06 febbraio 2007

Marzabotto, quei mille morti «fantasma»

La cifra-simbolo, 1.830 vittime dei nazisti, nasce da calcoli errati: i caduti furono 750. A difendere la verità storica è il parroco don Zanini: «Ci sembrano già tanti, tanti, tanti questi morti. Perché aggiungerne? L’identità delle vittime non conta? Non possiamo accettarlo, per rispetto ai caduti»
di Antonio Giorgi
La recente sentenza del tribunale militare della Spezia che ha condannato alcuni militari tedeschi per le stragi avvenute nella zona di Marzabotto tra il 29 settembre e il primo ottobre 1944 ha indotto i media a riportare con enfasi un numero di vittime di quella feroce stagione di repressione - 1.830 - che l'indagine storiografica e le ricerche di archivio ritengono frutto di calcoli approssimativi, se non peggio. Con il rischio che un dato falso ripetuto per lungo tempo assuma la connotazione di una verità consacrata dalla storia. Quante furono dunque le vittime delle stragi di Marzabotto? Dire stragi è corretto: si trattò di episodi che investirono decine di minuscole frazioni di montagna su un arco temporale di tre giorni, duranti i quali si scatenò la furia non solo di reparti di SS ma anche di formazioni della Wehrmacht e di mongoli. Le vittime - anziani, donne, bambini - furono circa 750, un prezzo in vite umane enorme per un piccolo lembo di montagna bolognese tra le valli del Reno e del Setta, un tributo di sangue innocente davanti al quale occorre inchinarsi trasmettendone la memoria ai posteri, con l'impegno morale di non dimenticare. Aggiungere però altri mille e più caduti non fa chiarezza né rende giustizia a chi è stato stroncato dal piombo nazista.
In realtà a Marzabotto da una decina di anni si riconosce e si dà per assodato che le vittime sono state circa 800. Alcuni storici e molti operatori dell'informazione giornalistica restano però tenacemente abbarbicati a quella cifra di 1.830 che figura anche nella motivazione della concessione della medaglia d'oro al comune bolognese. La redazione di un elenco nominativo delle vittime (purtroppo solo nel 1995) ha consentito di porre dei punti fermi. Ma c'è chi a demolire con un paziente lavoro di ricerca il dato di 1.830 morti aveva provveduto molto tempo prima.
Don Dario Zanini è oggi parroco di Sasso Marconi, ai margini del Monte Sole epicentro dell'offensiva nazista. All'epoca Zanini, ventenne, abitava a Rioveggio, val di Setta. Nell'eccidio ha perduto quattro cugini. «Gli alleati erano a due passi, i tedeschi retrocedevano, volevano mantenere libere le due strade e le due ferrovie lungo il Reno e lungo il torrente Setta. Tra i corsi d'acqua si incuneava il Monte Sole, impenetrabile, niente strade, tanti borghi di poche case e casolari isolati, un'area divisa tra i comuni di Marzabotto, Grizzana e Monzuno. Sul Monte Sole operava una formazione di partigiani rossi e già c'erano state rappresaglie a seguito di azioni della resistenza». Fin qui era la drammatica, tragica normalità della guerra partigiana, che coinvolgeva inevitabilmente - come altrove - i civili. A fine settembre 1944 l'eccidio, orrendo. Subito dopo cominciarono a piovere le granate alleate che costrinsero i pochi superstiti a sfollare.
I tedeschi - racconta don Zanini - volevano ritirarsi senza essere disturbati dai partigiani. Inviarono una delegazione a trattare una tregua, ma i componenti non fecero ritorno. Una rappresaglia massiccia fu ordinata dal maresciallo Kesselring al generale Simon, capo di una divisione SS che operava sulla Linea Gotica. L'ordine fu trasmesso a vari reparti - compreso quello di Reder che personalmente non si trovava in zona - dal maggiore Loos, coordinatore strategico dell'intervento. I tedeschi penetrarono tra i due fiumi, non trovarono i partigiani rifugiatisi nelle forre più inaccessibili del Monte Sole e si scatenarono per tre giorni su ogni essere umano, ritenendolo complice dei resistenti.
Tra i morti si contarono anche cinque preti, don Ubaldo Marchioni (ucciso da uomini di Reder nella sua chiesa mentre pregava con i fedeli terrorizzati), don Giovanni Fornasini, don Ferdinando Casagrande, il dehoniano Martino Capelli e il salesiano Elia Comini. Per tutti è avviato il processo di beatificazione.Poi la guerra finisce, gli sfollati ritornano alla spicciolata. A Marzabotto si fa qualche calcolo, si valuta la differenza tra i presenti nel '44 e i rientrati. Un lavoro complesso. Il 30 settembre 1945 tale Silvano Bonelli, incaricato dal comune di stendere una prima relazione sulla strage, dice testualmente: «1.830 sono i caduti del nostro comune e dei comuni vicini finora accertati».
L'errore nasce qui, qui è il peccato originale di una ricerca che inseriva tra le vittime anche coloro che per una ragione o per l'altra non erano rientrati oppure erano deceduti in altre circostanze. Una negligenza maliziosa - sostiene don Zanini - ha poi impedito che per cinquant'anni si facesse un elenco nominativo degli uccisi. Ma io alla verità ero arrivato ben prima. Ho parlato con le famiglie, gli amici, i conoscenti, ho consultato gli archivi parrocchiali e i registri di vari comuni anche se a Marzabotto, Grizzana e Monzuno ho incontrato divieti da parte delle amministrazioni rosse. Io ho trovato numeri e nomi». Circa 750 vittime, ecco il numero che emerge dal lungo scavare di questo prete solido, caparbio. Che aggiunge: «È un errore considerare il maggiore Reder responsabile di tutta l'operazione. Per il settore che fu di sua competenza il tribunale militare di Bologna che lo ha condannato all'ergastolo ha accertato 277 vittime. Altri ne hanno uccisi di più. Bisogna ricostruire la verità - conclude don Zanini -. Se anche il comune di Marzabotto riconosce frutto di calcoli male impostati la cifra di 1.800, è assurdo che da parte di molti venga sempre presa come dato consolidato. Ci sembrano già tanti, tanti, tanti questi 750 morti. Perché aggiungerne? È come se l'identità delle vittime non contasse, come se si volesse dire: dobbiamo sommarne ancora perché voi contate poco. Non possiamo accettarlo, per rispetto ai nostri caduti».
«Avvenire» del 2 febbraio 2007

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