale, o di pienezza del sentimento, che tante volte aveva rimpianto e che, per assurdo, così appaiono ai suoi giovani eroi. Costoro così le ritrovano al ritorno dall’America nella struggente Lombardia, mentre Piovene moriva.

Guido Piovene nacque a Vicenza il 27 luglio 1907 e morì a Londra il 12 novembre 1974. Figlio di nobile famiglia, si laureò in filosofia a Milano e si dedicò alla carriera giornalistica diventando una delle firme più prestigiose del «Corriere della Sera». Nel 1931 pubblicò i racconti de «La vedova allegra» a cui seguì «Lettera di una novizia». In seguito si dedicò ai reportage di viaggio, scrivendo il «De America» e il suo libro più celebre, «Viaggio in Italia» Molte iniziative sono in preparazione per le celebrazioni del centenario della nascita dello scrittore vicentino. Alcune sono già in corso, come il ciclo «Scritture Dannose» a Mantova, che propone una rilettura di «Viaggio in Italia» attraverso le opere di scrittori contemporanei. Dopo Tommaso Labranca e Antonio Pascale, il 23 marzo è il turno di Camillo Langone (Teatro delle Cappuccine, piazza San Leonardo)
«Corriere della sera» del 5 marzo 2007

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