C’è un Montale poco conosciuto. Trenta anni fa, da “sociologo”, spiegava perché i mass media avrebbero ucciso la poesia
di Alfonso Berardinelli
Eugenio Montale amava la poesia? A giudicare dai fatti (vita e opere) nessuno potrebbe negarlo. Ma la cosa certa è che non amava la poesia come la si ama oggi in Italia. Il suo amore non lo cantava né lo vantava. Era un uomo cauto, inibito (sì!), prudente, reticente, poco effusivo, terrorizzato dalla retorica e da ogni tipo di discorso declamabile “ore rotundo”. Quando editori, divulgatori e insegnanti devono decidere che cosa è la poesia italiana del Novecento, scelgono Montale. Se deve essere nominato un solo autore, quello è lui: il più tipico, autorevole e studiato portavoce della poesia moderna in Italia. A distanza, alle sue spalle, un secolo prima, resta Leopardi. Nel primo e secondo Novecento, poco prima e poco dopo di lui, ci sono Umberto Saba e Pier Paolo Pasolini. Tutti e due di una famiglia diversa: più aperti, generosi, diffusi, imperfetti perché portati a mettere in versi qualunque cosa. Poeti premoderni (Saba) o postmoderni (Pasolini), sostanzialmente in polemica con la modernità, con il simbolismo, con l’ermetismo, con l’eccesso di condensazione lirica, con ogni tipo di oscurità, di bizzarria, di formalismo. Anche la modernità di Montale era polemica. Non gli piacevano le poetiche, le intenzioni, i gruppi, le avanguardie, il ribellismo, il titanismo, la poesia pura, l’ottimismo espressivo, l’engagement ideologico e politico. A Montale ovviamente non piaceva quasi nulla. La sua forza era una forza di negazione, di stanziamento, focalizzazione assoluta del dettaglio, arte del mettere idee e pensiero dentro un’organizzazione verbale scandita e pietrificata… Non voglio mettermi a parlare di Montale! La bibliografia critica che si è accumulata sulla sua opera è mostruosa. Almeno in Italia, credo che ormai superi per quantità quella su quasi tutti i grandi classici. Forse solo su Dante e Leopardi si è scritto di più. Mi sono messo a parlare di Montale al solo scopo di notare un dettaglio: Montale (più o meno convenzionalmente) è la poesia italiana del Novecento, ma da circa trent’anni la poesia italiana esiste perché lo ignora: come idea e come comportamento, come teoria e come prassi, non ha niente a che fare con Montale. Neppure con il Montale prolifico e “chiacchierone” degli ultimi anni, da “Satura” (1971) in poi. Il dettaglio non abbastanza notato, la piccola cosa piuttosto trascurata è che quasi tutti i poeti italiani di oggi troverebbero mostruosi e criminosi lo scetticismo e le cautele che Montale ebbe ogni volta che parlò di poesia. Della propria e di quella degli altri. Mai Montale avrebbe incoraggiato la produttività poetica. Se soltanto sfogliamo i suoi scritti “Sulla poesia”, una raccolta a cura di Giorgio Zampa uscita da Mondadori nel 1970, ricordiamo subito che il tono-Montale era stato caratteristico di tutta la generazione post-crociana e post-dannunziana. Nessuna enfasi, mai. Fuga dalle giustificazioni filosofiche della poesia in generale (Croce) e fuga dalla retorica (presente anche in Ungaretti) della poesia come entusiasmo e fuoco lirico.
In ogni sua dichiarazione e valutazione sulla poesia e sui poeti, Montale fu prudente, avaro, scettico (era il suo modo di essere appassionato, un modo oggi inimmaginabile). Per lui, come la sua famosa anguilla, il poeta diventa se stesso risalendo la corrente. Sono gli ostacoli, sono le condizioni avverse che permettono alla poesia di fecondare se stessa, di vivere e rinascere, di sprigionare le sue (ogni volta inaspettate e disperate) energie vitali. Oggi che i sessanta o seicento poeti italiani cercano l’idillio della buona accoglienza, sono assetati di incoraggiamenti e di giustificazioni, evitano il rischio e preferiscono non essere giudicati, oggi rileggere Montale che parla di poesia farebbe scandalo. Sembrerebbe un attentato alla comunità o setta o corporazione dei poeti , a cui ( stranamente) ogni poeta sente ormai di appartenere. L’individualismo tradizionale dei poeti sembra tramontato. Si rivendicano diritti da difendere in gruppo e in massa. Montale, viceversa, parlando di poesia, parlava sempre di solitudine, di lentezza, di imprevedibilità, di non-programmabilità.
Soprattutto a partire dagli anni sessanta rifletteva di continuo sulle difficoltà di esistenza, perfino di sopravvivenza, della poesia in una società di massa. Nel suo discorso del 1975, quando ricevette il premio Nobel, scrisse: “Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione (…) Di qui l’arte nuova del nostro tempo che è lo spettacolo. Un’esibizione non necessariamente teatrale a cui concorrono i rudimenti di ogni arte e che opera una sorta di massaggio psichico sullo spettatore o ascoltatore o lettore che sia”.
E’ così anche oggi. I lettori hanno continuamente bisogno di speciali pratiche di rianimazione. Le loro facoltà di attenzione richiedono sempre un rivitalizzante “massaggio psichico”. Chi leggerebbe se non ci fossero ogni estate gli spettacoli e le esibizioni letterarie? “In tale esibizionismo isterico” si chiedeva Montale trent’anni fa: “quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia?”. La risposta era che questa nuova “arte spettacolo”, l’arte a tutti i costi di massa , “l’arte che vuole produrre una sorta di massaggio fisico-psichico su un ipotetico fruitore ha dinanzi a sé infinite strade perché la popolazione del mondo è in continuo aumento. Ma il suo limite è il vuoto assoluto (…) milioni di poeti scrivono versi che non hanno nessun rapporto con la poesia. Ma questo significa poco o nulla”.
Anche quando è apocalittico, Montale lo è in stile, possibilista e prudente. La storia umana per lui somiglia di più alla storia naturale che alla Storia con la maiuscola dello storicismo. Perciò non c’è colpo senza contraccolpo, anche se si tratta di probabilità e non di conseguenze prevedibili: “Non è credibile che la cultura di massa per il suo carattere effimero e fatiscente non produca, per necessario contraccolpo, una cultura che sia anche argine e riflessione”. Si tratta di cicli. La cultura di massa, la produzione per il consumo veloce, arrivate alle arti più tradizionali, ormai socialmente inutili e inoffensive come la poesia, forse metteranno in azione anticorpi: il bisogno di isolamento, di silenzio, di consumo lento e riflesso.
L’interessante nel modo che ha Montale di parlare di poesia non è il pessimismo, né l’ottimismo. E’ piuttosto l’empirismo, la mancanza di fiducia incondizionata. Niente viene escluso in linea di principio, neppure il rigetto degli effetti negativi del progresso e della “democratizzazione delle arti”. La poesia non viene considerata un valore inalterabile nel corso del tempo, come pretenderebbero quei “milioni di poeti”. Nel discorso per il Nobel, Montale dice che in un primo momento aveva pensato a un titolo più preciso: “Potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa?”. Le comunicazioni di massa lo ossessionavano. Le sentiva come una minaccia radicale non tanto per la “produzione” di poesia, quanto per i presupposti culturali necessari a scriverla e soprattutto a leggerla. Insiste: “Nell’attuale civiltà consumistica (…) nella civiltà dell’uomo robot, quale può essere la sorte della poesia?”.
Montale ragionava come un critico liberale della società di massa, come un borghese senza fedi positive, come un individuo che sente la fragilità dell’individuo di fronte ai processi di socializzazione totalizzante. Il suo solo impegno è l’autodifesa. Si sente che ha letto Ortega y Gassett, Paul Valéry, Thomas S. Eliot, Aldous Huxley. Pensa al peggio, ma nel momento in cui è tentato da qualche ipotesi apocalittica, si ritrae, evita i toni allarmistici, modera le affermazioni perentorie. Scetticamente rifiuta di credere che nella storia umana agisca una logica ineluttabile che porta sempre dal meglio al peggio. Neppure lo storicismo alla rovescia lo convince. Così, contro il pessimismo sistematico, Montale ricorre all’ironia. La poesia, dice, forse è diventata indistruttibile proprio per ragioni di quantità, perché ce n’è troppa. Tutti la scrivono e democraticamente è legittimo che la scrivano: “La poesia è l’arte tecnicamente alla portata di tutti. Basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto (…). L’incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta appunto di produzione cioè di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della moda”. Potrebbe darsi che vada distrutta l’opera di poeti di valore e sopravviva quella degli innumerevoli scriventi, “cioè pseudo versi privi di ogni senso”. Gli incendi sono sprovvisti di criteri critici.
C’è un solo momento in cui Montale si lascia andare alla fede: “ La grande lirica può morire, rinascere , rimorire, ma resterà sempre una delle vette dell’anima umana”. Fede prudente e ambigua anche questa. Il punto è che neppure l’eventuale morte storica della poesia può in sostanza minacciare il valore della grande poesia che è stata scritta in passato. Ma le diverse morti ed eventuali rinascite della poesia sono messe nel conto. Nessuna linearità, nessuna garanzia di sopravvivenza o di valori poetici che rimangano inalterati ad ogni generazione. Le interruzioni possono essere continue. Del resto il suo empirismo non fa mai dimenticare a Montale che i generi e le forme letterarie sono in metamorfosi e quello che sparisce da una parte può ricomparire dall’altra. Il sistema dei generi prevede continue migrazioni da un modo di espressione a un altro. Una volta si usavano la terzina e l’ottava per scrivere vasti poemi narrativi. Dall’Ottocento in poi queste tecniche sono andate fuori uso. Non è detto che la migliore poesia venga sempre scritta in versi: “Resta sempre dubbioso in quali limiti e confini ci si muove parlando di poesia. Molta poesia d’oggi si esprime in prosa. Molti versi d’oggi sono prosa e cattiva prosa”.
Le più convincenti diagnosi sulle condizioni di esistenza della poesia Montale le fa quando parla di se stesso. Dichiara spesso che il nome di poeta lo mette in imbarazzo. Ripete che non si è mai sforzato di esserlo. Essere poeta non è stato per lui un programma.
In un’intervista rilasciata nel 1960 alla rivista “Quaderni milanesi” dice: “Io, sforzi, non ne ho mai fatti (…) è accaduto che di fronte alla massiccia produzione in versi che ha invaso il nostro paese, e non solo il nostro, io abbia sentito intollerabile il nome di poeta. Credo che chi, come me, ha scritto versi (pochi) per 35 anni abbia il dovere di starsene alla finestra. Può darsi che io ricominci; può darsi il contrario. Aggiungo che dal ’48 io sono un giornalista e mi manca assolutamente il tempo per scrivere cose mie. Scrivo per gli altri. Non escludo un giorno di poter ancora scrivere per me. Ma quando?”.
Anche sulla critica Montale ha le sue opinioni. Molto semplici e molto attuali. In un’autointervista scritta per “Quaderni della radio” (XI, ERI 1951) arriva ad affermare che “La critica letteraria ha quasi cessato di esistere in Italia e anche altrove. I quotidiani si occupano solo di arti organizzate (teatro, cinema, arti visive) come professioni (…). Anni fa la critica si era rifugiata nelle piccole riviste letterarie; ma ora non esistono quasi più riviste del genere. Esistono solo grossi settimanali illustrati pieni di pettegolezzi, nei quali trova poco spazio la critica letteraria (…) E’ naturale che una merce poco richiesta tenda a scomparire; ma in questo caso si ha l’impressione che alla poca richiesta corrisponda anche una certa svogliatezza nell’offerta. Il pubblico non chiede nulla anche perché non gli si offre nulla (…) se riapparissero i critici si diffonderebbe ancora il gusto della critica. Un’arte senza una critica parallela muore”.
Purché sia critica e non informazione pubblicitaria, né semplice maldicenza privata. Siamo ancora allo stesso punto di allora. La critica ogni tanto sembra morta. Eppure basta che si dica in pubblico, con buoni argomenti, qualche verità proibita perché quel corpo malato si rianimi. Lo stesso Montale indicò che il problema era esattamente nel passaggio dalla critica orale (o maldicenza privata) alla critica scritta e pubblica, in cui il giudizio deve essere costruito su esempi, prove, argomentazioni convincenti e fondate: “In qualche modo bisogna far sì che la critica scritta e stampata sopravviva. Quella che ancora resta, in forme spicciole e orali, nelle conversazioni di chi segue le novità letterarie, dimostra che il buon gusto non è naufragato ma che oggi si trova raramente chi voglia dire la verità. I critici sono uomini e non vogliono farsi troppi nemici. Una volta non era così. Come mai non era così?”.
Dopo aver detto in breve quasi tuttol’essenziale, a questa domanda conclusiva Montale non risponde. Forse ci saranno, aggiunge, delle ragioni economiche. Le recensioni dei veri e propri critici letterari non sono molto apprezzate. Critico letterario vero e proprio è chi mette in gioco il proprio “onore” intellettuale parlando di autori contemporanei e magari di libri appena usciti. Ad un tale individuo vengono di solito preferiti i recensori che fanno favori e il cui salario consiste nel ricevere favori in cambio. Il fatto è che le professioni intellettuali sono (erano) fondate su un certo individualismo, su un rifiuto del branco, della corporazione, della complicità. Sulle orme del grande Antonio Gramsci ci siamo un po’ troppo abituati a ragionare da intellettuali in quanto gruppi. Gli intellettuali però sono e dovrebbero essere anzitutto individui: indocili, poco controllabili e in genere piuttosto solitari. Uno scrittore che in una riunione di scrittori non si senta ancora più solo, non è uno scrittore, credo.
In ogni sua dichiarazione e valutazione sulla poesia e sui poeti, Montale fu prudente, avaro, scettico (era il suo modo di essere appassionato, un modo oggi inimmaginabile). Per lui, come la sua famosa anguilla, il poeta diventa se stesso risalendo la corrente. Sono gli ostacoli, sono le condizioni avverse che permettono alla poesia di fecondare se stessa, di vivere e rinascere, di sprigionare le sue (ogni volta inaspettate e disperate) energie vitali. Oggi che i sessanta o seicento poeti italiani cercano l’idillio della buona accoglienza, sono assetati di incoraggiamenti e di giustificazioni, evitano il rischio e preferiscono non essere giudicati, oggi rileggere Montale che parla di poesia farebbe scandalo. Sembrerebbe un attentato alla comunità o setta o corporazione dei poeti , a cui ( stranamente) ogni poeta sente ormai di appartenere. L’individualismo tradizionale dei poeti sembra tramontato. Si rivendicano diritti da difendere in gruppo e in massa. Montale, viceversa, parlando di poesia, parlava sempre di solitudine, di lentezza, di imprevedibilità, di non-programmabilità.
Soprattutto a partire dagli anni sessanta rifletteva di continuo sulle difficoltà di esistenza, perfino di sopravvivenza, della poesia in una società di massa. Nel suo discorso del 1975, quando ricevette il premio Nobel, scrisse: “Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione (…) Di qui l’arte nuova del nostro tempo che è lo spettacolo. Un’esibizione non necessariamente teatrale a cui concorrono i rudimenti di ogni arte e che opera una sorta di massaggio psichico sullo spettatore o ascoltatore o lettore che sia”.
E’ così anche oggi. I lettori hanno continuamente bisogno di speciali pratiche di rianimazione. Le loro facoltà di attenzione richiedono sempre un rivitalizzante “massaggio psichico”. Chi leggerebbe se non ci fossero ogni estate gli spettacoli e le esibizioni letterarie? “In tale esibizionismo isterico” si chiedeva Montale trent’anni fa: “quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia?”. La risposta era che questa nuova “arte spettacolo”, l’arte a tutti i costi di massa , “l’arte che vuole produrre una sorta di massaggio fisico-psichico su un ipotetico fruitore ha dinanzi a sé infinite strade perché la popolazione del mondo è in continuo aumento. Ma il suo limite è il vuoto assoluto (…) milioni di poeti scrivono versi che non hanno nessun rapporto con la poesia. Ma questo significa poco o nulla”.
Anche quando è apocalittico, Montale lo è in stile, possibilista e prudente. La storia umana per lui somiglia di più alla storia naturale che alla Storia con la maiuscola dello storicismo. Perciò non c’è colpo senza contraccolpo, anche se si tratta di probabilità e non di conseguenze prevedibili: “Non è credibile che la cultura di massa per il suo carattere effimero e fatiscente non produca, per necessario contraccolpo, una cultura che sia anche argine e riflessione”. Si tratta di cicli. La cultura di massa, la produzione per il consumo veloce, arrivate alle arti più tradizionali, ormai socialmente inutili e inoffensive come la poesia, forse metteranno in azione anticorpi: il bisogno di isolamento, di silenzio, di consumo lento e riflesso.
L’interessante nel modo che ha Montale di parlare di poesia non è il pessimismo, né l’ottimismo. E’ piuttosto l’empirismo, la mancanza di fiducia incondizionata. Niente viene escluso in linea di principio, neppure il rigetto degli effetti negativi del progresso e della “democratizzazione delle arti”. La poesia non viene considerata un valore inalterabile nel corso del tempo, come pretenderebbero quei “milioni di poeti”. Nel discorso per il Nobel, Montale dice che in un primo momento aveva pensato a un titolo più preciso: “Potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa?”. Le comunicazioni di massa lo ossessionavano. Le sentiva come una minaccia radicale non tanto per la “produzione” di poesia, quanto per i presupposti culturali necessari a scriverla e soprattutto a leggerla. Insiste: “Nell’attuale civiltà consumistica (…) nella civiltà dell’uomo robot, quale può essere la sorte della poesia?”.
Montale ragionava come un critico liberale della società di massa, come un borghese senza fedi positive, come un individuo che sente la fragilità dell’individuo di fronte ai processi di socializzazione totalizzante. Il suo solo impegno è l’autodifesa. Si sente che ha letto Ortega y Gassett, Paul Valéry, Thomas S. Eliot, Aldous Huxley. Pensa al peggio, ma nel momento in cui è tentato da qualche ipotesi apocalittica, si ritrae, evita i toni allarmistici, modera le affermazioni perentorie. Scetticamente rifiuta di credere che nella storia umana agisca una logica ineluttabile che porta sempre dal meglio al peggio. Neppure lo storicismo alla rovescia lo convince. Così, contro il pessimismo sistematico, Montale ricorre all’ironia. La poesia, dice, forse è diventata indistruttibile proprio per ragioni di quantità, perché ce n’è troppa. Tutti la scrivono e democraticamente è legittimo che la scrivano: “La poesia è l’arte tecnicamente alla portata di tutti. Basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto (…). L’incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta appunto di produzione cioè di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della moda”. Potrebbe darsi che vada distrutta l’opera di poeti di valore e sopravviva quella degli innumerevoli scriventi, “cioè pseudo versi privi di ogni senso”. Gli incendi sono sprovvisti di criteri critici.
C’è un solo momento in cui Montale si lascia andare alla fede: “ La grande lirica può morire, rinascere , rimorire, ma resterà sempre una delle vette dell’anima umana”. Fede prudente e ambigua anche questa. Il punto è che neppure l’eventuale morte storica della poesia può in sostanza minacciare il valore della grande poesia che è stata scritta in passato. Ma le diverse morti ed eventuali rinascite della poesia sono messe nel conto. Nessuna linearità, nessuna garanzia di sopravvivenza o di valori poetici che rimangano inalterati ad ogni generazione. Le interruzioni possono essere continue. Del resto il suo empirismo non fa mai dimenticare a Montale che i generi e le forme letterarie sono in metamorfosi e quello che sparisce da una parte può ricomparire dall’altra. Il sistema dei generi prevede continue migrazioni da un modo di espressione a un altro. Una volta si usavano la terzina e l’ottava per scrivere vasti poemi narrativi. Dall’Ottocento in poi queste tecniche sono andate fuori uso. Non è detto che la migliore poesia venga sempre scritta in versi: “Resta sempre dubbioso in quali limiti e confini ci si muove parlando di poesia. Molta poesia d’oggi si esprime in prosa. Molti versi d’oggi sono prosa e cattiva prosa”.
Le più convincenti diagnosi sulle condizioni di esistenza della poesia Montale le fa quando parla di se stesso. Dichiara spesso che il nome di poeta lo mette in imbarazzo. Ripete che non si è mai sforzato di esserlo. Essere poeta non è stato per lui un programma.
In un’intervista rilasciata nel 1960 alla rivista “Quaderni milanesi” dice: “Io, sforzi, non ne ho mai fatti (…) è accaduto che di fronte alla massiccia produzione in versi che ha invaso il nostro paese, e non solo il nostro, io abbia sentito intollerabile il nome di poeta. Credo che chi, come me, ha scritto versi (pochi) per 35 anni abbia il dovere di starsene alla finestra. Può darsi che io ricominci; può darsi il contrario. Aggiungo che dal ’48 io sono un giornalista e mi manca assolutamente il tempo per scrivere cose mie. Scrivo per gli altri. Non escludo un giorno di poter ancora scrivere per me. Ma quando?”.
Anche sulla critica Montale ha le sue opinioni. Molto semplici e molto attuali. In un’autointervista scritta per “Quaderni della radio” (XI, ERI 1951) arriva ad affermare che “La critica letteraria ha quasi cessato di esistere in Italia e anche altrove. I quotidiani si occupano solo di arti organizzate (teatro, cinema, arti visive) come professioni (…). Anni fa la critica si era rifugiata nelle piccole riviste letterarie; ma ora non esistono quasi più riviste del genere. Esistono solo grossi settimanali illustrati pieni di pettegolezzi, nei quali trova poco spazio la critica letteraria (…) E’ naturale che una merce poco richiesta tenda a scomparire; ma in questo caso si ha l’impressione che alla poca richiesta corrisponda anche una certa svogliatezza nell’offerta. Il pubblico non chiede nulla anche perché non gli si offre nulla (…) se riapparissero i critici si diffonderebbe ancora il gusto della critica. Un’arte senza una critica parallela muore”.
Purché sia critica e non informazione pubblicitaria, né semplice maldicenza privata. Siamo ancora allo stesso punto di allora. La critica ogni tanto sembra morta. Eppure basta che si dica in pubblico, con buoni argomenti, qualche verità proibita perché quel corpo malato si rianimi. Lo stesso Montale indicò che il problema era esattamente nel passaggio dalla critica orale (o maldicenza privata) alla critica scritta e pubblica, in cui il giudizio deve essere costruito su esempi, prove, argomentazioni convincenti e fondate: “In qualche modo bisogna far sì che la critica scritta e stampata sopravviva. Quella che ancora resta, in forme spicciole e orali, nelle conversazioni di chi segue le novità letterarie, dimostra che il buon gusto non è naufragato ma che oggi si trova raramente chi voglia dire la verità. I critici sono uomini e non vogliono farsi troppi nemici. Una volta non era così. Come mai non era così?”.
Dopo aver detto in breve quasi tuttol’essenziale, a questa domanda conclusiva Montale non risponde. Forse ci saranno, aggiunge, delle ragioni economiche. Le recensioni dei veri e propri critici letterari non sono molto apprezzate. Critico letterario vero e proprio è chi mette in gioco il proprio “onore” intellettuale parlando di autori contemporanei e magari di libri appena usciti. Ad un tale individuo vengono di solito preferiti i recensori che fanno favori e il cui salario consiste nel ricevere favori in cambio. Il fatto è che le professioni intellettuali sono (erano) fondate su un certo individualismo, su un rifiuto del branco, della corporazione, della complicità. Sulle orme del grande Antonio Gramsci ci siamo un po’ troppo abituati a ragionare da intellettuali in quanto gruppi. Gli intellettuali però sono e dovrebbero essere anzitutto individui: indocili, poco controllabili e in genere piuttosto solitari. Uno scrittore che in una riunione di scrittori non si senta ancora più solo, non è uno scrittore, credo.
«Il Giornale» del 9 settembre 2006
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