16 marzo 2007

Liberi o condizionati?

Parte prima l’impulso elettrico che regola i nostri movimenti o l’input della nostra volontà? Studi recenti erodono l’idea di libero arbitrio. Ma alcuni studiosi non sono d’accordo
di Andrea Lavazza
De Caro: «L’esperimento di Libet è parziale e dà per scontate troppe cose» Tagliasco:«È un errore identificare l’individuo col suo cervello» Possenti: «È il tarlo di Cartesio»
Poniamo che vi vengano messi degli elettrodi nel cervello (niente paura, una volta forato il cranio, non si sente dolore, la materia grigia è "insensibile") e si registri l'attività elettrica localizzata che accompagna una funzione esecutiva, ad esempio prendere il bicchiere che sta davanti a voi. Niente di strano, sarà compito degli studiosi decifrare i risultati delle rilevazioni. Ma poniamo che vi si chieda anche di guardare uno speciale orologio e di dire il momento esatto in cui decidete di muovere il braccio, quella frazione di secondo nella quale è come se diceste ora prendo il bicchiere e contemporaneamente l'arto si solleva. Se il neuroscienziato che vi esamina avesse già scoperto che la consapevolezza di una stimolazione (una piccola scossa) compare solo dopo 500 millisecondi dal suo inizio, benché noi reagiamo istintivamente (e inconsciamente) anche in modo molto più rapido, allora andrebbe subito a controllare se quel ritardo non compaia anche nell'esperimento in questione. E la risposta, per Benjamin Libet, è positiva. In altre parole, «le attività cerebrali che danno inizio a un atto volontario cominciano molto prima che la volontà cosciente di agire sia adeguatamente sviluppata». «Molto prima» significa 400 millisecondi, mentre al soggetto ne restano un centinaio per "fermare" l'intenzione. Intervalli rilevabili solo con apparecchiature sofisticate, ma capaci di dare un colpo se non mortale certo assai duro al nostro concetto di libero arbitrio. Ci rimarrebbe solo la capacità "negativa" di bloccare un'intenzione che sorge in modo automatico dai nostri neuroni. Gli esperimenti condotti da Libet nei primi anni Ottanta sono ormai diventati un classico (seppur assai contestato) delle neuroscienze, finendo poi con l'influenzare la riflessione filosofica sull'argomento. L'idea che la libertà del volere sia un'illusione, come si intitolano alcuni libri pubblicati recentemente in ambito anglosassone, viene anche di qui. Ora diventa disponibile in italiano il volume divulgativo in cui l'autore (professore emerito alla University of California di San Francisco) riassume le sue ricerche (Mind Time. Il fattore temporale nella coscienza, Raffaello Cortina Editore, pp. 246, 23,80 euro). Un'occasione per riaccostarsi a uno dei «temi più intrattabili», qual è spesso definito il libero arbitrio. «Se si prende per buono l'esperimento del ritardo della consapevolezza, le conclusioni per la nostra libertà sono sconfortanti, ed anche per ciò che da essa dipende: responsabilità morale e dignità della vita - spiega Mario De Caro, docente di Filosofia a Roma Tre e autore di diversi studi in materia -. Il punto è che la metodologia dell'esperimento risulta parziale, implica che libero arbitrio equivalga a essere sempre consapevoli di ciò che facciamo e, soprattutto, presuppone un riduzionismo degli eventi mentali agli eventi cerebrali». Un'obiezione quasi banale, che è stata mossa fin dal principio, è che le persone coinvolte nell'esperimento in effetti agiscono liberamente seguendo, a loro piacimento, l'indicazione di muovere il braccio entro un certo intervallo di tempo, anche se poi pare registrarsi un breve sfasamento tra l'attivazione neuronale e la consapevolezza. «Mi sembra che a volte i neurofisiologi discettino di cose che non conoscono usando implicitamente un argomento retorico ad hominem: ovvero, siamo autorevoli in un campo specialistico, possiamo parlare anche di libero arbitrio - attacca Vincenzo Tagliasco, che all'università di Genova è titolare della prima cattedra italiana di Coscienza ed emozioni -. Dal punto di vista psicologico si compiono azioni senza avvertire in modo consapevole un'urgenza, un desiderio o un'intenzione. L'essere umano non è il suo cervello, ritenere che lo sia comporta una fallacia». Concorda Vittorio Possenti, docente di Filosofia morale a Venezia: «La posizione di un'antropologia non materialistica è che la libertà del volere non può determinarsi con un esperimento scientifico. Se si nega l'e lemento spirituale volitivo - che non equivale alla separazione tra mente e corpo di Cartesio -, non c'è spazio che per l'assoluto determinismo delle cause fisiche». E aggiunge: «Si introduce un assunto riduzionistico basato sul postulato che soltanto la scienza empirica conosce (e l'ontologia viene quindi privata di legittimità)». Per non rinunciare a un dato che al senso comune sembra indubitabile ed è essenziale per come concepiamo la nostra vita, si può tornare alla prospettiva kantiana. «Secondo il grande filosofo - spiega De Caro -, esistono due modi di vedere l'essere umano: oggetto di natura, per cui vale il determinismo della fisica; ed ente libero, che può cominciare nuove catene causali. Sono due schemi concettuali non collegati che, se entrambi corretti, paiono tuttavia confliggere. Ma non ogni scienza particolare (ad esempio, la biologia) deve tendere all'unità e uniformarsi al riduzionismo che riporta tutto alla fisica». «La posizione che definirei polare sostenuta da Tommaso d'Aquino (l'anima come forma del corpo, con un'unità dell'atto di esistenza) può risolvere il dilemma del libero arbitrio, che si gioca tra intelletto e volontà - precisa Possenti -. E nelle scelte morali il volere ha l'ultima parola sulle valutazioni dell'intelletto». Le neuroscienze alla Libet, però, mettono in discussione proprio l'idea dell'autonomia del mentale. «Prove della "spiritualità" della mente (come la capacità del pensiero di attingere concetti universali, mentre la materia è sempre individuata) a parere di molti hanno ancora validità», ribatte Possenti. «Il rischio - da me direttamente sperimentato, sia con i miei figli, sia con i miei allievi - è che gli studenti facciano propria una visione semplificata dell'uomo, in cui le neuroscienze pretendono di avere già spiegato tutto, mentre moltissimo resta ancora da chiarire», sottolinea Tagliasco. Eppure molti eminenti ricercatori stanno alzando il velo sui meccanismi che presiedono alle nostre sensazioni e ai nostri c omportamenti. «Sì, producono studi elegantissimi, ma il modo di vedere la realtà dal laboratorio non può essere l'ultima parola». Liberi di crederci o meno ...
«Avvenire» del 14 marzo 2007

Nessun commento:

Posta un commento