01 marzo 2007

Intellettuali e TV

Sdoganati i programmi generalisti ora è snob stare dalla parte della cultura popolare
Di Aldo Grasso
Così il romanzo ha fatto del piccolo schermo un’opera d’arte
Vorrei partire con un’affermazione perentoria: «Non si va verso l’audience, si è audience». Non so bene cosa voglia dire, ma spero alla fine di riuscire a spiegarne il senso. L’idea mi è venuta leggendo L’Italia spensierata, un reportage di Francesco Piccolo (Editori Laterza, pp.182, 9). Piccolo è scrittore prolifico ma è anche sceneggiatore (ha firmato lavori per Nanni Moretti, Paolo Virzì, Michele Placido), ci sa fare con le parole e se decide di raccontare un viaggio insolito (dentro uno studio televisivo, nella calca di un autogrill, a Mirabilandia) possiamo stare certi che l’esito sarà sorprendente. Già, la sorpresa è tutta in un racconto di cose normali: una domenica pomeriggio al cospetto di Mara Venier, la gita a un paese dei balocchi, la corsa affannosa in autostrada verso un panino e una coca-cola. Cose così: lo straordinario di massa, luoghi tanto affollati da sembrare non luoghi, arte popolare di grana grossa sospesa fra quelle nuove colonne d’Ercole che sono la Moda e il Costume. Tutto è cominciato, per i nostri scrittori più giovani, quando David Foster Wallace pubblica nel 1997 in A supposedly fun thing I’ll never do again (uscito in Italia da Minimum Fax con il titolo Tennis, tv, trigonometria, tornado e altre cose divertenti che non farò mai più), una serie di racconti molto ironici su esperienze di massa, tipo una settimana di crociera ai Caraibi o un programma tv. I dabbene non guardano la tv generalista, forti di una tradizione intellettuale che ha sempre disprezzato la tv: al massimo si concedono qualche fenomenologia della domenica per spiegarci perché siamo superiori ai conduttori televisivi. Adesso invece le cose stanno cambiando: gli scrittori si accostano con meno alterigia alla tv, la raccontano anche dal di dentro, la trasformano in una dramatis persona. Meglio così. Si potrebbe dire, se l’espressione non fosse già dannatamente logora, che la tv è stata sdoganata. Fra i racconti che compongono L’Italia spensierata il più bello e intenso riguarda proprio la tv. Piccolo vuol raccontare «Domenica in», ma per non ripetere le solite banalità si mescola al pubblico che segue dal vivo la trasmissione nei teatri di posa della Dear, a Roma. Il trucco è tutto qui: sapersi scegliere un punto di vista diverso per raccontare le cose che tutti vedono. Mi pare sia stato Tolstoj a scrivere: «Se tutta la complessa vita di molti passa inconsciamente, allora è come se non ci fosse mai stata». A furia di vederle le cose non esistono più. Sul prezioso frammento, Viktor Sklovskij ha costruito la teoria dello straniamento: «Ed ecco che per restituire il senso della vita, per "sentire" gli oggetti, per far sì che la pietra sia di pietra, esiste ciò che si chiama arte. Scopo dell’arte è di trasmettere l’impressione dell’oggetto, come "visione" e non come "riconoscimento"; procedimento dell’arte è il procedimento dello straniamento degli oggetti e il procedimento della forma oscura che aumenta la difficoltà e la durata della percezione». Piccolo ha fatto proprio questo: siccome la percezione va sottratta all’automatismo, è entrato in corpore vili, ha preso appunti su una tribunetta della Dear. E cosa ne ha tratto? Almeno tre cose importanti. La prima la potremmo chiamare «effetto Interrante»: tra l’«Isola dei Famosi» e «Le iene», Piccolo sceglie di stare appunto dalla parte di Daniele Interrante, l’amico di Costantino. La ragione è semplice: «Preferisco stare dalla parte degli stupidi, degli ignoranti piuttosto che da quella di un certo tipo di persone intelligenti che ama fare un sacco di risate alle spalle degli stupidi e degli ignoranti». Bisognava andare fino alla Dear per capire certe cose ma l’importante è averle fatte proprie. La seconda è l’«effetto disprezzo»: la tv è fatta soprattutto da gente che disprezza la tv, da persone «che se dovessero scegliere non farebbero quello che fanno, e quando possono scegliere - quando sono spettatori - non scelgono quello che fanno». Questo disprezzo spiega il grande cinismo su cui si fonda la tv generalista. Bisognava andare alla Dear per... La terza è l’«effetto cannocchiale»: vista da vicino «Domenica in» è una cosa (il pubblico in studio è considerato poco più che carne da macello), vista da lontano (che poi è l’etimo di televisione) è un’altra cosa: il conduttore, chiunque esso sia, non fa altro che ripetere di amare il «suo» pubblico. Tante grazie, bisognava andare... Gli altri racconti non hanno la tenuta di questo che si chiama «In carne e ossa». Sono più deboli, più scontati, non all’altezza di un procedimento tolstoiano. Ma se evapora lo straniamento, cosa ci resta della gita a Mirabilandia, dell’assalto al panino «Fattoria», della visione di Natale a Miami, delle più veltroniane che dostoevskiane Notti bianche? Resta qualcosa che non mi piace. È abitudine dei nuovi scrittori raccontarci i luoghi e i riti del divertimento italiano: le abbuffate visive al multiplex, le gite al centro commerciale, il sabato all’Acquafan della riviera romagnola e la domenica a Mirabilandia. Pellegrinaggi senza infingimenti, viaggi senza snobberie, passeggiate senza vergogna? C’è da crederci? Le cose stanno davvero così? Nel primo racconto dico di sì senza riserve, ma appena la scrittura cede, lo straniamento si trasforma in una nuova, sottile forma di discriminazione. Insomma, provi la sgradevole sensazione che un esploratore dell’800 ti stia raccontando i baluba, magari senza degnazione, ma comunque ti racconta i baluba. Hai l’impressione che l’enorme bagaglio di citazioni, dirette o sottaciute (che poi sono i soliti Pasolini per la «pesantezza» e Calvino per la «leggerezza»), serva solo per costruire uno snobismo ancora più raffinato, uno snobismo al quadrato. Ti fai l’idea che l’intellettuale senza puzza sotto il naso e senza peli sulla lingua scopra ora cose che la gente un po’sveglia ha scoperto da anni e anni. Non era Cesare Pavese che diceva «Non si va verso il popolo. Si è popolo»? E verso l’audience ci vanno ora gli intellettuali che hanno finalmente scoperto l’audience?
«Corriere della sera» del 27 febbraio 2007

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