07 dicembre 2006

Ma che «regime» è se cambia ogni 5 anni?

Abuso di una parola
di Pierluigi Battista
E se un patto bipartisan siglasse il reciproco impegno a dimenticare il termine «regime», oramai abusatissimo, logoro, svuotato di ogni significato? Michele Serra ha giustamente notato su Repubblica che nessuno ha deplorato la scritta «contro il regime» apparsa sul palco della manifestazione del centrodestra, ricordando altresì con quanta derisione fossero accolte nella passata legislatura, a parti invertite, le apocalittiche lamentazioni sul «regime» berlusconiano. I fatti hanno dimostrato che il regime di destra non c' era, i fatti si incaricheranno di dimostrare che non ce n' è nemmeno uno di sinistra. Resta da scoprire perché, in Italia, da parte di chi si trova momentaneamente all' opposizione l' allarme per il «regime» sia così attraente, gratificante, mobilitante malgrado l' inequivocabile forza dei fatti. Se cambia maggioranza ogni cinque anni, non può esserci regime. Se all' opposizione non viene sottratta la possibilità di manifestare in piazza, scrivere liberamente le proprie opinioni, avere accesso nel dibattito pubblico, condurre liberamente le proprie battaglie parlamentari, denunciare senza limiti le (eventuali) malefatte di chi governa, organizzare le proprie forze per vincere le elezioni che potrebbero rovesciare l' attuale maggioranza, se l' insieme di queste condizioni viene salvaguardato, allora il regime, con tutta evidenza, non esiste. Oggi il centrodestra, come avviene in tutte le democrazie dell' Occidente, vede garantite tutte queste condizioni. Perché deve aggiungere, oltre alla legittima indignazione per la politica economica del governo, l' appello contro un inesistente regime? Chi, nella precedente legislatura, ha gridato al regime, si è presentato come un martire della libertà conculcata, ha intonato «Bella ciao» per protestare contro l' oppressore, potrebbe fornire un disinteressato consiglio agli anti-regime della parte opposta: invece di perdere tempo con paragoni storici infondati e pretestuosi, facciano il loro mestiere, organizzino l' opposizione, costruiscano le basi per diventare di nuovo maggioranza. L' insistenza sulla denuncia del regime indica piuttosto un sintomo di sofferenza: perdere è doloroso. E' sempre doloroso, ma nel sistema bipolare lo è ancora di più. Il sistema proporzionale permette a chi perde di proporzionare anche il dolore della sconfitta, consente una scappatoia consociativa dentro la quale chi vince non può strafare e chi perde non perde tutto. Nella democrazia dell' alternanza chi perde si sente solo, assiste allo spettacolo del vincitore che si prende tutto, sente contro di sé la forza del conformismo e dell' opportunismo, la disattenzione della stampa, la percezione di un' irrilevanza che aggiunge sconforto e amarezza. E dà a questa condizione di solitudine il nome di «regime». Un abbaglio, un debito lessicale con la storia italiana, un automatismo mentale che riporta al trauma originario del «regime» fascista. Ma il fascismo, oltre a essere una dittatura, era un regime che durò vent' anni. Adesso, in Italia, ogni cinque anni il regime presunto cambia insegna e colore. Non si nota la differenza? No, evidentemente la differenza non si nota. Se con tanta facilità viene evocato il regime, qualcosa di profondo nella cultura politica italiana porta inesorabilmente a quell' incubo. Di profondo e di condiviso da ambedue gli schieramenti. Che però dimenticano facilmente quando passano dall' opposizione al governo. Il regime dura pochissimo, almeno nella memoria, per poi ricominciare quando di nuovo tutto cambia, più o meno dopo cinque anni: il regime dell' alternanza.
«Corriere della sera» del 4 dicembre 2006

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