26 gennaio 2007

Il silenzio degli intellettuali

Nel suo nuovo saggio, «Cancellare le tracce», Pierluigi Battista parte dal caso Grass per raccontare un fenomeno italiano
di Sergio Romano
Le biografie ritoccate nel dopoguerra per nascondere l’adesione al fascismo
Nello scorso agosto, in una Europa indaffarata a celebrare la liturgia delle vacanze, scoppiò il «caso Grass». Mentre stava per andare in libreria una sorta di concettosa memoria autobiografica, il premio Nobel Günter Grass, grande fustigatore dell’anima tedesca e implacabile censore dei peccati commessi dalla sua nazione nel corso del Novecento, raccontò alla Frankfurter Allgemeine Zeitung che nel 1944, all’età di 17 anni, aveva vestito l’uniforme delle SS. La notizia scatenò su tutta la stampa europea e americana una ridda di reazioni indignate, sorrisi ironici, sberleffi polemici, analisi psicologiche e caratteriali. Come altri italiani mi chiesi quanti «casi Grass» vi fossero ancora in Italia, nascosti nelle pieghe della coscienza nazionale. Pierluigi Battista è andato molto al di là di questo semplice quesito e ha scritto in un breve libro uno sferzante ritratto dell’intellighenzia italiana tra fascismo e antifascismo. Mentre il libro di Mirella Serri apparso due anni fa presso Corbaccio (I redenti) era soprattutto un saggio storico sul periodo cruciale fra il 1942 e la fine della guerra, Cancellare le tracce (Rizzoli) ha la passione e il tono vibrante di un’arringa. Occorre anzitutto ricordare che tra Italia e Germania esiste una fondamentale differenza. In Germania il nazismo restò al potere meno di tredici anni, ma trattò gli oppositori con estrema brutalità. Quando non vennero soppressi o rinchiusi nei lager, gli intellettuali emigrarono e andarono a creare, soprattutto negli Stati Uniti, una delle più grandi e feconde diaspore del XX secolo. Il fascismo invece governò l’Italia per 21 anni (la Repubblica sociale è un capitolo a parte, molto diverso dal resto del libro) e fu in buona parte una grande operazione trasformistica. Gli esuli furono relativamente pochi e il resto dell’intellettualità italiana visse nel regime con una larga gamma di coinvolgimenti che vanno dalla fede assoluta nel credo mussoliniano alla menzogna quotidiana passando attraverso modulazioni diverse di opportunismo, rassegnazione, calcolo, ipocrisia. A differenza di quanto accadde in Germania esisteva quindi in Italia nel 1945 una folla di scrittori, docenti, giornalisti, filosofi e artisti che avrebbero dovuto fornire qualche spiegazione su ciò che avevano scritto e fatto negli anni precedenti. Erano intellettuali, vale a dire, almeno in teoria, cultori della verità, dell’onestà, del rigore critico. Come avrebbero potuto continuare a fare il loro mestiere senza rendere conto del modo in cui avevano vissuto e lavorato durante il fascismo? Ma anziché spiegare e argomentare, gli intellettuali italiani, come racconta Battista, hanno trasformato il dibattito sul passato in una pasticciata fiera delle bugie e delle accuse reciproche. Qualcuno negò l’evidenza. Altri retrodatarono la loro conversione antifascista alla fase che precedette l’adozione delle leggi razziali. Altri ancora sostennero, con qualche acrobazia, di essere stati antifascisti nel fascismo. Altri infine reagirono contrattaccando e seppellirono i loro accusatori sotto una valanga di improperi. Il risultato di queste tattiche fu un «tiro al bersaglio», organizzato da quanti erano rimasti fascisti, che accompagnò per parecchi anni la storia della repubblica. Attenzione, non stiamo parlando di personaggi minori e scribacchini modesti. Nel libro di Battista ci sono pagine ora crudeli, ora malinconiche sulle contorsioni di Mario Alicata, Massimo Bontempelli, Carlo Muscetta, Renato Guttuso, Guido Piovene, Alberto Moravia. E nella seconda parte del libro vi è una lunga bibliografia ragionata in cui l’autore ha citato e commentato i testi da cui ha raccolto la sua documentazione. Spero che il lettore non la trascuri. Non ho mai letto note altrettanto interessanti, divertenti e convincenti. Questo libro non è soltanto una spietata cartella clinica della intellighenzia italiana. L’analisi di Battista aiuta a comprendere perché le bugie e le reticenze di tanti intellettuali abbiano impedito all’Italia di scrivere con il necessario distacco la storia del suo Novecento. Se Massimo Bontempelli, Renato Guttuso o Guido Piovene, tanto per fare qualche esempio, ci avessero parlato con franchezza della loro vita sotto il regime, avremmo forse capito più facilmente perché il fascismo sia durato più di vent’anni e abbia saputo conquistare in alcune fasi il consenso di una parte considerevole del Paese. Ma la «demonizzazione del passato», come l’ha definita Aurelio Lepre, ha fatto del Ventennio fascista un fenomeno storico compatto, una specie di monolito del male privo di sfumature e distinzioni. Tutto questo non sarebbe avvenuto, naturalmente, se gli intellettuali bugiardi o reticenti non avessero trovato un efficace alleato nel partito comunista italiano e nel suo leader. Palmiro Togliatti fu al tempo stesso il più liberale dei confessori e il più rigoroso dei padri spirituali. Perdonò con grande liberalità tutti coloro che potevano essere utili al partito, ma pretese da ciascuno di essi contemporaneamente il più totale dei ripudi. Occorreva radicare nella coscienza nazionale la convinzione che il fascismo fosse stato, dal primo all’ultimo giorno della sua storia, il male assoluto. Soltanto così il Pci avrebbe fatto dimenticare le proprie responsabilità e costruito il piedestallo per le proprie vittorie future. Il libro di Battista suggerisce qualche altra domanda. A che cosa servono questi intellettuali? Sono davvero necessari al buon funzionamento di una società moderna? In Gran Bretagna e negli Stati Uniti esistono pochi mostri sacri, amati o detestati (Hobsbawm e Chomsky, per ricordare soltanto due nomi) che non hanno mai contribuito a fare la politica nazionale. In Russia, dove l’intellighenzia è stata custode della coscienza nazionale e ha avuto un ruolo straordinario nella vita del Paese, gli scrittori e gli artisti hanno pagato di persona con grandi crisi introspettive, angosciosi dilemmi e tragiche esistenze. Da noi, dove il senso del peccato e della tragedia non ha mai messo profonde radici nell’anima nazionale, sono molto spesso soltanto funzionari della cultura, disposti a parlare di tutto, a modificare opportunamente le loro idee e a decorare con le loro competenze un partito, un leader, una linea politica, un regime, una istituzione. Sono ambiziosi, ricercano affannosamente il cerchio di luce della notorietà, e hanno esigenze terrene che richiedono prebende, assegni, gettoni. Di qui a divenire servizievoli, se non addirittura servili, il passo è breve. Può darsi che tutto questo avesse un senso negli anni in cui i partiti erano fortemente ideologici e aspiravano a costruire uno Stato etico, capace di dare una risposta a tutte le domande, spirituali e materiali, dei suoi sudditi. Allora, occorre riconoscerlo, gli intellettuali organici servivano a qualcosa. Ma oggi, in una democrazia dell’alternanza dove le ideologie stanno agonizzando e la gamma delle cose possibili, per chiunque governi, si è progressivamente ristretta, a che cosa servono?

Il caso Grass è scoppiato lo scorso agosto quando lo scrittore premio Nobel, icona della sinistra, in un’intervista alla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» per il lancio dell’autobiografico «Sbucciando la cipolla», ha confessato di essersi arruolato volontario nelle SS a 17 anni. La confessione tardiva ha provocato una valanga di reazioni, anche in Italia: perché l’autore del «Tamburo di latta» non ha parlato prima?

Pierluigi Battista (nella foto), vicedirettore del «Corriere della Sera», è autore, tra l’altro, de «La fine dell’innocenza» (Marsilio, 2000), «Il partito degli intellettuali» (Laterza, 2001) e, con Alberto Ronchey, de «Il fattore R» (Rizzoli, 2003). Il suo nuovo libro, «Cancellare le tracce. Il caso Grass e il silenzio degli intellettuali italiani dopo il fascismo» (pp. 194, 18), esce oggi da Rizzoli.
«Corriere della sera» del 24 gennaio 2007

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