Bisogna evitare di dividersi in nome di terapie contrapposte
Gabriella Sartori
Gabriella Sartori
Violenza, bullismo e simili nella scuola. La cosa peggiore, adesso, sarebbe se, dopo la fiammata di attenzione sui media dovuta alla "scoperta" (improvvisa e un po' ipocrita) di un male che sta sotto gli occhi da tempo, tutto rientrasse nel silenzio. Fino alla prossima "emergenza", un po' come spesso è successo - per esempio - per mafia e camorra. No, sono problemi gravi, sono problemi di tutti. Bisogna continuare a parlarne, a pensarci, specie adesso quando, mentre sta esaurendosi la fase della "denuncia" si sta passando a quella, più impegnativa, del "che fare". Qui le ricette si sprecano (anche perché, sulle cause di tale e tanto disastro, le analisi sono, com'è naturale, molte, varie, legittime, anche se non sempre serie). Oscillano, comunque, tra i due poli opposti della severità subito a quello della via per così educativa da considerare nella prospettiva dei tempi lunghi.
Sono probabilmente necessarie ambedue. L'importante sarebbe che, al di là della legittima diversità di opinioni, si trovasse un piano comune di accordo basato su alcuni punti fermi accettati da tutti. Primo, il problema è di natura generale (non solo scolastica, non solo nazionale: colpisce, più gravemente di quanto non colpisca l'Italia "cattolica" e "arretrata", anche la Spagna "progressista", la Gran Bretagna patria della democrazia, la Francia, patria dei diritti, ecc.). Dunque, il problema, che è educativo, va affrontato non solo dalla scuola, ma da tutte le agenzie: famiglia, politica, istituzioni, mass media, ecc. Il manifesto dedicato ai problemi educativi pubblicato l'anno scorso e sottoscritto da numerose personalità, scrittori, educatori, intellettuali, di vario orientamento politico e ideale, potrebbe essere riconsiderato anche da chi, allora, lo bocciò con motivazioni dettate più dalla contrapposizione politica che altro.
Si dovrebbe inoltre, soprattutto in un momento particolare come questo, evitare di continuare a mandare ai giovani messaggi "contraddittori" (non si può in vocare maggiore "severità" e "serietà" dentro e fuori della scuola e contemporaneamente, "promuovere" l'uso della cannabis o raccomandare agli insegnanti di promuovere di più, sempre e comunque).
Infine, si sia tutti attenti a che le prime misure educativo-disciplinari prese dalle scuole (a Torino e altrove) a carico di allievi e docenti resisi responsabili di storie inammissibili, vengano realmente messe in atto in nome di un'educazione al rispetto delle regole, o se si vuole della cultura della legalità che tutti invocano, ma solo a parole. Certo sarebbe come cominciare a realizzare, all'interno della scuola, il principio, fondamentale per un paese civile, della "certezza della pena" che, pur da tutti invocato a parole, è continuamente smentito nei fatti nella vita del Paese. Perché non cominciare proprio dal poco ("punizioni" non solo "decise", ma anche "applicate"), e proprio dalla scuola, se, come tutti ammettono, essa resta una delle principali agenzie educative della società?
Sono probabilmente necessarie ambedue. L'importante sarebbe che, al di là della legittima diversità di opinioni, si trovasse un piano comune di accordo basato su alcuni punti fermi accettati da tutti. Primo, il problema è di natura generale (non solo scolastica, non solo nazionale: colpisce, più gravemente di quanto non colpisca l'Italia "cattolica" e "arretrata", anche la Spagna "progressista", la Gran Bretagna patria della democrazia, la Francia, patria dei diritti, ecc.). Dunque, il problema, che è educativo, va affrontato non solo dalla scuola, ma da tutte le agenzie: famiglia, politica, istituzioni, mass media, ecc. Il manifesto dedicato ai problemi educativi pubblicato l'anno scorso e sottoscritto da numerose personalità, scrittori, educatori, intellettuali, di vario orientamento politico e ideale, potrebbe essere riconsiderato anche da chi, allora, lo bocciò con motivazioni dettate più dalla contrapposizione politica che altro.
Si dovrebbe inoltre, soprattutto in un momento particolare come questo, evitare di continuare a mandare ai giovani messaggi "contraddittori" (non si può in vocare maggiore "severità" e "serietà" dentro e fuori della scuola e contemporaneamente, "promuovere" l'uso della cannabis o raccomandare agli insegnanti di promuovere di più, sempre e comunque).
Infine, si sia tutti attenti a che le prime misure educativo-disciplinari prese dalle scuole (a Torino e altrove) a carico di allievi e docenti resisi responsabili di storie inammissibili, vengano realmente messe in atto in nome di un'educazione al rispetto delle regole, o se si vuole della cultura della legalità che tutti invocano, ma solo a parole. Certo sarebbe come cominciare a realizzare, all'interno della scuola, il principio, fondamentale per un paese civile, della "certezza della pena" che, pur da tutti invocato a parole, è continuamente smentito nei fatti nella vita del Paese. Perché non cominciare proprio dal poco ("punizioni" non solo "decise", ma anche "applicate"), e proprio dalla scuola, se, come tutti ammettono, essa resta una delle principali agenzie educative della società?
«Avvenire» del 23 novembre 2006
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