06 febbraio 2007

Con grande cura. Ma meglio se non nascono

L'Onu vuol «proteggere» i disabili
Di Marina Corradi

Dietro il rifiuto della Santa Sede di aderire alla Convenzione per la protezione dei diritti dei disabili approvata dall'Onu si intravvede una preoccupazione forte per ciò che si scorge fra le righe di un documento in cui pure, a giudizio della stessa Santa Sede, si affermano molti ottimi intenti. Il nodo sta anzitutto in un passaggio dell'articolo 25, in cui si parla di garantire programmi di "salute riproduttiva": un'espressione che, nell'accezione utilizzata da molti Stati membri dell'Onu, comprende anche l'aborto, e dunque non può essere accettata dalla Chiesa. Ma ancora più critico sembra il secondo punto dello stesso articolo, dove i firmatari si impegnano ad assicurare ai disabili le cure di cui hanno bisogno a causa del loro handicap: includendo in questi servizi "la precoce identificazione e gli appropriati interventi e servizi destinati a minimizzare e prevenire future disabilità".
Ora, la "precoce identificazione" e gli "appropriati interventi" per prevenire future disabilità si concretizzano, ad oggi, principalmente in un intervento solo, e cioè nell'aborto dei nascituri al più presto individuati "imperfetti" con le tecniche diagnostiche prenatali. È tragico, commenta l'Osservatore permanente della Santa Sede all'Onu, monsignor Celestino Migliore, che la stessa convenzione creata per difendere i disabili possa essere usata per negare a queste persone il diritto di venire al mondo. Di più: la ratifica del documento da parte di quegli Stati che ancora non ammettono l'aborto potrebbe introdurre nelle loro legislazioni le premesse perché la facoltà di abortire sia concessa a disabili e portatori di malattie ereditarie, in una opzione preferenziale che odora pesantemente di eugenetica.
La Convenzione, che pure all'articolo 10 proclama il diritto alla vita di "ogni essere umano", contiene dunque fra i suoi commi, quasi sottovoce, la premurosa assicurazione che debbano essere garantiti quella precoce individuazione dell'handicap e quegli appropriati interve nti, che nella grande maggioranza dei casi sopprimono, oltre ai problemi del futuro malato, il malato stesso.
Oltre ai molti lodevoli princìpi circa l'educazione e l'aiuto alle famiglie - che pure il Vaticano condivide - emerge dunque al fondo questa solidarietà ambigua, e il pensiero, non esplicitamente affermato ma sotteso, che certi uomini è meglio non farli nascere per niente. Raggelante messaggio sotto la prosa molto corretta e molto solidale delle Nazioni Unite: aiutiamoli, proteggiamoli, educhiamoli, ma - finché si è in tempo - cerchiamo di eliminarli.
E sarà anche, come dice l'ex Segretario generale dell'Onu Kofi Annan, questa Convenzione "l'alba di una nuova era per i disabili". Tutto sta a vedere quale era, e per quanti. È molto probabile che la maggioranza degli Stati membri adotti entusiasticamente un testo pieno di buone intenzioni, senza far caso a quei piccoli commi secondari. La Chiesa no, non firma, messa in allerta da quell'opportunità apparentemente generosa di "interventi adeguati", di "individuazione precoce" che con garbo suggeriscono di risolvere alla radice il problema delle vite "diverse". Cosa che, a chiamarla col suo nome, è eugenetica. Se per la Convenzione che segna una "nuova era" il primo diritto degli uomini intaccati nel grembo materno da un "difetto" è il non venire al mondo, forse molti di loro penseranno che devono la loro vita, dolorosa ma cui non rinuncerebbero, al fatto di essere nati prima di questa nuova luminosa alba di progresso.
«Avvenire del 2 febbraio 2007

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