17 ottobre 2006

Guerrieri della libertà

Parla il grande reporter Ryszard Kapuscinski, ieri ospite a Bolzano: «Vigiliamo: l'informazione rischia sempre manipolazioni»
di Cornelia Dell'Eva
«Senza censure cogliere i pericoli è più difficile, così il giornalismo deve lottare per la sua indipendenza. Come? Fermando per un attimo la corsa alla velocità e ricordandosi che può decidere»

«My name is Riccardo»: così si è presentato Ryszard Kapuscinski appena sceso dall'aereo a Bolzano, con la semplicità di chi è abituato a fare del viaggio un'occasione d'incontro. A 74 anni Kapuscinski, giornalista e scrittore, si trova nel capoluogo altoatesino per presentare la mostra «L'Africa di Kapuscinski», che raccoglie presso l'Archivio storico del comune le sue fotografie dal Continente nero, e in risposta all'invito del Centro per la pace e della Libera università di Bolzano. È incuriosito da una provincia di confine, in cui tre gruppi linguistici convivono, si mescolano, si incontrano e talvolta si scontrano.
«Il mondo è un posto di confine. Le nostre esperienze particolari diventano quelle del mondo, perché ormai ovunque si mescolano persone provenienti da luoghi e culture diverse».
Intervistare Ryszard Kapuscinski è impresa ardua: «Non mi piacciono le interviste. In realtà io non ne ho mai fatte: da giornalista mi limitavo a vivere con la gente, a stare con le persone aspettando che cominciassero a raccontare». Il giornalismo di Kapuscinski è una specie in via di estinzione. Lui stesso definisce i suoi pezzi dei «reportage letterari», possibili perché i tempi del mestiere erano diversi. Kapuscinski ha cominciato a viaggiare negli anni Cinquanta, il suo desiderio era varcare la frontiera. Pensava di uscire dalla Polonia per vedere la Cecoslovacchia, e invece è stato catapultato in India, poi in Cina, poi in Africa, il continente che più lo ha appassionato. Viaggi improvvisi e improvvisati che gli hanno fatto sentire la vastità del mondo. «Ora il mondo sembra più piccolo», dice.
È ancora possibile il giornalismo come lo ha vissuto lei?
«Ormai tutto è cambiato: la rivoluzione elettronica ha avuto conseguenze irreversibili: innanzitutto il giornalismo è diventato una professione di massa, mentre una volta era un mestiere quasi da aristocratici, i giornalisti erano pochi. Se cerchiamo tra le personalità storiche e politiche del secolo scorso troveremo mo lti giornalisti. Oggi, la lista dei giornalisti accreditati presso una qualsiasi ambasciata è lunghissima, e non fa distinzione tra il giornalista, il fotografo, il cameraman. Una volta il giornalista sentiva di avere una vera e propria missione umana da compiere. Oggi mi pare che non sia così».
Le tecnologie della comunicazione puntano a rendere sempre più rapida l'informazione. È un vantaggio o uno svantaggio?
«C'è una corsa continua, ma il giornalista non dovrebbe dimenticarsi che può decidere: deve prendersi il tempo di rallentare e di approfondire. La velocità apre nuove possibilità, ma non deve diventare una costrizione. Poter viaggiare o ricevere informazioni velocemente significa potersi conoscere a vicenda, e questo è un orizzonte nuovo per l'umanità. Il futuro va in questa direzione: una sempre maggiore vicinanza, che richiede una sempre maggiore tolleranza e capacità di capirsi vicendevolmente, tutti diversi come siamo».
Il giornalista può decidere... Si può quindi parlare di informazione libera, oggi?
«Oggi è difficile pesare la libertà dell'informazione, era più facile ai tempi della censura. Ora che non c'è più la censura la libertà dell'informazione è limitata dalla manipolazione, ovvero dal tentativo dei potenti di controllare a chi e in che modo arriva l'informazione. Il fine ultimo è evidentemente la salvaguardia del potere. In questo conteso il giornalismo ha un compito importantissimo: deve essere una continua lotta contro chi vuole manipolare l'informazione, una continua lotta per l'indipendenza dell'informazione. E questa lotta, talvolta, è più stancante della professione stessa. Noi giornalisti dobbiamo tuttora essere guerrieri per la libertà di stampa».
Lei ha viaggiato molto, anche in periodi in cui non erano in molti a farlo. Ora si viaggia di più, ma il significato del viaggio è cambiato?
«Una cosa è viaggiare, altra cosa è esplorare. È possibile muoversi verso Paesi lontani senza interessarsi minimamente al contesto in cui si va a stare, oppure toccare velocemente molti luoghi, annusarli e passare oltre. Quello che mi piace quando vado in posti nuovi è esplorarli, andare alla ricerca delle particolarità che li rendono unici, delle similitudini con luoghi già noti. Mi piace parlare con le persone, perché spesso quello che raccontano è molto più reale di quello che posso vedere guardandomi in giro».
Però si ha l'impressione che non ci sia più nulla di inesplorato…
«Ma non è vero, perché il mondo cambia incessantemente. Sono stato in Africa per la prima volta più di quarant'anni fa, e ci sono tornato recentemente. Ho visitato le città in cui ho vissuto ma le ho trovate irriconoscibili. Certo Venezia e Amsterdam restano sempre uguali, in Europa le cose sono diverse. Ma se ci si spinge in altri continenti è evidente che tutto è in continuo movimento. Il nostro obiettivo, di noi giornalisti, è proprio osservare il cambiamento e descriverlo, perché quello che scriviamo oggi diventa la storia di domani. Il cambiamento dovrebbe essere il tema della vita per il giornalista».
«Avvenire» del 17 ottobre 2006

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