17 novembre 2006

La satira senza cuore grottesca maschera di se stessa

Muta e prona di fronte ai veri poteri
Umberto Folena
Dura, implacabile, intoccabile, inflessibile, incorruttibile, infallibile. Uguale per tutti. Chi sarà mai? La giustizia… Ma no. A leggere e sentire quotidiani, radio e tv, è la satira. Pazienza se la sua famiglia s'è allargata, abbracciando dai più raffinati e colti fustigatori di costumi all'ultimo guitto senz'arte né parte, che per il solo fatto di ritrovarsi con un microfono in mano a macinar battute, si convince d'essere un umorista raffinato.
La satira, dunque. Per lei nulla è sacro, quindi nulla è intoccabile. A tal punto da cadere nel paradosso amaro che conosciamo fin dai tempi della tragedia greca. Il liberatore (la satira), una volta eliminato (solo verbalmente, sia chiaro) il tiranno, rimane padrone del palcoscenico della storia (nel nostro caso, dell'industria dei media) e a poco a poco matura tutti i vizi del tiranno di cui ci aveva sbarazzati: onniscienza, onnipotenza, infallibilità e - ma sì - sacralità. Nulla è sacro per la satira, men che meno il Papa. Ad essere sacra è soltanto lei, la satira stessa. Infatti se appena osi muoverle un appunto, ti cala sul capo la scure dei cortigiani scandalizzati e degli inquisitori che strepitano all'eresia. Questo è il grande limite di ciò che oggi chiamiamo satira, anche se spesso è tutt'altro. Forattini, martedì sera al Tg2, la definiva parodia… Ora, nessuno mette in discussione il diritto di satira, né invoca anacronistiche censure. Ma non dovrebbe essere messa in discussione nemmeno l'incontrovertibile evidenza che i diritti, tutti i diritti comportano anche dei doveri. In particolare, la satira di massa (tramite mass media), nell'esercitare il proprio diritto, ha il dovere di tener conto anche dei diritti del pubblico. Primo: non offendere ciò che larga parte del pubblico ha di più caro. È una questione di sensibilità e misura. Una satira senza cuore, che noncurante del diritto altrui, si nega ogni limite e intende affermarsi ad ogni costo, si muta nella maschera grottesca di se stessa: è totalitarismo satirico. Diventa in tutto e per tutto simile a quel potere che intende, con merito, prendere di mira, il potere da desacralizzare. Ma se la satira si considera sacra, intoccabile, è giusto a nostra volta gettarla giù dal trono. Meglio, molto meglio l'umorismo che ricorre - nei modi, negli stili e nella lingua - anche alla satira. L'esempio più alto è quello di Charlie Chaplin, lo Charlot al tempo stesso caustico verso il potere - economico e politico -, ma tenero verso la gente di Tempi moderni e del Grande dittatore. Il Chaplin che sa far sorridere e indignare, dilettare e pensare, commuovere e ridere e piangere. La satira che sa toccare tutte le corde dell'animo umano è la vera satira. La satira che sa individuare il potere vero, quello che se si sente minacciato, reagisce, è la vera satira. E dov'è oggi il potere vero? È in chi sa determinare i modelli di pensiero e di comportamento, stabilire gli stili di vita, dettare le mode. Il vero potere è nei mass media più pervasivi, televisione in testa, e in chi fornisce ai media le risorse per vivere: il grande mercato pubblicitario. Questo è il potere di cui dovrebbe occuparsi la satira. Senonché è lo stesso potere che ospita la satira e le permette di esprimersi. Se in certe circostanze critichiamo la satira debole, che sbaglia mira e tono di voce, è perché della satira sentiamo il bisogno. E restiamo delusi quando la scopriamo muta e prona di fronte alle vere centrali del potere e implacabile verso chi di fatto non può e non vuole reagire.
«Avvenire» del 17 gennaio 2006

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