07 luglio 2006

Grandezza e miseria della fisica (Andreoli 7)

Le leggi della meccanica di Newton si sono rilevate conformi alla realtà finché ci si è limitati ad applicarle a corpi del nostro ordine di grandezza, ma non più quando si è voluto applicarle a dimensioni astronomiche, atomiche e subatomiche. L’antropocentrismo va vinto, così la tendenza a considerare la natura a nostra misura. Tuttavia quando rinunciamo a questi riferimenti finiamo per essere preda del panico dell’indeterminato.

di Vittorino Andreoli
1. Dobbiamo uscire dal nostro sistema nervoso, la prigione entro cui siamo chiusi. E ciò sembra appartenere al mito, non alla scienza. - 2. Come se dovessimo dotarci di una mente nuova per leggere il mondo, in una lotta titanica contro i nostri limiti strutturali. - 3. È curioso e drammatico pensare che la scienza si era posta dal ’600 in poi come la soluzione finale al problema della fede. - 4. All’inizio del Novecento la stessa fisica sembra ricreare le condizioni del mistero, animando ancora l’universo di dei.
Dopo aver descritto lo stato della scienza in generale a cavallo tra Ottocento e Novecento, cioè agli inizi di quella crisi che giungerà poi appesantita sino a noi, è utile – e ancor più affascinante – analizzare questa stessa crisi attraverso il prisma di una disciplina specifica: la fisica. Sarà l’occasione per imbattersi attraverso tinte più vistose con la fase della grandeur e quella successiva del crollo, dunque con la transizione da una fisica che risolve i problemi dell’uomo ad una che al contrario li crea.
Circa le condizioni in cui doveva apparire la fisica sul finire dell’Ottocento, è interessante quel che scrive Max Planck in una pagina di grande chiarezza, pur levigata da ironia: «Quand’io ero agli inizi dei miei studi, il mio maestro Philipp von Jolly, un fisico all’altezza dei tempi, mi descriveva la fisica come "una scienza giunta ad un alto grado di sviluppo e quasi completamente matura, che avendo ormai avuto il suo coronamento con la scoperta del principio di conservazione dell’energia, avrebbe presto assunto una forma stabile e definitiva". La fisica teorica si avvicinava sempre più a quel grado di compiuta perfezione che la geometria aveva avuto da secoli. Era – continua Planck – un gradevole stato di soddisfazione, venato appena da qualche nota di inquietudine, da alcuni punti oscuri, dallo strano comportamento dell’etere che resisteva tenacemente ad ogni tentativo di spiegazione...» (La conoscenza del mondo fisico, trad. it. 1942, p. 139).
Ma come nel mito di Proserpina la splendida terra siciliana ad un certo punto si spalanca in una tetra voragine che conduce al regno del dio degli Inferi, così nel placido paesaggio della fisica classica sembrò prodursi un crepaccio da cui sulle prime non si sapeva bene quale demone potesse mai uscire.
Erano le scoperte del mondo subatomico che, succedendosi con ritmo impressionante, sconvolgevano una dopo l’altra le vecchie concezioni e ribaltavano antiche posizioni che erano parse incrollabilmen te sicure e immutabili.

LA RADIOATTIVITÀ. La prima di questa serie di scoperte fu la radioattività, ad opera dei coniugi Curie (1898).
Quell’emissione spontanea di radiazioni di natura ignota da loro osservata, apriva la strada a nuove e sconcertanti visioni. Le antiche teorie sulla materia inerte e immutabile venivano meno e, al tempo stesso, sembrava cadere anche quel principio di conservazione dell’energia, formulato appena mezzo secolo prima, che pareva essere la pietra più salda dell’edificio della fisica. Risorgeva invece come possibilità concreta l’antico e deriso sogno degli alchimisti: quello della trasmutazione dei corpi semplici che Ernest Rutherford doveva realizzare per la prima volta, di lì a poco, nel 1919. La fantasia considerata tra le più nocive al progresso scientifico si stava rivelando invece un’idea fondamentalmente giusta.
Il fenomeno dell’autodistruzione spontanea del radio, il «cataclisma della trasformazione atomica», come ebbe a dire Marie Curie, oltre a far vedere che almeno una parte della materia si trova in uno stato di evoluzione spontanea, mostrava quanto errata fosse l’idea che i fisici si erano fatti circa l’atomo, quando l’avevano considerato un’entità immutabile, sempre uguale a se stessa: a-tomo, appunto. L’atomo cominciava ora ad apparire invece come un’entità complessa, non già elemento ultimo del mondo fisico, bensì piccolo laboratorio in se stesso, un «imperium in imperio» per dirla con Spinoza.
Nel 1897, Joseph J. Thomson scopriva nel Cavendish Laboratory di Cambridge, in Inghilterra, le piccolissime cariche elettriche negative che già nel 1891 George J. Stoney aveva proposto di chiamare "elettroni". Al che, la materia non solo non era un’entità stabile, ma poteva mutare e liberare energia secondo un’economia che non rispetta il principio della conservazione, giungendo persino ad una produzione senza limite.
Chiaro che a questo punto occorreva persino ridefinire il concetto di energia, tanto diversa era la condizione in cui essa ora appariva.
I QUANTA DI ENERGIA. Nel 1902, per spiegare il misterioso fenomeno dell’irradiazione dei corpi neri, Max Planck introdusse l’ipotesi dei quanta (o dei quanti) di energia: la materia emette energia raggiante non in modo continuo, ma attraverso entità infinitamente piccole. In altre parole, l’energia ha dunque carattere granulare.
A sua volta, Albert Einstein – nel 1905 – proponeva l’ipotesi granulare per spiegare il fenomeno della luce: faceva così la sua comparsa il Lichtquanten o fotone, e contemporaneamente la prima teoria della relatività: la cosiddetta relatività ristretta. Al che, un altro dogma della fisica classica cadeva miseramente, quello della continuità del mondo fisico.
Leibniz, nel Settecento, aveva affermato che «natura non facit saltus»: in realtà, dice Planck, noi siamo ora indotti a pensare che la natura non faccia altro che salti, «e dei salti assai singolari».
Nasceva così la fisica moderna. Ricordarne qui i passaggi, e la velocità con cui questi si susseguirono, risulta impossibile, tanti furono e quanto straordinari. Soffermiamoci allora su quelli più significativi che contrastano con la fisica classica, ma anche con l’idea stessa di scienza, e persino con la logica tradizionale. Scoperte che in qualche modo permettono di parlare di crisi della fisica e che nel nostro assunto sono le lontane radici di una crisi grave dell’uomo contemporaneo, rimasto senza certezze e senza princìpi. Una condizione che forse non è la somma di tante novità ma che, come dice Pascual Jordan, ha provocato – cosa ben più importante – «il cambiamento della disposizione del nostro spirito rispetto ai problemi».
Più ancora che nella somma dei singoli risultati sperimentali e delle loro relazioni, il progresso del pensiero fisico sta nel raggiungimento di «nuovi punti di vista decisivi», originati da una fantasia creatrice che, a sua volta, dipende principalmente dai presupposti soggettivi e dalla posizione che la nostra intu izione prende rispetto alle cose (cfr. La fisica nel secolo XX, trad. it., Firenze 1940, p. 95).
Ma passiamo ora alle diversità, ai mutamenti del pensiero.
IL CRITERIO SENSORIALE. Anzitutto viene a cadere definitivamente il criterio sensoriale. La scienza era nata come spiegazione dei fatti che cadono sotto il dominio dei sensi, cioè come repertorio di osservazioni collegate direttamente alle sensazioni; ne sono esempi la meccanica (campo degli sforzi muscolari) e la termologia (tatto), l’ottica e l’acustica. Ora invece la fisica si emancipa completamente.
Decisiva è stata, a questo proposito, la teoria della relatività: essa ha mostrato che le nozioni meccaniche di forza, massa, moto e tempo (che hanno tutte la loro origine nelle sensazioni) dipendono da una anthropomorphic fallacy (termine di A. W. Stern, che significa errore antropomorfico), cioè dal proiettare nella natura le nostre tendenze istintive a rappresentarci tutto basandoci sul modello della meccanica.
Combattere questa verbalization of sensory habits (espressione di capacità sensoriale) significa liberarsi dal pregiudizio più forte, arrogante e duro da sradicare: quello per cui si pretende di spiegare tutti gli elementi della natura nei termini della nostra piccola e imprecisa esperienza umana («we explain the entire realm of nature in terms of our little and scant human experience of it»).
Questo cambiamento di visuale è stato reso possibile dalla relatività che ha sostituito i concetti della fisica classica con quelli che non dipendono dall’osservatore e dalla sua soggettività.
In tal modo, non si elimina soltanto ogni ombra di antropomorfismo, ma si pone l’uomo di fronte a un mondo che non è possibile penetrare direttamente attraverso i sensi. «I nostri sensi – avverte Carl Størmer – sono come finestre strettissime aperte sul mondo esterno, dalle quali non otteniamo nella nostra coscienza che una immagine imperfettissima della realtà; solo grazie ai nuovi sensi che ci procuran o i metodi di osservazione scientifica l’immagine diviene migliore, grazie ai sensi artificiali di cui la fisica ci ha dotati: lastre fotografiche, termometri termoelettrici...».
Insomma, la fisica ormai si basa su delle protesi dell’uomo, costituite da una tecnologia che però ammette controlli non sensoriali ma solo mentali. In altri termini, cambia la realtà che indaghiamo e su questo "nuovo mondo" a-sensoriale mutano persino le ipotesi di ricerca che costituiscono il motore e la direttiva di ogni analisi scientifica.
Già il precetto newtoniano «hypothèses non fingo» (le ipotesi viste cioè come strumento di finzione) era parso a suo tempo definitivo. Ma poi Claude Bernard aveva scritto che ogni ipotesi di lavoro, ogni teoria, anche fallace, è utile per approdare a qualcosa di buono («les hypothèses et les théories, même mauvaises, sont utiles pour conduire à des découvertes», cit. in Pierre Lecomte de Nouy, Equilibres superficiels des solutions colloïdales, Paris 1930). E si era così giunti alla convinzione che l’ipotesi diventa il filo conduttore, parte integrante della ricerca e della scoperta.
Cartesio stesso, fondatore indiscusso del pensiero moderno e in particolare di quello scientifico, aveva posto l’evidenza e il buonsenso come criteri della verità anche in campo scientifico e per molto tempo era parso che avesse ragione. Ma ora nessuno di questi due criteri rimane saldo. Anzi, il buonsenso è persino messo in ridicolo. «È il buonsenso – osservava Anatole France – che ci insegna che la terra è ferma, che il sole le gira attorno e che gli uomini che vivono agli antipodi marciano con la testa in basso».
LE RELAZIONI DI INCERTEZZA. Tuttavia ciò che crolla in maniera altrettanto definitiva è l’idea di un mondo retto da un rigoroso determinismo, tale per cui sarebbe sempre possibile descrivere con esattezza qualsiasi stato del futuro, una volta che si è completamente conosciuto lo stato del presente e del passato. Insomma, la certezza di potere un giorno conoscere il futuro iniziò a vacillare non solo nella fisica meccanica, nella quale si cominciavano a vedere soluzioni strane come quelle dei «points de bifurcation», i punti di biforcazione (Joseph Boussinesq), il demone folletto di James C. Maxwell, ma anche nella fisica delle particelle, dove si dovette addirittura ammettere che un’esatta conoscenza non era possibile neppure al presente, e dunque che non era consentita la precisa determinazione dello stato di un sistema.
Gravida di conseguenze è a questo proposito l’enunciazione delle celebri «relazioni di incertezza» di Werner Heisenberg (1927), le quali derivano dagli studi della meccanica ondulatoria.
Queste relazioni ci dicono che è impossibile conoscere con esattezza e contemporaneamente la posizione e la velocità (ossia il movimento) di un corpo di grandezza subatomica. Ogni dispositivo infatti che permetta la misurazione della posizione turba la velocità del corpo in maniera non conosciuta, e viceversa ogni dispositivo che misuri la velocità ne modifica la posizione.
In altre parole, non possiamo con esattezza conoscere più della metà delle grandezze di cui avremmo bisogno per descrivere esattamente il sistema, per cui altro non possiamo fare che accontentarci.
Accontentarci di determinare con precisione un elemento trascurando l’altro, di accettare "il press’a poco" al posto della precisione.
Di questa scoperta, nota come principio di indeterminazione, Heisenberg ha dato una rigorosa dimostrazione. Il suo significato in fondo è questo: l’atto stesso dell’osservazione altera il fenomeno osservato in modo tale che non si può descriverlo se non approssimativamente (cfr. Les principes de la théorie des quanta, trad. franc., Paris 1930).
«La natura – spiega James H. Jeans con un’immagine piena di colore – non è più un deserto esplorabile dall’alto di un aeroplano, ma si può esplorare solo errandovi a piedi, ed ogni passo fa sollevare nuvole di polvere» (I nuovi orizzonti della fisica, trad. it., Firenze 1934).
Negando in maniera assoluta la conoscenza simultanea della posizione e della velocità di un corpo, le relazioni di Heisenberg mostrano l’impossibilità di applicare al mondo subatomico l’ideale cartesiano della fisica: quello di una rappresentazione per figure e movimenti, indipendentemente dal tempo. Insomma, quelle relazioni proverebbero l’esistenza di un indeterminismo nella natura. Ma è chiaro che con una simile visione la storia si capovolge.
Con le sue relazioni di incertezza Heisenberg ha di fatto completato la critica al determinismo, attestando l’impossibilità assoluta di dare la definizione meccanica di un sistema, compresa l’impossibilità di conoscerne esattamente il futuro.
Entrò pertanto in crisi il concetto di legge, inteso come una conclusione precisa e assoluta; le leggi si riducono a espressioni di semplice probabilità statistica. «Nessuna causalità della natura fisica – dice Hermann Weyl – è fondata su leggi rigorosamente esatte»; e Gaston Bachelard aggiunge: «Un esperimento di fisica non traduce mai la realtà, ma descrive un episodio» («Une expérience de physique ne traduit pas une réalité, elle réalise une chance»).
Appare così, in tutta evidenza, come stia crollando un intero mondo: non solo quello della fisica strettamente intesa, e dunque di una scienza ritenuta esatta, ma anche il mondo che si era costruito sui semplici riferimenti della fisica. Una civiltà come la occidentale, che tra le proprie caratteristiche basilari ha la scienza, rimane allora non solo scossa, ma può vacillare e frantumarsi. Di conseguenza, si rompe anche l’uomo con le sue certezze. Una prova che quando il pensiero – in questo caso scientifico – entra nella vita dell’uomo, si fa cultura nel senso esistenziale.
LA FINE DELLA REALTÀ OGGETTIVA. Ma c’è la caduta anche di un altro tipo di certezze. La scienza aveva finora presupposto l’esistenza d’una realtà oggettiva, suscettibile di essere descritta indipendentemente dal soggetto che l’osservava, e per questo si poteva parlare appunto di "scienza esatta". Per il mondo delle particelle, dove mai si può del tutto separare il fenomeno osservato dall’osservatore – giacché l’osservatore, esaminando il fenomeno, e misurandolo, lo modifica –, questa esattezza non è possibile.
Non si sfugge a questa alternativa: o si rinuncia a osservare il mondo "esterno", ma questo allora non sarà oggetto di scienza, o si cercherà di conoscerlo, ma conoscendolo lo si modificherà.
Questo in relazione agli strumenti che si usano e che sono a loro volta fatti dall’uomo. A rigore, non sarà più quindi un mondo assolutamente esterno a colui che osserva.
La divisione dell’universo in sistema osservato e sistema di osservazione ha sempre qualcosa di arbitrario; così come, per fare di un fenomeno una descrizione completa, bisognerebbe far entrare nel sistema osservato anche l’osservatore (cfr. Niels Bohr, «Wirkumsquantum u. Naturbeschreibung» in Naturwissenschaft, 1929, pp. 484 sg). E si giunge al paradosso di un osservatore che al contempo è dentro a ciò che osserva, come un neonato che, attaccato al seno materno e senza una propria identità, volesse studiare il corpo della madre che egli però non percepisce staccato dal proprio.
MATERIA ED ENERGIA. Ma non è finita. Si impone a questo punto di riprendere in considerazione una questione in sé annosa, la differenza cioè tra materia e energia . Un’antinomia che non solo non è risolta, ma che – lo si deve ammettere – non è nemmeno risolvibile. Per provarlo basta ricordare che pacchetti d’onde si tramutano, in un dato momento, in corpuscoli. Come dire che la fisica nuova va contro il principio di identità. Ma è vero che tutto quello che sembrava certo, oramai si confonde. E che occorre pensare a un mondo inconoscibile o conoscibile con un certo margine più o meno rilevante di errore.
Bohr annuncia un nuovo principio di complementarietà, con il quale mostra che la luce ha proprietà connesse da un lato alla struttu ra ondulatoria, ma dall’altro a quella corpuscolare. Insomma, la luce è materia: nonostante la sua natura ondulatoria, possiede una struttura sub-atomica, quindi è fatta di particelle.
Le contraddizioni diventano così regola e persino legge.
«Con questi esperimenti meravigliosi della complementarietà – osserva Pascual Jordan – la natura raggiunge il risultato di legare ad un medesimo oggetto fisico proprietà e leggi che si contraddicono vicendevolmente con tale forza da non poter stare mai simultaneamente una di fronte all’altra». L’impossibilità di determinare insieme le proprietà ondulatorie e quelle corpuscolari non dipende dall’imperfezione dei nostri strumenti (per quanto si possa sperare di eliminarla in futuro), essa in realtà sta nella natura stessa delle cose. E poiché indeterminato è lo stato fisico degli oggetti atomici, quest’indeterminazione persiste sempre anche nel corso del divenire, per cui «cade qui completamente la legge di causalità».
Finché si aveva avuto a che fare con l’universo dell’esperienza quotidiana, si era pensato in termini di concetti, ma una volta che questi sono stati riportati al microcosmo della fisica atomica essi hanno mostrato tutto il loro limite.
Le leggi della meccanica di Newton si sono rilevate esattamente conformi alla realtà finché ci si è limitati ad applicarle a corpi del nostro ordine di grandezza, e animati da velocità deboli in confronto a quella della luce; ma quando si è voluto applicare queste leggi a dimensioni astronomiche, o atomiche e subatomiche, questa conformità non si è più verificata.
Siamo in presenza ormai di una fisica ritagliata sul soggettivismo dell’uomo, mentre l’uomo non è stato fatto selon notre faille, alla maniera nostra. Per cui bisogna vincere l’antropocentrismo e la tendenza a ridurre tanto la natura quanto la scienza a nostra misura. Ma quando rinunciamo a questo riferimento, si finisce per entrare nel panico dell’indeterminazione.
Insomma, adesso dobbiamo uscire dal nostro sistema nervoso, sorta di prigione entro cui siamo chiusi, il che sembra appartenere però al mito, non certo alla scienza. Come se l’uomo dovesse dotarsi di una nuova testa, con capacità e criteri diversi per leggere il mondo. Un lotta titanica per lasciare indietro i propri limiti. Ritorna forse il mito di un desiderio di onnipotenza che appartiene agli dei.
LA REALTÀ, TEMA DELLA PSICOLOGIA. Si spiega a questo punto una domanda: ma allora cos’è il reale? Se la scienza è un labirinto di dubbi e di incertezze, come possiamo ritenerla lo strumento per conoscere il mondo, la realtà nella sua vera natura, oggettivamente come si suol dire? Non sarà che la scienza non analizza affatto la realtà, e anzi mostra che essa è persino inconoscibile? E la fisica stessa, in quanto scienza dei corpi, degli oggetti (da physiké, ciò che concerne la natura), a cosa si riduce se non è in grado di descriverceli con certezza?
Una domanda semplice e drammatica insieme per il sapere.
Secondo Otto Stern, nella fisica dei quanta non si ha a che fare con "cose" (l’elettrone non è né corpuscolo né onda), bensì con concetti, inventati per ridurre il mondo entro i termini della nostra comprensione. Ma i concetti sono reali e cosa è la realtà?
M. R. Cohen risponde: «The term reality carries a sacrosant air with it and exists... as a term of praise rather than of description» (il termine realtà include un che di sacro ed esiste…come termine di lode più che di pura descrizione). L’invito cioè è di liberarci dal concetto di realtà: del resto se non si conoscono i costituenti ultimi della materia, la materia non è meno misteriosa della vita.
E continuando in questa cascata di dubbi: se la scienza ha come fondamento la logica e la ragione , cosa è veramente il processo razionale e a cosa serve?
A. Korzylski rileva che «quando Erwin Schrödinger tratta un elettrone come un pacchetto di onde sembra che egli dica che un fenomeno fisico può essere sia corpuscolare che non corpuscolare ( onda appunto), e ciò pare equivalga a dire che A è B e non-B insieme». Si va però così contro il principio di non contraddizione, a suo tempo formulato da Aristotele e poi sostenuto e approfondito da san Tommaso quale fondamento del processo razionale.
Al che immagino che a ciascuno appaia il dramma di questo ribaltamento della scienza dall’interno della scienza stessa. Di un scienza che doveva darci verità e che invece ci consegna l’inconoscibilità della natura. Una scienza che porta al mistero.
Ma se questa affermazione si regge su un legame anomalo, per quanto giustificato, ossia scienza - mistero, ecco che sempre alla fine dell’Ottocento se ne impone un altro, forse meno scioccante, ma certo sorprendente: il legame tra fisica e psicologia. Strano perché la fisica si era posta come scienza esatta e dunque universale, mentre la psicologia si giocava in rapporto al singolo e come il singolo viveva il mondo, una modalità cioè esclusiva di quel soggetto, e di ognuno di noi.
La corrente psicologica che viene coniugata alla fisica è la Gestaltpsychologie.
La tesi della "psicologia della forma" è che oggetti complessi non sono riducibili ai loro elementi costitutivi, e quindi non sono separabili, a meno di perdere totalmente il loro senso, quello dell’insieme. Se noi guardiamo il cielo in una notte di luna e osserviamo appunto il nostro satellite, inconsapevolmente lo stacchiamo dal fondo, ossia dal cielo attorno in cui si inserisce. La luna è quindi contemporaneamente ciò che vediamo e anche ciò che escludiamo dallo sfondo. Questo principio, che vale per le percezioni visive, vale anche per gli "oggetti" della fisica. Non possiamo insomma percepire o pensare un’entità A se nel momento medesimo non percepiamo o pensiamo a quel che esclude, e cioè il non-A, che è lo sfondo della forma concettuale.
Su queste osservazioni W. Kohler, fondatore della Gestaltpsychologie, sostiene che la percezione di insieme precede sempre la separazione di parti o fenomeni che l’ insieme contiene. Il che già indica che la visione di una cosa di fatto esclude molte altre cose, ma c’è di più: questo processo di scelta o esclusione dipende da configurazioni proprie del nostro cervello, da come esso è fatto. In altre parole, la percezione delle cose dipende dal limite strutturale del nostro cervello e dai suoi criteri organizzativi, e non ha nulla a che fare con la realtà esterna.
La psicologia, dunque, insegna alla fisica di tenere conto di come il nostro cervello percepisce, perché così capirà che ciò che vede non ha nulla di oggettivo in quanto si relazione solo al nostro cervello. Prima di studiare un oggetto fisico bisogna sapere come è stato percepito, e quindi passare attraverso la psicologia.
Si arriva allora allo psicologismo, e dunque a fondare la fisica sulla psicologia considerata a quel punto una scienza imperfetta proprio perché conteneva elementi non riconducibili ancora a quelli fisici.
In tal modo, una scienza che era ritenuta perfetta ci appare ora come sospesa in un precario equilibrio, e minacciata dal pericolo di annullarsi, e svanire, ed essere inghiottita dalla psicologia, espressione del nostro cervello.
Ormai la scienza ricorda l’Amleto, e più precisamente il personaggio di Ofelia «very charming and a little mad» (graziosa, ma un po’ matta).
Il filo che può guidarci a uscire dalla difficoltà sopra esposta sta nel concetto di trascendenza: dover vedere il dato oltre quello che del dato cogliamo, integrandolo con qualcosa che lo trascende.
È curioso, o forse semplicemente drammatico, pensare alla scienza che si era posta dal Seicento in poi come soluzione a tutti i misteri, fin’anche quelli che riguardavano la fede e le divinità del cielo, le quali sarebbero così scomparse dagli studi della fisica, quando poi all’inizio del Novecento è la fisica a generare il mistero, animando l’universo ancora di dei.
Il percorso
A generare la crisi della scienza (che per Andreoli è uno degli eventi della cultura occidentale che più hanno influito sulla crisi dei «principia» in senso ampio) ha concorso l'incapacità di quest'ultima di rispondere alle esigenze di libertà dell'uomo moderno: in una visione di determinismo assoluto, come quella prefigurata da razionalismo e positivismo tra '700 e '800, l'uomo si riduceva a un ingranaggio fatale nella grande macchina della natura.
Ad incrinare questa impostazione è stata in parte la scienza stessa, che ha cercato con crescenti "aggiustamenti" di recuperare un ruolo, uno spazio per la libertà umana. Ma è stata soprattutto la filosofia, che ha intentato un micidiale processo critico, arrivando a posizioni come quelle di un Èmile Boutroux che mise radicalmente in discussione il valore oggettivo delle leggi scientifiche, o come quelle di Ernst Mach e Richard Avenarius, per i quali la realtà era da considerarsi costituita da semplici fenomeni, "fatti", che la mente raccoglie in classi apposite per motivi esclusivamente pratici, conformemente ad un principio di economia. Il risultato è stato uno sviluppo ininterrotto, nel '900, della tecnica, ma un'altrettanta seria empasse della scienza. La quale, scriveva Andreoli domenica scorsa, «non ha risolto i problemi della conoscenza, semmai li ha complicati... e ha lasciato l'uomo nel dubbio e nell'incertezza, quando non nella disperazione. In questo senso si parla di una crisi della civiltà, e a farlo non sono certo della Cassandre: già Oswald Spengler ne Il Tramonto dell'Occidente parlava di una decadenza della civiltà legata all'incertezza della scienza e all'indeterminazione di ciò che questa ci racconta».
Non saremmo quindi lontani da quanto diceva un medico veronese del Cinquecento, Gerolamo Fracastoro, scopritore delle cause della sifilide: «che dirò mai ch'io faccia, qual vita dirò ch'io conduca se, misero, inquieto, indago sempre ed invano il mondo che mi sfugge, se, appena per poco si mostra, a me, sì come Proteo, già presto mutato d'aspetto, in mille modi m'inganna?». Non si può più nutrire, insomma, l'illusione scientista che i problemi che toccano più da vicino l'umanità possono essere risolti, o lo saranno un giorno, grazie a qualche scoperta.
Dopo aver considerato il ruolo della filosofia, nella puntata di oggi Andreoli getta uno sguardo sulla fisica e sullo "scossone" che anche questa, paradossalmente, ha dato alla scienza.

parole & idee
Meccanica quantistica
Teoria fisica formulata nella prima metà del ventesimo secolo che descrive il comportamento della materia a livello microscopico, a scale di lunghezza dell'ordine di quelle dell'atomo o ad energie nella scala delle interazioni nucleari, dove cadono le ipotesi alla base della meccanica classica. Essa spiega e quantifica fenomeni che, nell'opinione della maggior parte dei fisici contemporanei, non possono essere giustificati dalla meccanica classica. Una peculiarità della meccanica quantistica è che la particelle vengono descritte tramite onde di probabilità, eliminando una distinzione, quella tra particelle e onde, che aveva caratterizzato la fisica del XIX secolo.

Max Planck
(1858 - 1947) è considerato uno dei padri della fisica quantistica. Vinse il premio Nobel nel 1918. Studiando la radiazione di un corpo nero, scoprì che l'emissione della radiazione non avveniva in forma di onde, come ipotizzato dalle teorie di fisica del tempo, ma attraverso minuscoli proiettili di energia, detti quanti di radiazione.

James C. Maxwell
Fisico inglese (1831-1879), elaborò la teoria dall'elettromagnetismo che permise l'unificazione dei fenomeni elettrici e magnetici in un'unica struttura, il campo elettromagnetico, descritto da una compatta trattazione matematica. Compì pure studi fondamentali sulla cinetica dei gas.


L'indeterminato come principio
Werner Heisenberg

Fisico tedesco (Würzburg 1901 - Monaco 1976) studiò all'Università di Monaco e nel 1923 divenne assistente del fisico anglo-tedesco Max Born, presso l'Università di Gottinga. Nel 1927 ottenne l'incarico di professore di fisica teorica all'Università di Lipsia e fu successivamente docente a Berlino, Gottinga e Monaco. Insignito del premio Nobel per la fisica nel 1932, nel 1941 divenne direttore dell'Istituto Kaiser Wilhelm. Sospettato di aver collaborato con le autorità naziste, alla fine della seconda guerra mondiale fu tenuto prigioniero in Gran Bretagna per un certo periodo di tempo.
Nel 1927 Heisenberg scoprì che la natura probabilistica delle leggi della meccanica quantistica poneva grossi limiti al grado di conoscenza di un sistema atomico. Normalmente ci si aspetta che lo stato di una microparticella in movimento (ad esempio un elettrone in rotazione attorno al nucleo) sia caratterizzato completamente ricorrendo a due parametri: velocità e posizione. Heisenberg postulò invece che a un certo livello queste quantità sarebbero dovute rimanere sempre indefinite. Tale limitazione prese il nome di principio di Indeterminazione. Secondo il quale maggiore è l'accuratezza nel determinare la posizione di un particella, minore è la precisione con la quale si può accertarne la velocità e viceversa.
Quando si pensa all'apparecchiatura necessaria per eseguire le misurazioni, questa indeterminazione risulta intuitiva. I dispositivi di rilevazione sono così grandi che la misurazione di un parametro come la posizione è destinato a modificare la velocità. Le limitazioni non derivano però solo dall'invasiva interazione del mondo macroscopico sul mondo microscopico, ma sono proprietà intrinseche (ontologiche) della materia. In nessun senso si può ritenere che una microparticella possieda in un dato istante una posizione e una velocità.
Tra gli scritti di Heisenberg si ricordano: Principi fisici della teoria quantistica (1930), Raggi cosmici (1946), Fisica e filosofia (1958), e Introduzione alla teoria unificata delle particelle elementari (1967).
«Avvenire» del 19 febbraio 2006

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