01 marzo 2007

Luzi e l'Italia della poesia ancora civile

di Daniele Piccini


Il 28 febbraio di due anni fa (già lo hanno ricordato altri da queste pagine) moriva a Firenze Mario Luzi, grande poeta e, per qualche mese, senatore della Repubblica, come anche si legge sulla lapide della sua umile tomba nel cimitero di Castello, a Firenze, dove riposa accanto ai genitori Margherita e Ciro. Luzi, quei mesi turbolenti da senatore, li visse con dignità e con un po' di stupore per la quantità di fango, di foga, di partigianeria che si trovò a fronteggiare. Con il gioco della politica di parte, con le fazioni, le "sette" di ogni tipo, come le chiamava, aveva poco a che fare. Gli interessava, anzi, di più, gli era consustanziale un sentimento vivo e trepidante, direi originario, di italianità, tutt'altro che fraintendibile in senso nazionalistico. Il cordone ombelicale che lo avvinceva alla nazione, ai suoi travagli senza fine era la lingua. Per questo fiorentino della generazione degli Ermetici, la lingua della poesia era la lingua stessa di Dante. Non gli era possibile andare al fondo del "volgare di sì" senza ritrovarvi l'antica e scorata vicenda dell'Italia "serva", del suo volgo manzonianamente "disperso" eppure in cerca di sé, prima e soprattutto dentro il crogiuolo della parlata, emersa unitaria, almeno in letteratura, dalla miriade di parzialità, lotte, scontri e miopie dei suoi "partiti" (si sofferma sulla lingua "matria" della parte finale della vicenda luziana Maria Antonietta Grignani nell'ultimo numero di «Lingua e stile»): l'agone dell'Italia, quello sì, lo riguardava.
In che senso si può dire che almeno a partire dal dopoguerra la sua poesia, non solo quella propriamente civile (recentemente raccolta da Daniele Maria Pegorari in un bel volumetto antologico, «Non disertando la lotta», da Palomar), sia stata salutifera per l'Italia? Nel senso, credo, che faceva avvenire una misteriosa combustione, per cui lo stato presente veniva ricondotto, ogni volta, alla tensione originaria del linguaggio e quindi ai motivi fondanti di una civiltà. Disse, nel discorso tenuto a Reggio Emilia nel 1997 per i duecento anni del Tricolore: «l'Italia non è mai stata un paese che riposasse sulle proprie ragioni acquisite, ma è stata sempre vera e indubitabile nella tensione verso un sé da raggiungere; è stata una perpetua utopia oppure non è stata niente». In una poesia celebre di «Al fuoco della controversia» (1978), rappresentò la Repubblica nelle doglie di una morte ignominiosa, tra bastardi che la spiano, corvi che affilano il becco, sciacalli che si azzuffano tra loro, ignominiosamente. Ha attinenza questo con le bassure civili cui assistiamo anche oggi, con le povere liti di parte, con l'incapacità di pensare a un bene superiore? Il fatto è che quel patrimonio, quell'ininterrotto agone della lingua tesa a un suo bersaglio, a un suo paradiso è lì, dischiusa per chiunque voglia ancora ascoltarla. Il bene di un poeta come Luzi è la sua opera, che non smette di funzionare anche dentro fibre corrotte. Che non cessa, nel tempo, di mettere in circolo la sua aspettazione e ricreazione, dentro quella dolente che tutti abitiamo, di un'Italia sempre imminente.
«Avvenire» del 28 febbraio 2007

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