28 giugno 2006

Gulag, quelli che dissero no


L’eccezionale caso di Izrail’ Vizel’skiij,una vittima del Terrore staliniano che ebbe la forza di proclamarsi innocente fino alla fine
di Edoardo Castagna
Complotti, sabotaggi, trame nell'ombra, intese con il nemico. Le vittime del Terrore staliniano, negli anni Trenta, confessavano tutte, confessavano di tutto. E non erano sprovveduti qualsiasi, incappati negli ingranaggi tritatutto del totalitarismo rosso, ma esponenti di spicco del sistema sovietico, i massimi vertici del bolscevismo. Da Trockij in giù, tutti in realtà doppiogiochisti, secondo i processi farsa intessuti da Vyšinskij e preparati dalla famigerata Ghepeù e dalle sue metamorfosi nel tempo - Ogpu, Nkvd, Kgb. Le torture, pure durissime e scientificamente pianificate, non bastano a spiegare del tutto come tanti rivoluzionari di vecchia data, induriti da battaglie di decenni, si siano sciolti come neve al sole davanti agli inquisitori. Senza eccezioni, o quasi. Lo studio di Pavel Chinsky La fabbrica della colpa. Microstoria del Terrore staliniano, appena tradotto da Bruno Mondadori (pagine 172, euro 13,00) racconta come Izrail' Vizel'skij seppe dire di no. Non confessò, resistette alle torture, subì il gulag senza mai piegare la testa. Senza mai rinunciare, scrivendo perfino a Beria, a Stalin stesso, a proclamare la propria innocenza.A piegare gli accusati non erano solo le violenze. Era l'intero sistema sovietico a poggiare - socialmente, economicamente, politicamente - sulla negazione della realtà. Come agli agricoltori venivano richiesti raccolti irrealistici, come alle fabbriche erano imposti volumi di produzione impossibili, così agli uomini si imponeva di essere non ciò che erano, ma ciò che veniva imposto loro di essere. Ottimi compagni, sovietici esemplari e potenti capi di partito fino al giorno prima, dal momento dell'arresto in poi dovevano diventare complottisti controrivoluzionari. Da qui, dalla necessità di tenere in piedi l'impalcatura di negazione della realtà sulla quale si fondava l'Urss di Stalin, il bisogno di una confessione alle false accuse. Da bravo sovietico, ogni interessato collaborava: un po' per le botte, certo, ma un po' - molto - per l'esser lui stesso parte di quello stesso sistema che ora gli si rivoltava contro.Ecco allora che il caso Vizel'skij spicca come eccezione inaudita. Dirigente di stabilimenti chimici, membro del Partito fin dal 1921, Izrail' Savel'evic Vizel'skij fu arrestato nel 1938 con le solite accuse di sabotaggio, trozkismo e intesa con il nemico. Torturato, rifiutò di firmare ammissioni di colpevolezza durante gli interrogatori e ribadì la sua innocenza al processo. Naturalmente, fu comunque condannato e spedito in un gulag siberiano; gravemente malato di tubercolosi, morì nel 1941. Ma la sua ostinazione non fu piegata nemmeno dal campo: inviò un lungo memoriale - eccezionale strumento per lo storico - al nuovo capo della sicurezza sovietica, Lavrentij Beria, dove riaffermava la sua innocenza ed esponeva nel dettaglio tutti gli abusi e le incongruenze dell'istruttoria contro di lui, interamente intessuta su testimonianze di altri accusati, già fucilati, e su delazioni interessate. Ricostruì l'inquisizione, le percosse, la terribile "catena" - sedute ripetute di interrogatori, in genere notturni e dopo lunghi periodi di privazione del sonno. Denunciò le irregolarità dei verbali, l'infierire contro la sua malattia. Alla fine gli inquirenti dovettero fare a meno della consueta confessione - Vizel'skij aveva rifiutato di ammettere perfino una «leggera colpevolezza» - e dovettero formulare l'accusa sulla sola base delle testimonianze raccolte.Lo studio di Chinsky scandaglia in profondità il meccanismo della «fabbrica della colpevolezza» nelle purghe staliniane, architettata dall'allora potentissimo Nikolaj Ezov - a usa volta poi destinato all'arresto, alla "confessione" e alla fucilazione. L'accusa era la fine e non l'inizio del procedimento; gli inquirenti erano giovani imbevuti della cultura del terrore - molti dei sopravvissuti alle purghe interne all'Nkvd finiranno poi suicidi: tra gli altri, un fratello dello stesso Vizel'skij. L a firma della vittima in calce alle accuse contro di lui era necessaria, magari anche nella forma di un rifiuto, perché quelle stesse accuse entrassero nella "realtà" fittizia del mondo sovietico. L'unico elemento che resta irrisolto è proprio il perché Vizel'skij, uomo in fondo comune, uguale a tante altre vittime del gulag, seppe dire di no.
«Avvenire» del 28 giugno 2006

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