24 febbraio 2007

Ma la cultura umanistica serve ancora?

di Luigi Testaferrata
Ho incontrato, anzi, gli sono stato seduto accanto per tutta la durata del pranzo, un ex allievo che negli anni di piombo capitanava con altri cinque o sei coetanei la contestazione. Io insegnavo al liceo classico, lui frequentava il liceo scientifico della mia cittadina: ma siccome, fino al '74, i due licei erano uniti sotto la stessa presidenza, io che ero il vicepreside di un preside che preferiva starsene rinchiuso nelle sue stanze, ero continuamente a contatto con la fronda, con la protesta per le cose più varie, con la ribellione che aveva più l'aspetto di un malessere, di una malattia giovanile che di una presa di posizione cosciente e motivata. Soprattutto perché, essendo i due licei in una zone della provincia dove il movimento studentesco (in assenza, allora, dei cellulari e di tutti gli altri marchingegni che permettono, ora, contatti immediati) aveva l'andamento di quelle mareggiate che perdono vigore via via che si allontanano dall'alto mare e non hanno quasi più forza quando arrivano a riva: le occasioni di critica e ribellione avevano sempre l'aspetto di cose scadute, ripetute, scimmiottate. Per questo provavo più fastidio che preoccupazione, qualche volta avevo l'impressione di essere derubato del gusto dello scontro e del patteggiamento, mi sembrava di essere non una delle due parti contendenti che possono trarre dal contendere una possibilità di reciproco chiarimento, di mutua correzione, ma un raccoglitore di cocci, un ricucitore di toppe. Il contestatore e i suoi compagni continuavano imperterriti «a portare avanti il discorso», pretendevano a ogni piè sospinto la «piattaforma» sulla quale discutere (senza discutere, naturalmente), «lo spazio politico» dentro il quale muoversi o fuori del quale scappare (il più delle volte per evitare le lezioni e le interrogazioni, per andare a passeggiare in campagna o, in caso di pioggia, a giocare a biliardo). Li persi di vista quando il ministero della Pubblica Istruzione varò i decreti delegati pieni zeppi di ipocrisia e di demagogia ma, apparentemente, aperti e paciosamente ossequienti alla rivolta giovanile e, soprattutto quando (ubbidendo alla massima latina «divide et impera») separò i due licei e nel più piccolo e tranquillo liceo classico le cose ricominciarono ad andare senza tanti sussulti rivoluzionari. Ora l'ex contestatore, un alto dirigente dell'Ufficio delle imposte, mi impartisce una lezione sulle scuole attuali. Soprattutto mi tesse gli elogi sperticati degli istituti tecnici che insegnano le lingue, che preparano all'uso del computer, che attrezzano i giovani con tutto il bagaglio scientifico o parascientifico (o forse esclusivamente tecnico) che li renderà competitivi nel mondo del lavoro, mi dimostra, soprattutto, l'anacronismo della vecchia laurea, la sua piena inutilità. E, come per realizzare una vendetta che aveva in seno dagli anni in cui qualche volta si sentiva represso e ostacolato da me, spara a zero sui licei (sul classico, in particolare), li definisce avanzi di un passato che non ha più senso, di cui bisogna pentirsi e vergognarsi. Lo vedo sicuro e impertinente, sa di avere complici dappertutto, mi inchioda alla mia miseria di umanista fuori circolazione, quando mi lascia è felice di avermi distrutto.
«Avvenire» del 22 febbraio 2007

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