di Pierluigi Battista
Sulla Stampa Giovanni De Luna ha sostenuto, con evidente disappunto, che nello scontro politico-storiografico sul fascismo e la Resistenza avrebbero vinto i «revisionisti». La prova principale sarebbe la ragguardevole quantità di copie vendute dei libri che mettono in cattiva luce le gesta di alcuni gruppi partigiani all’indomani della Liberazione, tra stragi e vendette sui «vinti». Un’altra prova è lo spazio che la neovulgata revisionista avrebbe sugli schermi televisivi, un nuovo potere mediatico capace di modellare il senso comune e il tono dominante del discorso pubblico: una nuova egemonia destinata a subentrare a quella, oramai svanita, un tempo saldamente nelle mani della sinistra. Ma si tratta di prove non convincenti, prove che non provano granché. Quello dell’egemonia televisiva revisionista è un argomento fattualmente vacillante. La storia in tv è un supermercato variegato e pluralistico, come De Luna, da molti anni a fianco di Alessandro Cecchi Paone in una fortunata serie di trasmissioni televisive dedicate alla storia, ben sa. Ma anche il boom di vendite dei libri di Giampaolo Pansa non è una novità della storia editoriale italiana. Anzi, il divario tra gli orientamenti dominanti nella storiografia consacrata e politicamente accreditata e lo straordinario successo di vendite di libri di orientamento opposto, è una costante delle vicende dell’editoria italiana. Come non ricordare il cipiglio sprezzante, il sussiego, l’avversione e persino l’ostilità per i libri di storia di Indro Montanelli? Libri vendutissimi, politicamente e culturalmente estranei all’ortodossia storiografica antifascista, e che da tempo immemorabile hanno usato, ha ragione Mario Cervi a ricordarlo sul Giornale, categorie interpretative della Resistenza in chiave di «guerra civile» che nell’accademia di sinistra hanno dovuto attendere lo sdoganamento culturale di Claudio Pavone (all’inizio degli anni Novanta) per essere prese in considerazione. Esattamente come accade per Pansa, anche allora si deploravano i libri di Montanelli perché semplicistici, pettegoli, adusi a ricostruire la storia dal buco della serratura, privi di note a pié di pagina. Ma quei libri, anche in tempi di indiscussa egemonia culturale della sinistra, vendevano, stabilivano un rapporto di fedeltà con un pubblico popolare, e non solo per la scorrevolezza e la limpidezza della scrittura così in contrasto con quella, pesante e legnosa, degli storici di professione. Qualcosa di analogo accadde anche con i libri di Giovannino Guareschi, tanto disprezzati dalla critica «colta» quanto apprezzati da un pubblico vasto (e, in tempi più recenti, anche con i libri di Oriana Fallaci è successo qualcosa del genere). Forse Guareschi incarnava un’egemonia culturale così incontrastata e trionfale? O non sarà il caso di chiedersi come mai, nella storia editoriale italiana, i gusti del pubblico quasi mai hanno coinciso con gli orientamenti dell’establishment culturale, come a confermare quella frattura tra élite e popolo così clamorosamente messa in evidenza in questi ultimi anni di storia repubblicana? E del resto non dovrebbe proprio la sinistra interrogarsi sull’invisibilità della sua migliore storiografia? Qualche sera fa, nella trasmissione «Otto e mezzo», Sergio Luzzatto ha detto, che prima e meglio di Pansa, i capitoli più bui e cruenti della storia italiana post-Liberazione sono stati affrontati in modo «eccellente» dai lavori dello storico Massimo Storchi. Restava solo da chiedersi perché un libro così «eccellente» fu accolto dall’ostracismo silenzioso della sinistra e dei grandi giornali (con la sola eccezione di una pagina della Stampa).
«Corriere della sera» del 13 novembre 2006
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