12 giugno 2006

Biologia: un gene troppo egoista

Trent’anni fa usciva il famoso e discusso libro di Richard Dawkins, ritenuto il «manifesto» del riduzionismo biologico: l’uomo è considerato solamente come un robot semovente ciecamente programmato dal suo Dna. Una tesi poi mescolata a posizioni antireligiose
Di Andrea Lavazza
La sua battaglia a colpi di «codice ereditario», per l’autorevolezza scientifica di cui si ammanta, risulta assai più insidiosa del «Codice da Vinci». Gli esperti: non è l’evoluzionismo che minaccia il cristianesimo, ma le estrapolazioni indebite dalla ricerca all’ideologia
E' considerato uno degli intellettuali più influenti nel mondo anglosassone, compare in tutte le classifiche delle voci capaci di influenzare maggiormente l’opinione pubblica, è forse lo scienziato che ha sfornato più best seller, eppure rappresenta anche l’elegante divulgatore che mescola grandi intuizioni a pregiudizi infondati e battaglie ideologiche animate solo dalle proprie idiosincrasie, l’esatto contrario della razionalità e della falsificabilità che dovrebbero caratterizzare la scienza. Richard Dawkins, 65 anni, zoologo della università di Oxford, dove occupa anche una cattedra creata ad hoc per lui, ha raggiunto la fama esattamente 30 anni fa con la pubblicazione del Gene egoista. Un volume curato dai suoi allievi Mark Ridley e Alan Grafen oggi lo celebra come «lo scienziato che ha cambiato il nostro modo di pensare». Certo, lo ha fatto, parzialmente, nel bene con la diffusione delle idee evoluzionistiche e senza dubbio nel male con la sua crociata contro la religione, quella cristiana in particolare, che ne fanno per alcuni versi un pensatore molto più insidioso di Dan Brown e del suo Codice da Vinci. «La tesi principale di Dawkins, tratta da Williams, Hamilton, Maynard Smith e Price, sostiene che l’"unità di selezione" non è il gruppo o l’organismo individuale, ma il "gene egoista", un’espressione da lui coniata – spiega il filosofo della biologia Elliot Sober, uno degli esperti interpellati da Avvenire –. Quando la selezione naturale fa sì che si evolva un determinato tratto, il motivo è che quel tratto favorisce il gene da cui dipende e non il gruppo o gli individui in cui quel tratto appare». In altre parole, sono i frammenti di Dna che contengono le istruzioni per un carattere somatico o un’attitudine comportamentale a lottare per la sopravvivenza e a cercare di moltiplicare la propria discendenza, usando l’organismo come robot semovente programmato ciecamente per preservare tali molecole. Ciò permetterebbe di spiegare comportamenti apparentemente a ltruistici, come il fatto che alcuni animali emettano suoni per avvertire i compagni dell’arrivo dei nemici mettendo così in pericolo se stessi: è il gene in questione che sacrifica l’intero "veicolo" per salvare tutti i geni a lui identici presenti nella popolazione dei suoi parenti. L’egoismo, sebbene non nel senso morale consueto, sarebbe allora la regola in natura, generosità e altruismo vanno insegnati perché non sono codificati nel nostro patrimonio ereditario. Si tratta di una posizione di totale riduzionismo materialistico e meccanicistico, in quanto «i replicatori (i singoli geni) non hanno un comportamento, non percepiscono il mondo, non catturano prede, né fuggono i predatori, ma si costruiscono veicoli (i corpi) che fanno tutte queste cose». Teoria che ha incontrato fieri critici (Stephen Jay Gould) e che deve essere integrata, perché l’evoluzione lavora a vari livelli. L’opera dello zoologo di Oxford è diventata famosa anche per l’«invenzione» dei memi, i replicatori culturali simili ai geni che si diffonderebbero da cervello a cervello. Un’idea, una teoria, un motivo musicale viaggiano da una testa all’altra grazie alla comunicazione, sempre in competizione per moltiplicarsi e sopravvivere a scapito degli altri, e sempre soggetti a mutazioni casuali che li possono rendere più o meno adatti al loro ambiente, decidendone il successo. Ciò riporta al determinismo della biologia sulla cultura, che Dawkins non afferma mai esplicitamente ma lascia affiorare. «L’appiattimento dell’uomo sull’animale – rileva il paleoantropologo dell’università di Bologna Fiorenzo Facchini – non tiene conto degli aspetti essenziali della cultura, quali la capacità progettuale e la simbolizzazione, che sono elementi extrabiologici, perché non rientrano nelle proprietà fisiche dei viventi e sarebbe vano cercare i geni che la regolano». La teoria di Dawkins è però divenuta vulgata diffusa, spesso banalizzata.
«Se ciò che ha scritto 30 anni fa è ancora valido, non è però assolutame nte sufficiente, nemmeno con i progressi di oggi, a spiegare tutti gli aspetti del comportamento», afferma Francisco J. Ayala, biologo dell’Università di California, Irvine, il quale rimarca come, a suo avviso, «l’azione dei geni egoisti all’interno del processo evoluzionistico non sia in contrasto con la fede cristiana, mentre diverso è il discorso rispetto alle posizioni filosofiche che ne ha derivato». «Geni egoisti non implicano necessariamente persone egoiste, ma spesso le persone sono egoiste – afferma con il suo stile provocatorio il filosofo della biologia Michael Ruse, uno dei protagonisti del dibattito Usa sul creazionismo –. Dawkins non sembra ritenere la sua posizione compatibile con i dogmi religiosi, ma io non ho problemi a ritenerla tale. Dopo tutto, il cristianesimo ha sempre rimarcato quanto egoisti si dimostrano gli uomini e se quest’idea può venire espressa nei termini della genetica invece che in quelli del racconto di Adamo ed Eva che cedono alla tentazione e mangiano la mela, beh, va bene lo stesso». Ma il loglio che infesta il grano della buona divulgazione, soprattutto nelle opere successive (Il Fenotipo esteso, L’Orologiaio cieco, Alla conquista del monte improbabile, Il Cappellano del diavolo), si è fatto soffocante. «Le fede è uno dei grandi mali del mondo, paragonabile al virus del vaiolo ma più difficile da estirpare», una delle affermazioni più offensive e sconcertanti, perché pronunciate proprio dal teorico dei memi: anche restando sul terreno evoluzionistico, se le idee legate alle fede si sono diffuse in modo capillare, un motivo vi sarà pure. E se la religione fosse come una malattia, perché le idee di Dawkins no? Prive di solidi argomenti anche le accuse secondo cui la fede è all’origine di molti orrori delle storia e un ostacolo sulla via della verità, frutto di deliberata confusione di piani e di arbitraria selezione dei dati di fatto. Forse il gene è davvero egoista, ma questa certo non è tutta la storia.
«Avvenire» dell’11 giugno 2006

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