tag:blogger.com,1999:blog-279400302024-03-10T23:09:19.595+01:00Editoriali & altro ...F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.comBlogger5210125tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-86901203103669449672024-03-03T09:57:00.001+01:002024-03-03T10:07:07.270+01:00Il complesso di Telemaco (M. Recalcati)<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Massimo Recalcati</span></div><div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgnJOPYpoMNzDKoaH9f06l6pFkdmF0DKG8qyccZZhzZ1w-ieXtjBHDr-M11AyZX35nJJOIbvjwGzSe8hNScnq45cX5F0Dc4eLCXsWl54kJ_h0psm8nuSFZbaMS9reh2m1MuEQ1EZ5NXjfELmnsml1XHO9GtRjbVHUBP1BxWrvyHvmJqePMIYU0_/s1100/a.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; clear: right; float: right;"><img alt="" border="0" height="320" data-original-height="1100" data-original-width="703" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgnJOPYpoMNzDKoaH9f06l6pFkdmF0DKG8qyccZZhzZ1w-ieXtjBHDr-M11AyZX35nJJOIbvjwGzSe8hNScnq45cX5F0Dc4eLCXsWl54kJ_h0psm8nuSFZbaMS9reh2m1MuEQ1EZ5NXjfELmnsml1XHO9GtRjbVHUBP1BxWrvyHvmJqePMIYU0_/s320/a.jpg"/></a></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Quello che qui nomino come “complesso di Telemaco” vuole essere un modo per accostare il nuovo disagio della giovinezza provando a dare una chiave di lettura inedita alla relazione tra genitori e figli in un tempo – quale è il nostro – in cui, come faceva già notare Eugenio Scalfari in un articolo di quindici anni fa intitolato significativamente <i>Il padre che manca alla nostra società</i> (su “la Repubblica” del 27 dicembre 1998), l’autorità simbolica del padre ha perso peso, si è eclissata, è irreversibilmente tramontata. La difficoltà dei padri a sostenere la propria funzione educativa e il conflitto tra le generazioni che ne deriva sono noti da tempo e non solo agli psicoanalisti. I padri latitano, si sono eclissati o sono divenuti compagni di giochi dei loro figli. Tuttavia, nuovi segnali, sempre più insistenti, giungono dalla società civile, dal mondo della politica e della cultura, a rilanciare una <i>inedita e pressante domanda di padre</i>. Bisogna essere chiari: il mio punto di vista è che questa eclissi non indica una crisi provvisoria della funzione paterna destinata a lasciare il posto a un suo eventuale recupero. Rilanciare il tema del tramonto dell’<i>imago</i> paterna non significa rimpiangere il mito del padre-padrone. Personalmente non ho nessuna nostalgia per il <i>pater familias</i>. Il suo tempo è irreversibilmente finito, esaurito, scaduto. Il problema non è dunque come restaurarne l’antica e perduta potenza simbolica, ma piuttosto quello di interrogare ciò che resta del padre nel tempo della sua dissoluzione. È questo che mi interessa. In tale contesto la figura di Telemaco mi appare un punto-luce. Essa mostra l’impossibilità di separare il movimento dell’ereditare – l’eredità è un movimento singolare e non una acquisizione che avviene per diritto – dal riconoscimento del proprio essere figli. Senza questo riconoscimento non si dà alcuna filiazione simbolica possibile.<br>
Il complesso di Telemaco è un rovesciamento del complesso di Edipo. Edipo viveva il proprio padre come un rivale, come un ostacolo sulla propria strada. I suoi crimini sono i peggiori dell’umanità: uccidere il padre e possedere sessualmente la madre. L’ombra della colpa cadrà su di lui e lo spingerà al gesto estremo di cavarsi gli occhi. Telemaco, invece, coi suoi occhi, guarda il mare, scruta l’orizzonte. Aspetta che la nave di suo padre – che non ha mai conosciuto – ritorni per riportare la Legge nella sua isola dominata dai Proci che gli hanno occupato la casa e che godono impunemente e senza ritegno delle sue proprietà. Telemaco si emancipa dalla violenza parricida di Edipo; egli cerca il padre non come un rivale con il quale battersi a morte, ma come un augurio, una speranza, come la possibilità di riportare la Legge della parola sulla propria terra. Se Edipo incarna la tragedia della <i>trasgressione della Legge</i>, Telemaco incarna quella dell’<i>invocazione della Legge</i>; egli prega affinché il padre ritorni dal mare ponendo in questo ritorno la speranza che vi sia ancora una giustizia giusta per Itaca. Mentre lo sguardo di Edipo finisce per spegnersi nella furia impotente dell’auto-accecamento – come marchio indelebile della colpa –, quello di Telemaco si rivolge all’orizzonte per vedere se qualcosa torna dal mare. Certo, il rischio di Telemaco è la malinconia, la nostalgia per il padre glorioso, per il re di Itaca, per il grande eroe che ha espugnato Troia. La domanda di padre, come Nietzsche aveva intuito bene, nasconde sempre l’insidia di coltivare un’attesa infinita e melanconica di qualcuno che non arriverà mai. È il rischio che Telemaco si confonda con uno dei due vagabondi protagonisti di <i>Aspettando Godot</i> di Samuel Beckett. Lo sappiamo: Godot è il nome di un’assenza. Nessun Dio-padre ci potrà salvare: la nostalgia per il padre-eroe è una malattia sempre in agguato. Il tempo del ritorno glorioso del padre è per sempre alle nostre spalle! Dal mare non tornano monumenti, flotte invincibili, capi-partito, leader autoritari e carismatici, uomini-dei, padri-papa, ma solo frammenti, pezzi staccati, padri fragili, vulnerabili, poeti, registi, insegnanti precari, migranti, lavoratori, semplici testimoni di come si possa trasmettere ai propri figli e alle nuove generazioni la fede nell’avvenire, il senso dell’orizzonte, una responsabilità che non rivendica alcuna proprietà.<br>
Noi siamo nell’epoca del tramonto irreversibile del padre, ma siamo anche nell’<i>epoca di Telemaco</i>; le nuove generazioni guardano il mare aspettando che qualcosa del padre ritorni. Ma questa attesa non è una paralisi melanconica. Le nuove generazioni sono impegnate – come farà Telemaco – nel realizzare il movimento singolare di riconquista del proprio avvenire, della propria eredità. Certo, il Telemaco omerico si aspetta di vedere all’orizzonte le vele gloriose della flotta vincitrice del padre-eroe. Eppure egli potrà ritrovare il proprio padre solo nelle spoglie di un migrante senza patria. Nel complesso di Telemaco in gioco non è l’esigenza di restaurare la sovranità smarrita del padre-padrone. La domanda di padre che oggi attraversa il disagio della giovinezza non è una domanda di potere e di disciplina, ma di <i>testimonianza</i>. Sulla scena non ci sono più padri-padroni, ma solo la necessità di padri-testimoni. La domanda di padre non è più domanda di modelli ideali, di dogmi, di eroi leggendari e invincibili, di gerarchie immodificabili, di un’autorità meramente repressiva e disciplinare, ma di atti, di scelte, di passioni capaci di testimoniare, appunto, come si possa stare in questo mondo con desiderio e, al tempo stesso, con responsabilità. Il padre che oggi viene invocato non può più essere il padre che ha l’ultima parola sulla vita e sulla morte, sul senso del bene e del male, ma solo un padre radicalmente umanizzato, vulnerabile, incapace di dire qual è il senso ultimo della vita ma capace di mostrare, <i>attraverso la testimonianza della propria vita, che la vita può avere un senso</i>.</span></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Introduzione al volume «Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre», Feltrinelli, Milano 2013, pp. 1-6</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-43830194785241118502024-02-01T17:05:00.000+01:002024-02-01T17:05:04.126+01:00Il cristianesimo tra cancel culture e apologetica. Ma una terza via c’è<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;"><em>Né glorificare, né ripudiare. O distinguere i buoni dai cattivi. Invece, come nei casi di Lutero contro gli ebrei e del “Sillabo”, si può creare uno spazio per storie diverse e per il dibattito</em></span></div>
<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Pierre Gisel</span></div>
<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;"><em>Anticipiamo alcuni stralci del dossier «La trappola del nuovo inizio», contenuto nel primo numero del 2024 del quindicinale “Il Regno-Attualità”. In esso il teologo Pierre Gisel, docente emerito della Facoltà di Teologia dell’Università di Losanna, mette in guardia dal desiderio di purificazione della storia e di “nuovo inizio” portato avanti da cancel culture e wokismo.</em></span></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">La <i>cancel culture</i> – «cultura dell’annullamento» o «della cancellazione» – ha invaso la scena pubblica. Si tratta di cancellare quel passato che non possiamo più riconoscere come nostro o che non vogliamo più che torni alla ribalta. Questo perché il passato è troppo pieno di colpe o di crimini, di violenza, schiavitù e repressione delle differenze, siano esse di genere, razza o cultura. Colpe e crimini che una storia costruita – quella dei vincitori – ha rimosso e ricoperto di una visione ideale, ma ingannevole e distorta. Questa cancel culture viene ora rafforzata dal woke, il «risveglio» che le minoranze hanno avuto nell’ultimo decennio, soprattutto negli Stati Uniti. Un movimento di base che mira a portare davanti ai nostri occhi e alle nostre responsabilità la realtà della schiavitù (e oltre a ciò, d’ogni oppressione e servitù), la realtà delle donne, tra seduttrici fatali e streghe (e oltre a ciò, d’ogni dominazione binaria), la realtà delle culture disprezzate (e oltre a ciò, di tutte le differenze nei modi di vivere lo spazio e il tempo, e le relazioni con il mondo e con gli altri esseri umani), la realtà degli eretici (e oltre a ciò, di tutti i dissidenti o semplici minoranze). Si chiede giustizia, giustamente, e uguaglianza, altrettanto giustamente, ma ciò può aprire la porta a un egualitarismo sul quale è bene interrogarsi.<br>
Di conseguenza, sono state smantellate figure di riferimento, abbattute statue, bruciati libri, distrutti fumetti, cancellate storie, espulsi dallo spazio pubblico dipinti e altre opere d’arte, così come film e altro ancora. Le biblioteche universitarie sono state colpite (decine di migliaia di libri sono stati ridotti in cenere). Anche i programmi di formazione. È il momento della vendetta. E perché no!? Ma sui punti in questione, tale vendetta si dispiega e si impone al di fuori di ogni reale spazio di discussione, anche se necessariamente, o addirittura inevitabilmente, conflittuale. Cancelliamo, sostituiamo. In breve, annientiamo. O purifichiamo. E lo facciamo in direzione di uno spazio sociale omogeneizzato (quale tipo di resistenza potrebbe essere qui riconosciuta come anche solo parzialmente legittima?) e neutralizzato (quale diritto potrebbe essere concesso qui a una posizione diversa?), quello del politicamente corretto.<br>
Tutto sommato, stiamo di fatto aprendo la porta al presentismo, all’indifferenziato, anche se alla base del movimento in corso l’intento era di ripristinare il diritto delle differenze escluse o non riconosciute. Ma forse questo è dovuto al fatto che, consapevolmente o meno, crediamo che ogni differenza non possa che portare alla discriminazione... Il quadro complessivo così delineato solleva in sottofondo domande insistenti: che tipo di rapporto possiamo avere con il passato, un rapporto che non sia una venerazione ingannevole o una cancellazione irriflessiva? Si possono ancora fare riferimenti alle cose antiche – positivi o negativi che siano – e se sì, come, a che titolo e per che cosa? (...)<br>
La sfera religiosa è chiaramente colpita, o comunque è coinvolta nel tumulto. Il cristianesimo in particolare, non solo perché fa parte di questo tessuto sociale, ma anche perché è stato teatro della cristallizzazione delle memorie in questione, nonché delle narrazioni – o addirittura della «grande narrazione», come direbbe Jean-François Lyotard, (...)<br>
Come controesempio di quello che la <i>cancel culture</i> comporta, prendo le mosse da due momenti storici. Prima Martin Lutero e gli ebrei, poi il <i>Sillabo romano</i> del 1864, uno protestante e uno cattolico. Per delineare che cosa si dovrebbe fare di fronte a questo o quel disastro storico, e con quali benefici. Partiamo da Lutero e dal suo testo De Judaeis et eorum mendaciis (Degli ebrei e delle loro menzogne) del 1543, in cui sostiene 8 misure contro gli ebrei. (...) In un discorso tenuto nel novembre 1938, al tempo della “Notte dei cristalli”, un vescovo protestante celebrò Lutero come «il più grande antisemita del suo tempo, colui che mise in guardia il suo popolo dagli ebrei». Il testo di Lutero è abominevole. Alcuni cercano di trovare delle giustificazioni inserendolo in un contesto, o storico o psicologico. Altri condannano Lutero, e non solo questo testo e pochi altri simili, ma tutto ciò che ha scritto e fatto.<br>
Insomma, l’apologetica da una parte, la cancel culture dall’altra. Io sostengo una terza via. Né glorificare né ripudiare. Non si tratta nemmeno di distinguere i buoni dai cattivi, che è quello che facciamo la maggior parte delle volte. La cernita cancella le ambivalenze che attraversano sia ciò che intendiamo conservare sia ciò che rifiutiamo, e va inconsciamente di pari passo con l’idea che possiamo relazionarci con immediatezza con ciò che consideriamo buono, e che possiamo rifiutare senza ulteriori indugi ciò che consideriamo riprovevole o malvagio. Questa terza via presuppone, innanzitutto, che ci si allontani dalle espressioni di primo livello – affermazioni, cifre o altro – e si concentri l’attenzione sulle reali e diversificate collocazioni delle due parti in questione, quella ritenuta positiva e quella riconosciuta negativa. Più precisamente, propongo di considerarle ogni volta come parte di una costellazione di modi diversi di dare corpo a questioni umane e sociali più ampie. In questo modo, il passato sarà istruttivo, nella sua articolazione differenziata con un presente che ha le sue ambivalenze e tentazioni. Questa terza via mostrerà poi gli impulsi legati a un particolare motivo e la gamma di cose che ne possono emergere. Avremo quindi tagliato i ponti con ciò che ci porterebbe a pensare che tale forma da ripudiare sia solo un incidente da correggere o di cui sbarazzarsi, per mostrare come essa riveli questioni fondamentali e modi di rispondere. (...)<br>
Il <i>Sillabo</i> tratta del nostro rapporto con il mondo, civile o non religioso, e dunque fa parte di una serie di posizioni, ognuna delle quali va riletta e considerata. Le troviamo in quel testo, ma possono sempre riproporsi: un’indifferenza che si tiene a distanza, una fede che proviene da un altro ordine e che può abitare qualsiasi tipo di città (come nella Lettera a Diogneto della fine del II secolo d.C,), un’apologia dell’Impero come compimento del disegno di salvezza di Dio (come nel caso di Eusebio di Cesarea, vescovo vicino a Costantino), una dialettica tra un momento di ultima istanza e il qui e ora (Agostino d’Ippona che pensa a una «città di Dio» diversa dalla «città terrena» e che a modo suo la attraversa), varie ricorrenze apocalittiche (Gioacchino da Fiore, ma anche, prima ancora, molti dissensi e proteste e, più tardi, movimenti utopici che intersecano tutto il tardo Medioevo e gli inizi dell’età moderna), vari modi di distinguere tra i due ordini (nelle sintesi medievali o tra i riformatori protestanti), l’opposizione tra «visione del mondo» e «umanesimo secolare» (in un filone dell’evangelicalismo del XX secolo che continua nel XXI, ma questa opposizione può assumere forme meno nette), la visione di un’analogia tra finalità ecclesiali e finalità sociali, sovradeterminate da un obiettivo comune (penso a un notevole testo di Karl Barth del 1946), le valorizzazioni della secolarizzazione (Friedrich Gogarten, Harvey Cox, Gianni Vattimo), una coesistenza pacifica che opera affinché il mondo incarni gradualmente i valori cristiani (posizioni liberali o certa teologia della liberazione). Ricostruendo questa costellazione di posizioni, non rimarrà una condanna, ma, come nel primo esempio riportato – Lutero e gli ebrei – avremo tematizzato un insieme problematico i cui termini sono ancora presenti. (...). All’inizio del mio testo ho accennato a una risposta diversa dalla cancellazione (ciò che è ritenuto riprovevole deve essere lasciato al suo posto, altrimenti non saremo nemmeno in grado di spiegare criticamente ciò che è stato fatto...), quella d’innalzare, a contrasto con i monumenti che commemorano figure screditate, testimoni di un’altra parte della storia, in modo che si apra uno spazio di dibattito su uno sfondo di differenze su cui riflettere.<br>
È una pista che, almeno, riconosce e accetta che il sociale e l’umano richiedono una raffigurazione, consacrando lo spazio differito del culturale, del politico e del religioso. Riconosce che il passato può essere solo raccontato, in una narrazione che sovverte il dato per portarlo oltre e secondo una propria prospettiva. Questo gesto deve essere ripreso, sapendo che può testimoniare il meglio o essere l’occasione del peggio, e non deve essere soppresso o neutralizzato. Ma prima deve essere restituito e deve essere valutato ciò che ha generato, intenzionalmente o meno. Senza questo lavoro, da svolgere sulla base delle nostre differenze, saremo lasciati alle nostre soggettività e ai loro effetti, senza alcuna mediazione.<br>
</span></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">«Avvenire» di martedì 30 gennaio 2024</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-29066515376804468282024-01-16T15:46:00.003+01:002024-01-16T15:46:36.146+01:00Nuovi videoSul mio canale youtube ho inserito nuovi video legati alla letteratura latina.<br><br>
Nel dettaglio ti segnalo i video su Ennio, Catone e Terenzio.<br>
<iframe class="BLOG_video_class" allowfullscreen="" youtube-src-id="h_U_hLkTkN4" width="200" height="166" src="https://www.youtube.com/embed/h_U_hLkTkN4"></iframe><br><br>
Buono studio
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Postato il 16 gennaio 2023</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-65517080893136217552023-07-07T15:34:00.003+02:002023-07-07T15:34:54.022+02:00Il Genoa di Montale, l'Inter di Sereni: il calcio dei poeti, una passione in versi<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;"><em>L'autore di "Ossi di seppia" ostentatava pubblicamente indifferenza verso il gioco del pallone, ma Luciano Bianciardi sul Guerin Sportivo gli diede del bugiardo: "Mente, ogni domenica aspetta con ansia il risultato del Grifone". E Vittorio Sereni, interista "perso", ammise di star male fisicamente per la sua squadra e di aver deciso, "per viltà" di disertare il derby</em></span></div>
<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Lorenzo Catania</span></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">L’Italia, patria dei campanilismi, anche sportivi, era estranea al poeta Eugenio <b>Montale</b>, che, interrogato su quale squadra di calcio tifasse, rispondeva: "Non tifo per nessuna squadra. Non ho mai visto un incontro di calcio e sono assolutamente contrario ad ogni forma di campanilismo, ivi compreso quello sportivo". Sebbene questa risposta rispecchi il temperamento del poeta degli Ossi di seppia, lo scrittore Luciano Bianciardi, dalle pagine del “Guerin Sportivo”, dove teneva un rubrica di posta con i lettori, gli dava del bugiardo: "Montale è un enorme bugiardo: non è vero che non abbia mai veduto un incontro di calcio, e che sia contrario a ogni forma di campanilismo. Guarda la partita, alla televisione, tutte le domeniche, e aspetta con ansia il risultato del Genoa, perché è tifoso genoano incallito".<br>Non era tifoso incallito Umberto <b>Saba</b>, autore delle <i>Cinque poesie per il gioco del calcio</i>, andato per caso e per curiosità allo stadio, attratto dal tifo per la squadra della sua città, la Triestina, che negli anni Trenta del Novecento giocava e si difendeva bene nel campionato di serie A. In <i>Storia e cronistoria del Canzoniere</i>, Saba racconta che nell’autunno del 1933 diventa tifoso grazie a un giovane amico che una domenica gli cede il biglietto per assistere alla partita "fra la potentissima Ambrosiana - così è ribattezzata l’Inter pochi anni dopo l’avvento del fascismo, perché la parola Internazionale non piace al regime - e la vacillante Triestina", che si conclude con un pareggio senza reti. Quel giorno Saba, quando vede i giocatori della squadra cittadina uscire di corsa nel campo, si lascia contagiare subito dalla passione sportiva, dettata dalla corrispondenza fra l’entusiasmo del pubblico sugli spalti e gli "eroi" nel rettangolo verde: "Di corsa usciti in mezzo al campo, date / prima il saluto alle tribune. Poi, / quello che nasce poi / che all’altra parte vi volgete, a quella / che più nera s’accalca, non è cosa /da dirsi, non è cosa ch’abbia un nome". Lo spettacolo della folla, gli umori e le reazioni che esibisce sulle gradinate, speculare a quello che si svolge sul campo di gioco, offre al poeta l’occasione per accostarsi a una realtà semplice e vitale, di cui sa riprodurre con narrazione epica figure e gesti, che lo aiuta a uscire temporaneamente dalla condizione esistenziale dell’escluso, a essere "come tutti / gli uomini di tutti / i giorni": "Anch’io tra i molti vi saluto, rosso /alabardati, /sputati /dalla terra natìa, da tutto un popolo / amati. // Trepido seguo il vostro gioco. / [...]Le angosce, / che imbiancano i capelli all’improvviso, / sono da voi sì lontane!".<br>
A differenza di Saba che a cinquant’anni diventa “tifoso” un po’ per caso, il poeta Vittorio <b>Sereni</b> fin da giovane è un assiduo frequentatore della Civica Arena, e poi dello stadio di San Siro. Un interista "perso", al punto di stare fisicamente male per la propria squadra ed essere costretto "per viltà" a disertare il derby dopo un micidiale 4 a 4 del 6 febbraio 1949. Come Saba, Sereni è affascinato dal gioco del calcio inteso come festa popolare dotata di un senso che va oltre il significato sportivo. Spettacolo vibrante di colori e di suoni, come quello che lo spinge a raccontare nella poesia Domenica sportiva una sfida a San Siro tra l’Inter e la Juventus: "Il verde è sommerso in neroazzurri. /Ma le zebre venute da Piemonte /sormontano riscosse a un hallalì/ squillato dietro barriere di folla. / Ne fanno un rame bianconero. /La passione fiorisce fazzoletti / di colore sui petti delle donne. / Giro di meriggio canoro, / ti spezza un trillo estremo. / A porte chiuse sei silenzio d’echi / nella pioggia che tutto cancella". Sfida che procura al poeta, aperto alla vita, momenti di gioia che si oppongono alla negatività della storia. Ma quando l’incanto di suoni e di colori viene spezzato dal fischio finale dell’arbitro, chiosa Sereni nello scritto Il fantasma nerazzurro del 1964, il divertimento cede al malumore della festa finita e "un senso amaro di vacuità e quasi di rimorso" invade l’animo degli spettatori che svuotano le gradinate, sicché "l’enorme catino ormai silenzioso è l’immagine stessa dello sperpero del tempo". E tuttavia, scrive ancora il poeta, "Non credo che esista un altro spettacolo sportivo capace, come questo, di offrire un riscontro alla varietà dell’esistenza, di specchiarla o piuttosto rappresentarla nei suoi andirivieni, nei suoi imprevisti, nei suoi rovesciamenti e contraccolpi; e persino nelle sue stasi e ripetizioni; al limite nella sua monotonia".<br>Spesso nel "gruppetto di interisti scelti", guidato da Sereni, che nelle domeniche degli anni Settanta si reca allo stadio, ci sono il musicista Gino Negri e i poeti Giovanni Raboni e Maurizio Cucchi. Quest’ultimo, ispirato dalla squadra del cuore, scrive i versi della poesia intitolata “53”, dove l’inizio della passione calcistica, vissuta dall’autore-bambino come un apprendistato alla vita, e il ricordo dei suoi idoli calcistici (il portiere Giorgio Ghezzi e gli attaccanti Lennart Skoglund, Stefano Nyers e Benito Lorenzi) si mescolano all’amore-nostalgia per il padre suicida: "L’uomo era ancora giovane e indossava /un soprabito grigio molto fine. / Teneva la mano di un bambino / silenzioso e felice. / Il campo era la quiete e l’avventura, / c’erano il Kamikaze, il Nacka, l’apolide e Veleno. / Era la primavera del ’53, / l’inizio della mia memoria. / Luigi Cucchi/ era l’immenso orgoglio del mio cuore, / ma forse lui non lo sapeva".</span></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">«la Repubblica» del 7 luglio 2023</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-64258921530470046422023-05-01T10:58:00.002+02:002023-05-01T10:58:28.277+02:00Voglio nascere<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Alessandro D'Avenia</span></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Trimalchione, grottesco protagonista del <i>Satyricon</i> dello scrittore latino Petronio, durante un banchetto si vanta d’aver visto la Sibilla Cumana, la famosa profetessa di Apollo che, avendo domandato al dio il dono dell’immortalità si era però dimenticata quello dell’eterna giovinezza. E così continuava a invecchiare, tanto da essersi ridotta a una larva decrepita, bersaglio dei ragazzi del luogo che, passandole davanti, chiedevano: «Sibilla, che cosa vuoi?», e ai quali rispondeva sconsolata: «Voglio morire». Questa storia mi è tornata in mente perché domani festeggio il compleanno, il giorno in cui ricevere i doni giusti: non tanto l’immortalità ma magari l’eterna giovinezza, che i cavalieri di Artù cercarono nel Graal, gli esploratori spagnoli in una fonte d’acqua ai Caraibi, gli alchimisti nell’elisir di lunga vita, Faust e Dorian Gray nel patto col demonio, e noi nei ritrovati tecnico-medico-estetici, come l’imprenditore americano Bryan Johnson che, a 45 anni (i miei, per l’ultimo giorno), ha deciso di investire due milioni di dollari l’anno per uno staff di 30 persone che deve riportare il suo corpo all’età di 18 anni, sottoponendosi a una routine giornaliera da «paziente». Non mi attira il modello che fa della vita riuscita solo la vita «materialmente» giovane (vivere «da malati» per «morire sani») e quindi vorrei festeggiare questo compleanno con più gioia del precedente, perché 46 anni fa è stato solo l’inizio di una cosa che siamo chiamati a fare sempre di più. Nascere. Perché?<br>
Festeggio sì il mio aver cominciato a venire alla luce, ma ancor più il poter venire sempre più alla luce, perché vivere è impegnarsi a nascere del tutto, e non cercare di non morire, che mi sembra troppo poco, anche perché è ciò che facciamo senza proporcelo, per istinto. Quell’istinto che consente agli animali di nascere una volta per tutte al parto, fornendoli da subito di tutto ciò che devono essere e fare: conservarsi e riprodursi. A noi questa semplicità non è concessa. Infatti, per uno scherzo dell’evoluzione, ci mettiamo un tempo infinito a nascere del tutto, come mi dimostrano i due figli nati di recente a coppie di amici. Dopo mesi ancora non sanno fare nulla da soli, ci «mettono una vita» a nascere, forse proprio perché il nostro compito è «metterci una vita»: tutta la vita. Noi umani, se la prima volta nasciamo a nostra insaputa, poi siamo chiamati a nascere, per scelta, ogni giorno fino all’ultimo, tanto che siamo gli unici capaci di smettere di nascere, togliendoci la vita in vari modi, a dimostrazione che sull’istinto di conservarsi e perpetuarsi in noi prevale altro: la libertà. Il nostro compito non è quindi preservarci dalla morte, quello è il compito che ci dà la natura in quanto specie vivente: il compito umano è invece partorirsi, individuarsi, non essere solo rappresentanti «della specie» ma «speciali». In questo senso la vita è tutta iniziazione alla vita, venire sempre di più alla luce. Ma che cosa deve venire alla luce? Che cosa vorrei quindi festeggiare domani? Non il tempo che passa (che festa sarebbe?), ma quello che non passa. E quale non passa?<br>
Noi siamo fatti di tre tempi. C’è il tempo cosmico, quello circolare della natura, delle cose che tornano sempre come le stagioni. Poi c’è il tempo storico, lineare, fatto dagli eventi che si danno una volta sola (la primavera torna ogni anno, ma questa ci sarà solo nel 2023). Alcune culture, soprattutto orientali, cercano nel primo tempo la vera vita, diventare tutt’uno con il cosmo; altre, come la nostra, la cercano nel secondo, la vera vita è nel futuro, nel domani, più vivo e meglio è. Ma questi due tempi non mi bastano perché, in entrambi i casi, io non so che fine faccio: se sarò tutt’uno con il cosmo che ne sarà di me? Se la felicità è nel futuro, chi decide quando arriva? Allora vivo anche e soprattutto un terzo tempo, che chiamo del nascere, e che, mescolato ai primi due, è fatto di eventi che mi piace definire «brevi vite eterne». Da che cosa sono fatte? Innanzitutto dall’esperienza che in questo istante non mi sto dando la vita da solo, ma in qualche modo sono dato a me stesso, mi ricevo in dono. E poi da azioni creative (libere e originali), cioè che posso fare solo io. Questo è il tempo che non passa, Il tempo del nascere, fatto quindi di «essere da» (in questo momento la vita mi è data) e «essere per» (mi è data per crearne altra): sono nel tempo storico ma non aspetto il futuro, sono nel tempo cosmico ma sono irripetibile. Questo essere aperti «da» e «per» è «la fine del mondo» perché ne inaugura uno nuovo nell’istante presente. Come? Ricevendo e creando amore, liberamente. Non parlo dell’amore come qualità morale, ma come capacità di essere generati e generare, ricevere e dare più vita alla vita, essere e far essere qualcosa che altrimenti non ci sarebbe. Per esempio: scrivere questa pagina con amore significa farlo ricevendola dall’ispirazione e dando poi vita alle parole e alle persone che la leggono; fare una lezione con amore significa riceverla dalla storia umana e farla dando poi vita all’argomento e alle persone che ascoltano; fare una cena con amore significa riceverla dal tempo a disposizione e farla dando poi vita agli ingredienti e alle persone a tavola ... <br>Fare con amore significa ricevere e dare vita in ciò che si fa: l’istante diventa l’incrocio dell’amore ricevuto e dato. E così, anche se spesso non riesco e mi tradisco, ciò che in me è chiamato a nascere sempre di più viene alla luce, perché l’unica maniera di essere vivi è essere pieni di vita. Questo «terzo» tempo non lo cerco in angoli nascosti, in oggetti, sorgenti, elisir, patti, ma lo ricevo e lo creo, eternità di istanti. È il tempo dell’essere amati e dell’amare, se solo restituissimo a questo verbo la sua vertiginosa energia creativa: il potere di potere tutto. Quindi domani proverò a non festeggiare il «ritorno» di una data, tempo cosmico, né il mio «progresso» in un futuro a scadenza, tempo lineare, ma il tempo della creazione, essere creato e creare. Sarà un martedì «qualunque», quello che torna ogni settimana, e sarà l’unico martedì 2 maggio 2023, ma sarà soprattutto la vita che solo io posso ricevere e fare, piccola, ordinaria, semplice, ma quella che solo io «posso nascere».</span></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">«Corriere della sera» del 1° maggio 2023</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-33600153332869966772022-12-16T20:10:00.003+01:002022-12-16T20:10:57.135+01:00C'è anche un profitto buono e non si chiama mai usura<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Luigino Bruni</span></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">C’era un tempo in Europa quando i Papi emettevano Bolle per risolvere controversie su banche e interessi. Quando "l’economia della salvezza" e "la salvezza dell’economia" erano entrambe al centro dell’impegno dei cristiani, dell’intelligenza dei teologi, dell’osservazione della pubblica opinione. Quando i dibattiti sull’eucarestia e quelli sulla legittimità dell’usura avevano la stessa dignità teologica e umana, perché la Chiesa e la gente sapevano bene che si viveva e si moriva anche per la mancanza di credito o per troppi prestiti cattivi.<br>
Dibattiti talmente accesi che fu necessaria una Bolla papale per chiudere (senza riuscirci del tutto) la lunga controversia attorno ai Monti di Pietà. La querelle riguardava in particolare il prestito a interesse che praticavano quei banchi, che gli avversari consideravano usuraio. Leone X, pur riconoscendo come possibili le ragioni degli oppositori, definì legittimo per quelle banche richiedere il pagamento di un interesse sul prestito, «purché destinato esclusivamente a le spese degli occupati e di altre cose attinenti al mantenimento dell’organizzazione, purché non ne venga ricavato alcun profitto» (<i>Inter Multiplices</i>, 1515). La bolla affermava dunque che i Monti non incorrevano nel peccato di usura («pecunias licite mutuant»), che non erano istituzioni usuraie per il solo fatto di chiedere il pagamento di un interesse (in genere attorno al 5% annuo). La stessa Bolla ribadiva la definizione dell’usura: «Perché questo è il vero significato dell’usura: quando una cosa produce guadagno per il solo uso della cosa stessa ("ex usu rei"), senza alcun lavoro, alcuna spesa o alcun rischio». Alcun lavoro ... alcun rischio.<br>
Il prestito a interesse dei Monti di Pietà venne considerato non usuraio a condizione dunque che l’interesse non fosse espressione di uno scopo di lucro, ma il legittimo rimborso delle spese di funzionamento della banca. Tanto che, nell’ultima sessione della Bolla, Leone X non manca di specificare che l’ideale resta il non-pagamento dell’interesse (almeno parziale) da parte dei poveri, quando fondi pubblici o filantropici potessero coprire le spese di gestione in modo che non farle gravare «interamente sui poveri». Il centro della polemica era dunque lo scopo di quell’interesse, lo "spirito" di quella piccola somma aggiunta al capitale. Lo spirito non doveva essere il lucro, ma la copertura dei costi.<br>
Ma era proprio questo "spirito" a essere messo in questione dagli oppositori dei minori francescani. Tra questi il monaco Nicolò Bariani, piacentino, che nel 1494 pubblicò un libretto che fece molto rumore: <i>De Montis Impietatis</i>. Bariani era agostiniano, quindi formato alla visione biblica e patristica su denaro e interesse. Per lui ogni somma di denaro restituita che eccedeva il capitale prestato era usura, quindi illecita, incluse quelle dei Monti di Pietà. I francescani invece distinguevano. Come? E in base a quale "teoria" potevano distinguere un fiorino usuraio da uno legittimo?<br>
Ciò che è certo è che quel dibattito tra teologi su economia e usura fu molto appassionante, controverso, duro, aspro, fin dal XIII secolo. Ma soprattutto fu geniale, e ci lascia ancora sbigottiti a distanza di molti secoli per l’intelligenza e la ricchezza. I francescani, prima di essere teologi, erano attenti osservatori della realtà, soprattutto quella delle nuove città italiane ed europee; erano meno interessati alle dispute astratte e deduttive (incluse quelle aristoteliche), e molto più alla comprensione dei comportamenti effettivi della gente. Per questo osservavano le prassi dei mercanti, conoscevano i cambiamenti economici e civili in un tempo molto dinamico. E facevano un’operazione essenziale in ogni tentativo di comprensione della realtà complessa: il discernimento. Distinguevano, separavano, facevano ordine tra fenomeni che potevano apparire simili in certe cose ma erano molto diversi in altre, e quali cose-dimensioni erano davvero quelle decisive in quel dato tempo e in quel dato luogo. In quei laboratori che erano le città mercantili dei secoli XIII-XV, capirono, ad esempio, che il mercante che nel contratto include nel prezzo del bene un valore aggiunto per compensarlo dal rischio di imprese molto incerte via mare o terra, o il cambiavalute che a Genova o a Venezia doveva tener conto delle oscillazioni delle monete e delle inflazioni, facevano mestieri diversi dal prestatore professionista di denaro a usura che se ne stava tranquillo e al caldo nel suo banco (come affermava Alessandro d’Alessandria, <i>Tractatus de usuris</i>, inizio XIV sec.). Tutti e tre pagavano o chiedevano interessi sul denaro, è vero, e questo elemento comune era sufficiente a molti monaci predicatori per condannarli tutti come usurai; ma, dicevano i francescani, le tre situazioni erano molto diverse nella sostanza benché simili nella forma. E questo fa emergere qui il gran tema della differenza tra profitto e rendita.<br>
<b>Prima di tutto, però, dobbiamo prendere sul serio una strana amicizia medioevale, quella tra i francescani e i mercanti</b>. Francesco inizia la sua storia in Assisi distinguendosi e rifiutando l’economia di suo padre Bernardone, un mercante; i francescani, poco dopo, si ritrovano alleati dei mercanti nelle città italiane e europee del Duecento e Trecento. Altro paradosso generativo. Intanto c’è, anche qui, un dato concreto: diversamente da altri ordini religiosi, i francescani avevano sviluppato più di altre famiglie religiose, fin dai tempi di Francesco, un ordine secolare: il Terz’Ordine. Avevano dentro la loro comunità carismatica dei laici, e tra questi molti mercanti. Li conoscevano, erano loro fratelli. Prima di giudicarli erano i loro amici, e ne conoscevano il cuore. Non è da escludere che le prime parole buone sul mercato e sul profitto siano nate durante qualche pasto di fraternità, quando qualche mercante-fratello si era confidato con loro parlando del suo mestiere difficile e anche rischioso. E avendo visto l’anima di un mercante quei teologi hanno visto un’anima diversa del mercato. Hanno prima amato e stimato i mercanti poi i mercati. E così li hanno capiti, ieri e oggi, perché non c’è vera conoscenza senza amore-agape. In tutto questo c’è un forte messaggio di teologia cristiana: la storia non è fiction, la Provvidenza parla anche dentro gli avvenimenti concreti, lo Spirito spira pure dentro un contratto di un commerciante e nella bottega di un artigiano.<br>
E così, guardando e amando il mondo, essi si accorsero che quei mercanti non erano usurai, anche quando dovevano chiedere o pagare interessi. Ecco il tema dello spirito di quel lucro, dello spirito di quel capitalismo. E da lì si convinsero che era la stessa idea di condanna formale e astratta dell’interesse sul denaro che andava ripensata, perché non tutti gli interessi erano uguali. C’era un tipo di interesse che era soltanto giusta compensazione per alcuni aspetti inerenti alla stessa attività economica e commerciale. Capirono che se i mercanti non includevano la remunerazione del rischio dentro i loro contratti, quell’attività non si poteva sviluppare, e sarebbe stato un grave danno per le città - <b>i francescani avevano ben chiara la funzione di Bene comune dei mercanti onesti</b> (i "boni" mercanti). Pagare un premio assicurativo per le imprese marittime (<i>foedus nauticus</i>) o a chi prestava i capitali per una lunga missione commerciale in Oriente, era ben diverso dal prendere denaro a usura da un banco. Ciò che era usuraio era lo spirito, non la somma materiale di denaro in sé pagata per interesse, perché qualche volta quel denaro era semplicemente una componente collaterale, necessaria e buona di alcune operazioni imprenditoriali.<br>
Se, poi, quel mercante si trovava nelle condizioni di poter prestare del denaro ad altri mercanti - mercanti e banchieri all’inizio erano attività molto intrecciate -, ecco fare la sua comparsa un’altra buona ragione per chiedere un pagamento di un interesse: il lucro cessante. Se, cioè, il mercante Lapo presta 1.000 fiorini al collega Duccio e così rinuncia lui stesso a usare quei denari, è lecito che Duccio ricompensi con un interesse Lapo per il guadagno che il suo collega non ha potuto ottenere a causa del suo prestito - l’equivalente del moderno "costo opportunità". Questo interesse è dunque buono, a condizione però che chi prestava il denaro fosse un mercante e che quindi l’uso alternativo ipotetico fosse un uso produttivo, non sterile prestito. Ciò che sembrava essere usura, nel caso di buoni mercanti era invece solo il compenso per l’incertezza, per l’inflazione, la variabilità dei mercati. Tanto che in molte città i mercanti erano annoverati tra i pauperes, sebbene non indigenti, perché dipendenti radicalmente dall’incertezza.
Eccoci allora alla distinzione decisiva: quella tra profitto e rendita, oggi totalmente dimenticata. Per quei francescani teologi ed economisti se l’interesse ha la natura di profitto del buon mercante è lecito; se invece quella stessa somma di denaro ha la natura di rendita, è usura. Il profitto è la remunerazione per l’attività lecita e rischiosa del mercante, un guadagno che giunge come premio del suo lavoro, rischio, della perizia, dell’innovazione, del suo prezioso mestiere. La rendita invece è un guadagno che giunge per il solo fatto di esercitare una posizione di potere sul denaro, senza lavoro e senza correre alcun vero rischio d’impresa. Ecco perché fra Angelo da Chivasso, discutendo delle penalità pecuniarie che potevano essere aggiunte a un mutuo per tutelarsi dalla ritardata restituzione, afferma che si tratta di una pretesa legittima, a meno che ad avanzare tale richiesta sia una persona che «abitualmente presta a usura».<br>
Ma come si fa a distinguere il tipo di mercante che presta denaro? È qui che i canonisti e teologi francescani diedero il loro meglio, scrivendo lunghe digressioni sulle eccezioni dell’usura e sulle mille casistiche concrete. Un ruolo essenziale lo svolgeva sempre la fama, un giudizio collettivo espresso da una comunità esperta composta dai mercanti onesti. Non capiamo l’etica economica medioevale e della prima modernità senza questa dimensione collettiva del mercato e dei mercanti. Il corpo sociale, con la sua intelligenza diffusa sapeva distinguere un usurario da un mercante. Nell’economia, e in ogni ambito complesso della vita, l’attività economica che uccide e quella che fa vivere si intrecciano ogni giorno, in ogni luogo. Solo chi sa entrare, per amore della propria gente, nelle midolla vive di questo intreccio riesce a servire l’economia e la vita. Il resto è, ieri e oggi, astratto moralismo, che finisce quasi sempre per nuocere alle persone oneste. Tutto questo l’Economia di Francesco lo sapeva, l’Economia di Francesco lo sa.</span></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">«Avvenire» del 21 novembre 2020</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-7539668397385833572022-12-01T11:37:00.003+01:002022-12-01T11:38:17.665+01:00Aiuto, i nostri romanzi hanno perso le emozioni<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Elena Dusi</span></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Lo "spirito del tempo" è ineffabile per definizione. Ma un motore di ricerca - anche in questo - può essere d'aiuto. Prendiamo Google e i cinque milioni di libri pubblicati tra il 1900 e il 2000 che sono stati digitalizzati e riposano nella sua pancia. In questi 500 miliardi di parole, nel corso del secolo, le espressioni legate alle emozioni sono diventate sempre più rare. I libri che trasudano sentimento non mancano certo, eppure pochi di noi esiterebbero a definire il nostro "spirito del tempo" come orientato verso un progressivo inaridimento.<br>
Le galassie di parole legate a rabbia, disgusto, paura, gioia, tristezza e sorpresa sono diventate sempre più rare nei nostri libri. Lo ha calcolato un gruppo di antropologi e informatici coordinato dall'università di Bristol. A resistere è solo la paura. La presenza della più ancestrale fra le nostre emozioni è scesa nel corso del secolo, ma siè ripresa dagli anni ' 80. E la curva della gioia - si legge nello studio uscito oggi sulla rivista Plos One - segue un andamento sorprendentemente vicino agli avvenimenti storici del '900. Le espressioni di felicità in letteratura aumentano nei primi due decenni del secolo per poi inabissarsi con la Grande Depressione e l' arrivo delle dittature fino al conflitto. Il dopoguerra segna una ripresa, annullata negli anni '70.
<br>Al ritorno di un certo ottimismo si assiste dagli anni '80 al 2000. «Abbiamo fotografato un andamento. Non ci azzardiamo a dare interpretazioni» spiega Alberto Acerbi, antropologo all'università di Bristol e coordinatore dello studio. «Le parole che esprimono emozioni hanno subito un calo eclatante. I dati sono nitidi, specialmente in corrispondenza degli eventi storici. Ma per legare le nostre osservazioni all'emergere di correnti letterarie avremmo bisogno dell'aiuto degli esperti». Lo studio è limitato ai libri pubblicati in inglese.
<br>Per quanto riguarda l'Italia, il linguista Tullio De Mauro ha un'impressione diversa. «Studiare la frequenza dell'uso delle parole può aiutarci a capire come varia una cultura. Ma se dovessi dare un giudizio sulla lingua italiana, direi che è sempre più ricca di espressioni legate a sentimenti e di termini astratti. Crescono in maniera sorprendente le parole emotive e volgari insieme. L'"Antilingua" descritta da Italo Calvino (l'italiano astratto e vuoto parlato dal brigadiere) ha preso il sopravvento sulla lingua concreta del portiere. È come se chi scrive in italiano fosse preda di una sorta di "terrore semantico"».
<br>Scavando in quella zuppa di parole che Google ha riversato nel suo database (i libri, pari al 4 per cento di tutti i volumi stampati nella storia, sono stati digitalizzati, ma non sono leggibilie l'elenco dei titoli è segreto per non violare i diritti d' autore), è emerso anche che la letteratura americana resta più emotiva rispetto a quella british. «Mentre in Gran Bretagna andavano le storie di spionaggio di Le Carré e Fleming, gli Usa avevano Vonnegut e Vidal» spiega Acerbi. In passato con metodi simili si era visto che l'"umore" degli utenti di Twitter può essere usato per prevedere la borsa o i risultati elettorali. Che diventare famosi oggi è molto più facile rispetto a un secolo fa, ma la popolarità ha durata brevissima. Che Dio non è morto, ma appare un terzo delle volte nei nostri libri rispetto al 1850 e che le canzoni rock americane dagli anni '80 usano spesso la parola "io", poco il "noi" e sono sempre più ricche di "odio", "uccidere" e "vaffanculo". Lo spirito del tempo, chiaramente.</span></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">«la Repubblica» del 21 marzo 2013</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-55048096080292297132022-09-21T17:14:00.001+02:002022-09-21T17:14:36.323+02:00La politica di Sancho Panza<div align="center"><span style="font-family: verdana; font-size: 85%;">di Alessandro D’Avenia</span></div>
<div align="justify"><span style="font-family: verdana; font-size: 85%;">Quando il duca e la duchessa d’Aragona sentono parlare di don Chisciotte e dello scudiero Sancho Panza vogliono burlarsi di loro e così creano false avventure per i due bizzarri protagonisti del romanzo di Cervantes. Tra questi inganni c’è quello di assegnare a Sancho ciò che ha sempre desiderato e che il suo padrone gli ha promesso per i suoi servigi: un’isola.<br>
E così i duchi affidano a Sancho la fantomatica isola di Barattaria, finzione che lui crede reale perché viene insediato in un sontuoso palazzo — si tratta solo di uno dei palazzi dei duchi in un abitato di mille abitanti — da cui governare ciò che non ha mai visto di persona. L’episodio di Sancho, nella seconda parte del capolavoro di Cervantes, mi è tornato in mente come sintesi di una campagna elettorale fatta di promesse spesso illusorie e di politici che non sono diversi da noi che ce ne lamentiamo sempre, ma rispecchiano, nel bene e nel male, chi e come siamo.<br>
Così un contadino si ritrova governatore di un’isola che è solo la finzione creata dai veri potenti per farsi beffe di lui che si illude di poterla amministrare standosene a palazzo, tanto da scrivere alla moglie: «Tra pochi giorni partirò per il governo, a cui vado con un vivissimo desiderio di far quattrini». L’episodio mette a nudo, con tragica ironia, sia il volto stupido sia quello oppressivo del potere. Come va a finire?<br>
Il potere (come sostantivo) serve a porre altri in condizione di potere (come verbo). Il mio potere di insegnante ha lo scopo di mettere i miei studenti in condizione di poter essere se stessi e procurarsi autonomamente ciò che serve per riuscirci per poi mettersi, con la loro unicità, a servizio della società. Se il potere non ha questo effetto generativo, diventa controllo ed è degenerativo: non rende l’altro se stesso ma lo usa e lo rende impotente, sterile.<br>
La politica è quindi quella parte delle creazioni umane (cultura) che consente di armonizzare l’unicità dei singoli con la società: dà la possibilità di scoprire e mettere al servizio della comunità il modo irripetibile in cui l’umano si realizza in ciascuno di noi. Se questo non accade è perché il potere è tanto tirannico quanto burocratico, cioè per chi lo detiene è «il potere per il potere», il fine è affermare se stessi e la comunità un mezzo, per chi è sottomesso è «il potere di nessuno», che ostacola e blocca l’iniziativa personale perché non ha nessun desiderio che altri abbiano potere.<br>
Se è vero che la politica serve a incoraggiare la creatività e l’azione personali, liberandole da ciò che le blocca, allora oggi la politica conosce una crisi profonda. A scuola, per esempio, ci sono problemi incancreniti da decenni che, seppur evidenti, non vengono affrontati: lo Stato si riduce a un participio passato. Di fronte all’impossibilità di risolvere questi problemi con un po’ di coraggio e buon senso, il popolo si disaffeziona alla politica che appare superflua e diventa propaganda, come dimostra una campagna elettorale ridotta spesso a televendita. Invece il politico, e in generale qualsiasi creatore, è colui la cui immaginazione e opera sono capaci di attivare l’azione assopita degli altri uomini, accendendo focolai creativi: genera perché è generoso.<br>
In queste settimane ho visto pochi atti creativi che metteranno in moto un futuro e molte promesse di «piacere». Il piacere è la strategia della natura per l’autoconservazione, l’azione politica è chiamata invece ad andare oltre il mantenimento dei più forti e a spezzare con il nuovo (dalla ruota alla democrazia, dal fuoco alla letteratura) le catene del «è tutto inutile».<br>
Oltre alla rara presenza di un discorso che esuli dal pragmatismo dell’immediato di stampo quasi esclusivamente economico, non ho ascoltato quasi nulla di «creativo» nei due ambiti culturali su cui misuro la civiltà di una società: ospedali e scuole. I luoghi della cura rendono subito evidente quanto si è capaci di guidare una comunità. Oggi per fare un esame clinico urgente bisogna aspettare mesi, vari studenti hanno iniziato l’anno scolastico senza i professori di alcune materie, diversi alunni con bisogni specifici non hanno l’insegnante di sostegno... Come fa il cittadino a vivere creativamente se è tutto impegnato a sopravvivere?<br>
Al mattino del giorno in cui gli spararono (il 15 settembre 1993), Padre Pino Puglisi, professore di religione del mio liceo ucciso dalla mafia quando iniziavo il quarto anno, era andato per l’ennesima volta negli uffici del comune a chiedere che, in un quartiere popoloso come Brancaccio di cui era parroco, si aprisse una scuola media nei locali dove la mafia svolgeva attività di spaccio e prostituzione. Quella scuola è stata aperta solo dieci anni dopo perché i politici locali erano collusi con la mafia: c’è voluta la vita di un uomo per aprire un «nuovo» corso. Leggo in queste ore che le opere per evitare le esondazioni del Misa che ha travolto tante vite nelle Marche sono state finanziate nel 1986 ma sono rimaste ferme. È triste ma da noi finché non muore qualcuno la politica non si muove.<br>
«Lasciatemi tornare alla mia antica libertà: lasciatemi andare a ricercare la mia vita passata. Io non sono nato per fare il governatore. Io son fatto più per arare, zappare, potare le viti, che per fare leggi e difendere province e regni. San Pietro sta bene a Roma! Con questo voglio dire che ognuno deve fare il mestiere per cui è nato. Sono venuto senza un soldo e senza un soldo me ne vado; tutto al contrario di come son soliti andarsene i governatori di altre isole. Siccome vado via da qui senza un soldo, questa è la prova più evidente che ho governato come un angelo». Così si pronuncia Sancho Panza dopo il suo fallimento nel governare la finta isola di Barattaria: pochi giorni dopo l’inizio del suo incarico, ammette di aver cercato solo potere e quattrini, ma scopre che per governare servono dedizione e servizio. È onesto con se stesso: va via senza un soldo. Immaginate se un politico dovesse restituire i soldi dello stipendio a fronte della mancata realizzazione di ciò che ha promesso nel programma per cui è stato votato.<br>
Il mio stipendio a scuola è giustificato dal fatto che i miei studenti crescono in cultura e libertà, altrimenti devo andare a fare altro. Nella scuola in cui insegno prendiamo i ragazzi al primo anno di superiori e li portiamo alla maturità, si chiama continuità didattica e permette di fare un progetto educativo paziente e attento in cui al centro c’è il singolo ragazzo e non un cervello senza storia e senza corpo.<br>
Quella della continuità didattica è una scelta «politica»: consente di suscitare l’energia creativa dei ragazzi meglio del continuo cambiamento dei docenti. Quando vedo sbocciare i loro «poteri» faccio politica e non esercito un potere fine a se stesso, burocratico e tirannico. La buona politica genera «essere» negli e dagli altri, perché libera il potere dell’altro, non seduce e non controlla con il piacere o con la violenza. Mi auguro che chi la settimana prossima riceverà il compito di governare il nostro Paese abbia capacità e coraggio per fare ciò che ogni genitore responsabile farebbe per un figlio, e non governi, come Sancho Panza, per far quattrini su un’isola che non ha mai visto e se ne sta in un palazzo che è una tragica finzione ordita dai duchi, che si fanno beffe di un povero contadino e rappresentano il vero potere, che gode della propria autoaffermazione con oppressione, menzogna e disprezzo.<br>
Nel romanzo di Cervantes lo scrittore Milan Kundera vede giustamente l’inizio della modernità: «Don Chisciotte uscì di casa e non fu più in grado di riconoscere il mondo. L’unica Verità divina si scompose in centinaia di verità relative, che gli uomini si spartirono fra loro. Nacque così il mondo dei Tempi moderni». Oggi siamo al capolinea di questi tempi di spartizione, infatti si è esaurito l’umanesimo che li aveva inaugurati sopravvalutando il potere autonomo dell’uomo (da creatura a creatore) e il conseguente stile «onnipotente» di dominio su cose e persone, con effetti evidenti in ogni ambito: dall’ecologia alla politica. Spero che chi ci governerà appartenga a un nuovo umanesimo in cui il potere non è dominio ma creatività, non controllo ma servizio, non monologo ma dialogo, non palazzo ma comunità, e che a differenza dell’isola che non c’è di Sancho governi sulla Penisola che c’è. Lunedì prossimo la rubrica sarà in pausa per dar spazio proprio agli esiti elettorali che guarderemo, silenziosi e speranzosi, dal nostro ultimo banco. Buon voto a tutti.<br>
</span></div>
<div align="right"><span style="font-family: verdana; font-size: 85%;">«Corriere della sera» del 19 settembre 2022</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-74829784034672853092022-07-20T22:03:00.005+02:002022-07-20T22:03:32.534+02:00La storia degli uomini che tentarono di uccidere Hitler. E perché l’Operazione Valchiria fallì<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;"><i>Il tentativo di uccidere Hitler avvenne il 20 luglio 1944 a Rastenburg. E dimostrò come il tiranno può essere sconfitto solo dalla politica</i></span></div><div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Carlo Galli</span></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">"Chiedo al mondo di accogliere il nostro martirio come una penitenza del popolo tedesco". Così Carl Goerdeler, ex borgomastro di Lipsia, mentre veniva impiccato, il 2 febbraio 1945, dopo essere stato torturato per mesi dalla Gestapo. Era coinvolto ai livelli più alti (avrebbe dovuto essere il nuovo Cancelliere) nella Operazione Valchiria, la cospirazione prevalentemente militare che era arrivata a fare esplodere una bomba quasi ai piedi di Hitler, a Rastenburg, la remota località della Prussia orientale in cui il Führer aveva installato il proprio quartier generale, la "Tana del lupo".<br>
L'attentato del 20 luglio 1944, eseguito materialmente dal colonnello Claus von Stauffenberg, fallì: il demonio protesse Hitler per l'ultima volta. Una serie incredibile di circostanze fece sì che la bomba provocasse pochissimi morti, e il lieve ferimento del dittatore. Una vendetta terribile colpì i congiurati, che non avevano organizzato con la necessaria precisione il piano Valchiria, cioè le mosse immediatamente seguenti la prevista morte di Hitler (occupazione di ministeri, radio, neutralizzazione delle SS e della Gestapo). Persa l'iniziativa a causa dell'insuccesso dell'attentato, alcuni furono fucilati la notte stessa nella caserma della Bendlerstrasse dove risiedeva il comando dell'Esercito di Riserva, a cui appartenevano i principali cospiratori; altri, in Germania e in Francia, furono catturati e costretti a parlare.<br>
Ebbe così inizio una catena di suicidi, spontanei o coatti (fra cui anche quello di Rommel) e di deferimenti al "Tribunale del popolo", presieduto dal giudice Freisler, un mostro di fanatismo che condannò a morte generali e politici. Cinquemila furono gli inquisiti, almeno duecento gli uccisi - appesi a ganci da macello, e filmati durante l'agonia perché Hitler potesse gustare la proiezione nei dopocena - ; i parenti dei congiurati vennero internati nei campi, poiché condividevano il sangue dei "traditori".<br>
Ma chi erano i coraggiosi che osarono attentare al tiranno? Perché agirono nell'estate del 1944, e con quali fini? Era ormai chiaro che la Germania stava perdendo la guerra: impegnata su tre fronti terrestri, virtualmente priva di Marina militare, progressivamente tagliata fuori dalle fonti di approvvigionamento energetico e di materie prime, e, nonostante i successi organizzativi del ministro Speer, in procinto di vedere i bombardamenti radere al suolo le proprie industrie e le proprie città.<br>
L'obiettivo dei congiurati era di sostituire i vertici dello Stato, disarmare le SS, neutralizzare il Partito, e firmare un armistizio a Ovest, continuando a combattere a Est contro le "orde" bolsceviche e così salvare l'Europa dal comunismo. Un progetto di grande conservatorismo e di disarmante ingenuità. Era infatti evidente che mai gli Alleati avrebbero siglato una pace separata con la Germania, e che mai sarebbero venuti meno alla linea della "resa incondizionata". I congiurati non avevano capito quello che invece era chiaro a Hitler: che la guerra era un'avventura senza ritorno.<br>
La loro origine sociale (prevalentemente, la nobiltà militare), il loro passato (per molti - ma non per tutti - di iniziale cauta simpatia per il nazismo, in chiave nazionalistica, a cui era seguito un allontanamento dal regime per ragioni morali), la sincera fede religiosa di parecchi di loro (protestanti e cattolici), la riluttanza a infrangere il giuramento di fedeltà a Hitler (che come tutti i militari avevano prestato), la loro struttura mentale poco elastica, anche se retta; tutto ciò rendeva difficilissima la gestione di una congiura che anche agli occhi dei nemici della Germania parve strumentale - volta a salvare il salvabile del Reich, alle cui élite i congiurati appartenevano, condividendo quindi, oggettivamente, le compromissioni delle classi dirigenti tedesche.<br>L'errore nel quale, nonostante il loro disperato coraggio e il loro odio verso il regime, erano caduti, è stato credere che il tirannicidio fosse la soluzione di una gravissima crisi politica e morale. Ovvero che il tiranno fosse solitario, e non il vertice di un sistema politico e sociale, e il frutto di una storia; che fermare le sue azioni equivalesse a fermare la catastrofe. La quale, al contrario, anche se l'attentato non fosse fallito, avrebbe certamente avuto luogo in altre forme, finché non fosse stata del tutto stroncata, dall'esterno, la spinta propulsiva del regime che sorreggeva il tiranno. Il totalitarismo genocida non coincideva con una persona, nemmeno con quella di Hitler: era immerso in dinamiche politiche, interne e internazionali, che avevano lontane origini e che non potevano non consumarsi fino in fondo. Neppure sacrificando Hitler si poteva evitare la sconfitta e riscattare l'onore della Germania.<br>Il tirannicidio è consentito da san Tommaso, dietro severe condizioni e riflessioni. Ma la sua eventuale liceità morale non è sufficiente a farne uno strumento di risoluzione delle questioni politiche. Chi, in circostanze molto diverse da quelle di quasi ottant'anni fa, è oggi sfiorato da simili fantasie esprime una comprensibile ripugnanza per guerre, autoritarismi, ingiustizie, ma non va al di là di una posizione morale. Morale, e altissima, fu anche la testimonianza dei congiurati del 20 luglio: chiedere perdono, pagare con la vita, ha lasciato un seme di libertà e di responsabilità, nella storia e nelle coscienze dei tedeschi e degli europei. Ma per sconfiggere i tiranni non basta la scorciatoia, sempre tardiva, del tirannicidio - e, d'altra parte, oggi non ci si può certo augurare che una guerra mondiale cancelli il Male nelle sue molteplici incarnazioni. Come un processo politico, e gli errori di molti, li ha generati, così i tiranni vanno combattuti con la politica, attivando tempestivamente e concretamente, con determinazione e lungimiranza, dinamiche necessariamente complesse che diano, sempre, una chance reale alla democrazia e alla giustizia.
</span></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">«la Repubblica» del 19 luglio 2022</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-81685109325040010792022-06-05T18:25:00.000+02:002022-06-05T18:25:04.280+02:00Gli abiti decorosi da avere a scuola<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;"><em>A scuola si va per confrontarsi con le idee, con la storia, con l’etica, con la memoria e l’abito deve adeguarsi alla dignità che suggerisce il luogo. La scuola è un tempio laico, dove si crea il futuro del Paese e quindi va rispettata e onorata</em></span></div>
<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Dacia Maraini</span></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Siamo veramente liberi di vestirci come vogliamo? Credo che in questa asserzione di libertà ci sia un inganno. Noi in realtà non ci vestiamo come ci pare, ma come pare alla moda. Provate a chiederlo a una costumista del cinema. Lei saprà riconoscere un decennio dai vestiti che si usavano all’epoca: gli anni 60, gli anni 80, gli anni 2000, eccetera. Nessuno sfugge alla moda. Come spiegare altrimenti i blue jeans stracciati e bucati che non si sono mai visti primae che ora portano con noncuranza tantissime ragazze e ragazzi,? Come spiegare i tatuaggi sulle braccia, sul collo, sulle gambe in bella vista? Come spiegare i capelli rasati sulle tempie e sbuffanti in alto come un bauletto per i maschi e le pettinature alla madonna, lisci sulle orecchie che finiscono coi riccioli sul collo per le femmine? Come spiegare le scarpe firmate, il colore viola che viene gettato sul mercato un anno e l’anno dopo il colore verde, eccetera?<br>
I vestiti parlano, rappresentano un linguaggio molto evidente e quasi mai riguardano la libertà personale. Di solito suggeriscono linguaggi che vogliono rappresentare la seduzione, ma in maniera semplificata e stereotipata. È il mercato che diffonde l’uso di un abito e noi ci adeguiamo bene o male, perché il conformismo fa parte del nostro comportamento sociale. Nessuno vuole rimanere indietro rispetto alle novità in fatto di abiti e colori.
Detto questo anche la moda in qualche modo suggerisce un linguaggio diverso secondo i luoghi che si vogliono frequentare. Non si va in chiesa vestiti come per andare in palestra, così come non si va a un matrimonio con abiti da casa, e non si va in viaggio vestiti come per ballare in un locale notturno, e non ci si presenta a un esame con gli infradito ai piedi.<br>
Che la scuola abbia perso la sua sacralità purtroppo lo dimostra proprio questa idea che la si possa frequentare senza nessun riguardo per quello che rappresenta. E non parlo di compostezza, contegno, pudore, come dice il vocabolario descrivendo la parola «decenza» ma di rispetto per una casa del pensiero dove ogni altro linguaggio dovrebbe tacere per lasciare spazio alla difficile arte dell’apprendimento.<br>Credere che sia libertà l’adeguarsi a una moda sciatta, cinica che mette sul mercato il corpo femminile come oggetto di predazione è un equivoco purtroppo poco compreso.<br>
La moda non sfugge a una antica idea di divisione dei ruoli sessuali. A volte, quella piu intelligente e personale, gioca col teatro. Lo vediamo nelle sfilate che diventano sempre piu stravaganti e improbabili come abiti da indossare, suggerendo voglie di gioco e di travestimento.<br>
Rimane il fatto che ogni luogo pretende un suo linguaggio. E rispettarlo non significa mancanza di libertà, ma al contrario vuol dire riconoscere la specificità dell’occasione. Tenersi alle regole, anche quelle non scritte, non è segno di conformismo, ma anzi, di grande lealtà verso le istituzioni e di quello che rappresentano. Un paese senza istituzioni va alla deriva, in preda al piu prepotente. Le istituzioni sono alla base della democrazia e non tenerne conto è pericoloso.<br>
La scuola è una istituzione sacra. A scuola si va per confrontarsi con le idee, con la storia, con l’etica, con la memoria e l’abito deve adeguarsi alla dignità che suggerisce il luogo. La scuola è un tempio laico, dove si crea il futuro del paese e quindi va rispettata e onorata.<br>
Se però è vero che la preside (preferisco usare questo termine al posto di dirigente, perché credo che la scuola debba formare e non produrre) ha detto le parole riportate dai suoi allievi, non posso che mettermi dalla parte degli studenti. Non si tratta più di «decoro» o «pudore» ma di disprezzo per un corpo fuori dai canoni di bellezza che suggerisce il mercato.<br>
Non si tratta di una questione di «cellulite», di «sederi», di «tette», come si è scritto, ma di pensiero. Il linguaggio di un luogo dedito alla riflessione e alla conoscenza vuole una discrezione che riguarda la serietà dell’impresa di apprendimento e non altro. Anche il pensiero dei dirigenti ha un linguaggio e quello della preside, sempre che sia vero ciò che si riferisce, lo trovo fuori luogo e sprezzante. Non è denigrando la ragazza grassa o la esibizionista con la cellulite che si chiarisce una idea di decoro. La scuola è il luogo della piu grande libertà, ma di una libertà che non riguarda la moda e il mercato, bensì la necessità di imparare a pensare con la propria testa, difendendo la dignità dell’immaginazione, che di solito è ben lontana da quella che suggerisce una moda subdola e vorace.</span></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">«Corriere della sera» del 5 giugno 2022</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-20356326490480668792022-01-21T10:52:00.003+01:002022-01-21T10:52:54.462+01:00Nei film di animazione ci sono troppi balletti?<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;"><em>La tendenza a far esibire sempre di più i personaggi in coreografie sembra studiata per i social media e gli adattamenti teatrali: come dimostra <i>Encanto</i>, l'ultimo film Disney. Tutto questo però va a scapito della qualità</em></span></div>
<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Jason Kehe</span></div><div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEinGVstoWkpyKF96SY4L2HX7AIa3RLUsfyOL3dHHzrBChM-IkuuEGHS7cheKmflCyErK0CVjpuwUxILCUR0_p9hMwJlz-aIpWPPVte13e7M6EsLYxMXwNBre05kXUjhwrGi7LbIEBQZNg_XRGIVhxiQ7zoCnuhh-aFQhNRuKArQ98OjMaK7PQ=s622" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; clear: right; float: right;"><img alt="" border="0" height="320" data-original-height="622" data-original-width="420" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/a/AVvXsEinGVstoWkpyKF96SY4L2HX7AIa3RLUsfyOL3dHHzrBChM-IkuuEGHS7cheKmflCyErK0CVjpuwUxILCUR0_p9hMwJlz-aIpWPPVte13e7M6EsLYxMXwNBre05kXUjhwrGi7LbIEBQZNg_XRGIVhxiQ7zoCnuhh-aFQhNRuKArQ98OjMaK7PQ=s320"/></a></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;"><i>Encanto</i>, l'ultimo musical animato di Disney, sarebbe stato un film perfetto, se solo non avesse subito due distinte forme di pressione. La prima, è la pressione di dover avere il finale perfetto. Non un lieto fine, intendiamoci: il lieto fine è accettabile. Il finale perfetto, che accettabile non lo è mai, è quello in cui ogni tipo di delusione, ingiustizia o rimpianto è superato come (o letteralmente) per magia all'ultimo secondo disponibile, privando il pubblico dell'opportunità di accettare con serenità il meraviglioso struggimento a cui si erano preparati per tutto il film. Purtroppo, la pressione del finale perfetto è così totalizzante nell'animazione americana che lamentarsene ora, nel ventunesimo secolo, sembra un esercizio inutile oltre che assurdo. Personalmente, penso sia molto più sofisticato criticare la seconda forma di pressione, molto meno dibattuta, con cui si trova a dover fare i conti un povero film come <i>Encanto</i>, la storia di una famiglia colombiana che perde i suoi poteri magici: la pressione di dover far ballare i suoi personaggi.
<br><b>Anche meno</b>
Esattamente, ballare. Muovere il corpo a tempo di musica, spesso, nel caso dei protagonisti del film, per nessuna altra ragione se non che sono fisicamente in grado di farlo. In La pressione sale, il brano più accattivante di Encanto, una delle sorelle Madrigal, Luisa, canta della pressione - un tema ricorrente - di essere forte per tutta la famiglia. Luisa si riferisce sia alla forza emotiva che fisica, dal momento che il suo superpotere è la forza sovrumana (ma anche perché Lin-Manuel Miranda, che ha scritto la versione originale della canzone, non è un autore particolarmente sottile). "E sale la pressione e non conosce stop, woah - canta Luisa -. Senti questo tic, tic, tic? Presto esploderò, woah". Per buona parte dalla canzone, questa donna adulta decisamente ben piazzata si esibisce in movenze hip hop come una ragazzina smaniosa davanti allo specchio della sua cameretta. "Sembra un balletto di TikTok", mi ha detto un'amica durante la visione. Più tardi quella stessa sera, mi ha mandato un TikTok di un adolescente in carne e ossa che eseguiva gli stessi identici passi.
<br><b>Una strategia calcolata</b>
Ovviamente è probabilmente l'esatto scenario che Disney sperava si verificasse nelle fasi di scrittura della scena: dare alla grande signora triste dei passi accattivanti, mettere sullo sfondo un tormentone con un linguaggio da lettino di uno psicoanalista, e mettersi comodi ad aspettare la pubblicità gratuita. Una mossa di pessimo gusto in qualsiasi circostanza, che diventa però quasi disgustosa nel contesto dell'intrattenimento animato.
Tra principali forme d'arte, la danza è l'unica che richiede forza fisica. Tutto il suo fascino, infatti, si basa sulle contorsioni del corpo umano, il sudore, il rischio e il trionfo: Cos'è quella mossa? Come fa a piegarsi così? Perderà il ritmo? I personaggi dei musical dal vivo ballano di continuo, ed è giusto così: fa parte dei manierismi della narrazione. Anche i cartoni animati generati al computer sono liberi di ballare, ma quando lo fanno, emerge la consapevolezza esasperata dei loro movimenti affettati e della motivazione, diegetica o meno, che li spinge a ballare, tanto più quando quei movimenti sembrano essere al servizio di una strategia di social media. I casqué e le giravolte cominciano a sembrare pixel iperprogrammati e inquietanti che eseguono <i>plié</i> e piroette con una precisione perfetta e perturbante. Nella sua forma peggiore, è un insulto alla fisicità della danza.
Quindi è meno divertente da guardare. Anzi, gran parte delle volte è semplicemente imbarazzante. Quando Luisa dal niente si mette a ballare, a metà di un film in cui altrimenti non dimostra alcun interesse attivo nelle arti performative, oppure quando un'altra delle sorelle Madrigal canta e si dimena sulle note dell'altro successo formato TikTok di <i>Encanto</i>, <i>Non si nomina Bruno</i>, si percepisce non solo la speranza della Disney che gli spettatori facciano loro queste movenze, ma anche la rinuncia da parte della società, in atto ormai da molti anni, all'animazione come genere a sé. A un film come Encanto non è più concesso di esistere come prodotto isolato, ma deve invece strizzare l'occhio a ogni tipo di possibile crossover, dagli spettacoli sul ghiaccio e le giostre nei parchi a tema fino, in modo ancora più spudorato, ai musical di Broadway.
<br><b>Lo spartiacque</b>
E la 'colpa' è di <i>Frozen</i>. Prima della sua uscita nelle sale nel 2013, la differenza tra un musical di Broadway e un musical Disney era quantomeno oggetto di dibattito. Certo, classici come <i>Il Re Leone</i>, <i>La Bella e la Bestia</i> e <i>La Sirenetta</i> hanno tutti finito con l'essere adattati per Broadway, più o meno in questo ordine decrescente di qualità, ma nessuno di questi film era stato realizzato nella speranza di essere portato a teatro. Innanzitutto, i balletti erano pochissimi, oltre che casuali e goffi. Le parti cantate, poi, erano più contenute e meno appariscenti. Tutto questo è cambiato il giorno in cui Idina Menzel, la cantante che ha prestato la sua impressionante voce ai musical <i>Rent</i> e <i>Wicked</i>, è stata scelta per <i>Frozen</i> (nella versione italiana la parte è stata affidata a Serena Autieri), facendo entrare Disney nell'era della spettacolarizzazione delle canzoni. Da allora, film come <i>Oceania</i>, <i>Coco</i>, <i>Frozen II</i>, e ora <i>Encanto</i> sono tutti sembrati meno pellicole di animazione, quanto piuttosto produzioni teatrali, pronte per essere adattate da un momento all'altro per il palcoscenico. Nel 2018, <i>Frozen</i> ha debuttato a Broadway. Probabilmente lo spettacolo attira spettatori nuovi e più giovani verso un settore in difficoltà. Ma è una ragione sufficiente per giustificare l'infinito circolo vizioso di progetti che non sono pensati per nessuna piattaforma specifica e che uniformano e rendono più superficiale il nostro intrattenimento, frustrando ogni speranza di espressione artistica? Probabilmente no.
Se ogni cosa viene fatta per essere trasformata in altro, allora niente può eccellere nell'essere se stesso: la storia dei nostri tempi. <i>Encanto</i> aveva un potenziale enorme. Da qualche parte al suo interno c'è un film che è un piccolo miracolo di sensibilità sul tema del retaggio culturale e del rinnovamento, che viene tristemente fagocitato dalle pressioni aziendali per trasformarlo in qualcosa più, e di meno. Per Disney, oggi l'animazione è un mezzo e non un fine, che comincia con tutti quei traumatici balletti fuori tempo e scollati dalla realtà, propinati a un pubblico confuso e impressionabile. Niente è più al sicuro, nemmeno i finali. Pensateci un attimo: se i personaggi animati non fossero costretti ad agitare il loro corpo digitale al ritmo delle canzoni, ci sarebbe meno pressione per chiudere con il finale perfetto. Se avessero sentimenti reali, i personaggi non avrebbero nulla per cui ballare.</span></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">«Wired» del 20 gennaio 2022</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-19443411971862601022022-01-10T12:21:00.001+01:002022-01-10T12:21:55.091+01:00Una scuola senza talento<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Alessandro D’Avenia</span></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">La scuola purtroppo è al centro del dibattito solo per l’emergenza virale, mai per quella vitale che la ferisce da decenni. Voglio allora fermarmi sulle righe ricevute di recente da un 13enne: «Ho visto un video in cui parla del talento. Mi ha fatto riflettere, avevo un’altra idea del talento, pensavo fosse legato al successo e alla fama. La sua spiegazione mi ha dato serenità». Le narrazioni offerte ai ragazzi determinano la loro esperienza della vita. Questo ragazzo è angosciato dalla parola talento: parola vitale divenuta mortifera. Come è accaduto? Il talento (antica unità di peso molto grande: 34 kg d’argento, cioè un’intera vita di lavoro di un operaio) è proverbiale grazie alla parabola del vangelo di Matteo (25), in cui Cristo descrive il regno dei cieli, cioè il mondo come Dio lo offre agli uomini. La storia narra di «un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì». Riceviamo la vita in dote e siamo realmente liberi perché a noi è lasciata l’iniziativa «creativa»: per cosa? Il testo dice che i talenti non sono «le capacità», ma ciò che viene dato a ciascuno «secondo la sua capacità». Se confondiamo i talenti con «le capacità», la vita diventa un’ingiusta e spossante competizione, tipica della nostra società della <i>performance</i> che infatti genera soggetti stanchi, se non re-/de-pressi. Nella parabola si narra ben altro: che cosa?
Il <b>talento</b> è la vita che ciascuno può ricevere in base «alla» capacità, cioè quanto può contenere un recipiente. I bicchieri hanno capacità diverse, ma non sono in competizione: ciascuno è pieno se riceve il liquido di cui è capace. A differenza dei bicchieri però, la «capacità» umana non è «cristallizzata»: si può espandere. In italiano infatti è tradotto con «capacità» la parola greca <i>dynamis</i> (energia), da cui dinamismo o dinamite. Si potrebbe tradurre: «A ciascuno diede talenti secondo la sua energia». Riceviamo tanta vita quanta ne possiamo e vogliamo ricevere di volta in volta: la vita ci viene incontro nella misura in cui le andiamo incontro. Questa capacità espansiva si chiama <b>desiderio</b>, «a ciascuno la vita è data secondo il suo desiderio»: talentuoso non significa quindi «capace» ma «vivace». Agostino lo spiega così: «Non potendo ora vedere il paradiso, vostro impegno sia desiderarlo. La vita è tutta desiderio. Ma se una cosa è oggetto di desiderio, ancora non la si vede, e tuttavia tu, attraverso il desiderio, ti dilati. Se devi riempire un sacco e sai che ciò che ti sarà dato è molto grande, ti preoccupi di allargare il sacco più che puoi. Dio con l’attesa allarga il nostro desiderio, col desiderio allarga l’animo e lo rende più capace. Viviamo dunque di desiderio, poiché dobbiamo essere riempiti. La vita è esercitarsi nel desiderio». Esercitarsi nel desiderio, cioè ampliare la capacità di ricevere vita, è la definizione migliore di felicità. Al ritorno dal viaggio infatti l’uomo chiede «conto dei talenti», cioè «racconto della vita»: come ti è andata? Due su tre hanno raddoppiato, la vita è cresciuta in e attorno a loro, è diventata eterna, cioè viva, e infatti la gioia provata è confermata e moltiplicata: «Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla mia gioia». Colui che invece ha sotterrato il talento ha sotterrato la vita e si giustifica così: «Per paura lo andai a nascondere sotterra». Ha rinunciato a «vivere la vita» e si è «lasciato vivere»: seppellendo il talento ha seppellito se stesso. Se un solo talento è una quantità tale da esser sinonimo del lavoro di una vita intera, a quell’uomo è stato chiesto ciò che era alla sua portata per essere felice. Ma la paura e la pigrizia sono state la sua tomba in vita.
Nell’italiano delle origini <i>talento</i> significava non a caso desiderio: vivere in un talento è per Dante, nella famosa poesia per i suoi amici, aver gli stessi desideri. Dal 1700 in poi la parola si va invece identificando con «capacità», da vita in-determinata (desiderio) a pre-determinata (destino). Un 13enne, immerso nella cultura della prestazione e dell’autoaffermazione, è giustamente angosciato dalla legge del più forte o più fortunato. Proteggere la salute dei ragazzi oggi è farli esercitare non nel «potere» (domina il mondo) ma nel desiderio, nel «poter essere» (amplia il mondo). L’educazione serve a trovare il desiderio che anima ciascuno, per essere «vivo». Aiutarli a scoprire come ricevere vita (i talenti) è il segreto della gioia: domandare «che talenti hai?» non è chiedere «che capacità hai?» (da cui il pilatesco ritornello: «ha le capacità ma non si applica»), ma «quanta vita puoi/vuoi creare?». E ciò dipende da una domanda più radicale: «Qual è il tuo desiderio? Che cosa puoi essere e fare solo tu?». Un’educazione che con-forta (dà forza a) questa «energia» (<i>dynamis</i>), dà vita alla vita, ma per far questo serve un percorso serio che negli anni aiuti i ragazzi a distinguere «i desideri» indotti da condizionamenti esterni, mode e ferite della vita, che generano dipendenza, e «il desiderio» autentico, che invece libera e moltiplica la vita. Noi educatori conosciamo il nostro desiderio? E il loro? Li aiutiamo a scoprirlo ed esercitarlo, perché noi per primi lo stiamo facendo? O li addestriamo alla logica sfinente della prestazione e quindi del potere?
</span></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">«Corriere della sera» del 10 gennaio 2022</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-68086771881157739932021-08-20T10:26:00.002+02:002021-08-20T11:17:37.734+02:00Videolezioni sul metodo di traduzione dal latino<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;"><em>Un metodo di traduzione dal latino</em></span></div>
<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Francesco Maria Toscano</span></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Se hai desiderio (o necessità) di ripassare un po' di latino e di far tuo un metodo di traduzione da questa lingua fantastica, ora hai a disposizione una serie di videolezioni con esempi pratici e suggerimenti vari.<br>
Spero ti saranno utili!<br><br>
1) Un'introduzione<br>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: left;"><iframe class="BLOG_video_class" allowfullscreen="" youtube-src-id="Tck8GkaAVUA" width="320" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/Tck8GkaAVUA"></iframe></div>
2) La prima e la seconda declinazione<br>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: left;"><iframe class="BLOG_video_class" allowfullscreen="" youtube-src-id="A0LcmxXuWFs" width="320" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/A0LcmxXuWFs"></iframe></div>
3) Gli aggettivi della prima classe<br>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: left;"><iframe class="BLOG_video_class" allowfullscreen="" youtube-src-id="qg2B6ZS72rs" width="320" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/qg2B6ZS72rs"></iframe></div></span></div>
4) Il 'maledetto' nominativo della terza declinazione.<br>
<div class="separator" style="clear: both; text-align: left;"><iframe class="BLOG_video_class" allowfullscreen="" youtube-src-id="XmmPAG2Sjzs" width="320" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/XmmPAG2Sjzs"></iframe></div>
5) La terza declinazione<br><div class="separator" style="clear: both; text-align: left;"><iframe class="BLOG_video_class" allowfullscreen="" youtube-src-id="KaKwwI9nCGo" width="320" height="266" src="https://www.youtube.com/embed/KaKwwI9nCGo"></iframe></div><br><br>
Ne seguiranno altri ...<br><br>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Post del 20 agosto 2021</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-66884247131548739972021-08-06T10:34:00.001+02:002021-08-06T10:34:58.913+02:00Addio Pennacchi, la politica in scrittura<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;"><em>L’autore è stato colto da un malore improvviso. Con “Canale Mussolini” aveva vinto il premio Strega</em></span></div>
<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Fulvio Panzeri</span></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Se ne è andato all’età di 71 anni, Antonio Pennacchi, uno degli scrittori più originali, che ha fatto della sua terra, l’Agro Pontino, lo scenario in cui indagare una storia poco nota, ma assolutamente importante per capire certe vicende 'marginali' dell’Italia nel Novecento.<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhhwz1_V99TxrkF-oqSlLRWC41tkBTSu4_XAbqYDJHzzJ5BbZLqLchDj8V_9t1UE_Y4rApxDvrNwxnYxChX9UMedEwAiHzdsOWUqxpimwZD4vjGGyi1ASqKZxzhoAcxsoFSsCA1/s1024/a.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; clear: right; float: right;"><img alt="" border="0" width="200" data-original-height="682" data-original-width="1024" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhhwz1_V99TxrkF-oqSlLRWC41tkBTSu4_XAbqYDJHzzJ5BbZLqLchDj8V_9t1UE_Y4rApxDvrNwxnYxChX9UMedEwAiHzdsOWUqxpimwZD4vjGGyi1ASqKZxzhoAcxsoFSsCA1/s200/a.jpg"/></a></div>
Pennacchi nasce a Latina nel 1951 e si porta dentro da sempre una predestinazione a dover raccontare la storia della sua terra, anche se ha sempre dichiarato la sua fatica nello scrivere, un modo di essere scrittore per vocazione e non per evasione. Del resto alla scrittura arriva tardi, a cinquant’anni, dopo aver fatto l’operaio in fabbrica ai turni di notte per più di trent’anni e ricordando sempre, con grande senso di riconoscenza, verso i suoi compagni di lavoro, quel periodo, anche dopo essere diventato uno scrittore importante e molto amato dal pubblico. L’esordio avviene con <i>Mammut</i>, nel 1994, che appunto ripercorre il tempo della fabbrica e ricostruisce una grande epopea operaia che aveva scritto già diversi anni prima, nel 1987 e riporta nella letteratura italiana, un tema che era rimasto assente, rispetto all’attenzione dei nostri narratori, dopo l’interesse che aveva avuto negli anni Sessanta (si veda su tutti l’esempio di Ottiero Ottieri).
Romanzo dopo romanzo, da <i>Palude</i> (1985) a <i>Una nuvola rossa</i> (1998), arriva ad avere il primo successo di critica e di pubblico con <i>Il Fasciocomunista</i> che nel 2003 vince il Premio Napoli e nel 2007 diventò anche un film cult di quegli anni: <i>Mio fratello è figlio unico</i>, diretto da Daniele Lucchetti, storia su una giovinezza italiana, con un protagonista, ribelle di natura, ontologicamente anarchico, che vive le passioni con la ingenuità e l’incanto di chi nella vita non si vuole risparmiare, che vuol mantenere una sua posizione autonoma, senza lasciarsi andare a nessun compromesso, un po’ come Pennacchi è stato come uomo e come scrittore, libero, con il coraggio di sostenere sempre le sue posizioni, non solo per se stesso, ma soprattutto per il bene comune. Diceva infatti che dal dopoguerra «abbiamo sviluppato l’individuo e i suoi diritti mettendoli al primo posto, ma ci siamo dimenticati i diritti delle collettività, delle masse, dei popoli. E non ci sono solo i diritti degli individui, ma anche i doveri di riconoscersi negli altri, di lavorare insieme, di darsi fiducia e darsi da fare».
Forse va in questo senso la necessità di raccontare la sua terra, la sua gente e la sua storia in quello che è il romanzo che gli ha dato popolarità, vincendo a sorpresa, e contraddicendo tutte le previsioni della vigilia, nel 2010 il premio Strega con <i><b>Canale Mussolini</b></i>, incentrato sulle storie della famiglia Perruzzi, esempio di quelle migliaia di coloni che vengono fatti insediare in quella terra bonificata da poco dove si trovavano le Paludi Pontine, bonifica il cui asse portante è appunto il Canale Mussolini. Pennacchi racconta un’epopea familiare, che è sostenuta dal carisma e dal coraggio di zio Pericle, che tieni uniti i genitori, i tre fratelli, legati da un affetto profondo fatto di poche parole e di gesti assoluti, di promesse dette a voce strozzata sui campi di lavoro. È un mondo al quale Pennacchi rimane poi legato negli anni, tanto che cinque anni dopo, nel 2015, pubblica sempre da Mondadori, <i>Canale Mussolini. Parte seconda</i>, in cui indaga gli anni che seguono il 25 maggio del 1944, quando finisce la guerra a Littoria, la futura Latina, e il Canale Mussolini, dopo essere stato per mesi la dura linea del fronte di Anzio e Nettuno, torna a essere quello che era, il perno della bonifica pontina da cui inizia la ricostruzione mentre al Nord la guerra continua e coinvolge i Peruzzi su tutti i fronti, repubblichini o partigiani. Un’opera che nella sua mente non forse non sarebbe finita mai, tanto da aver dichiarato di stare già pensando a un terzo <i>Canale Mussolini</i> e forse a un quarto. Intanto ci lascia il suo ultimo romanzo, uscito nell’autunno scorso, La strada del mare, in cui ritornano i protagonisti di questa sua epica dell’Agro Pontino, un’epica che riporta i protagonisti della famiglia Perruzzi, agli anni Cinquanta, in cui la “piccola” storia delle famiglie originarie del Veneto, che erano scese nel basso Lazio alla fine degli anni Venti per colonizzare le terre bonificate dal regime fascista, e che lì erano diventate una comunità, s’intreccia e si mescola con la “grande” Storia italiana e internazionale del dopoguerra.</span></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">«Avvenire» del 4 agosto 2021</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-30688049095915214812021-08-06T10:25:00.002+02:002021-08-06T10:25:29.276+02:00La tematica Lgbt nel cinema e l'eccesso di sessualizzazione<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;"><em>Dal Festival di Cannes indicazioni e conferme di una tendenza in atto</em></span></div>
<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Armando Fumagalli</span></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Si è da poco concluso il Festival di Cannes con un verdetto (specialmente per la Palma d’Oro a <i>Titane</i> della regista Julia Ducournau) da molti considerato assai discutibile. C’è chi – probabilmente con qualche ragione – ha voluto vedere una forzatura in omaggio al <i>politically correct</i> la Palma d’Oro a una regista donna (la seconda volta in 74 anni, dopo la Jane Campion di <i>Lezioni di piano</i> ...), in un film che occhieggia alla fluidità sessuale e propone strani ibridi fra uomo e macchina. Tutti temi “di moda”, in un film che però ha avuto giudizi negativi quasi unanimi dai critici, seguiti però da questo ambitissimo premio conferito da una giuria “inclusiva” presieduta da Spike Lee. Era il festival della ripartenza, anche per il mercato del cinema francese, il più forte d’Europa, e il sostegno delle istituzioni francesi al loro cinema ancora una volta si è fatto sentire, con una forte presenza di film d’Oltralpe non solo in competizione, ma anche nelle ampie sezioni collaterali. La pattuglia italiana, nonostante il nulla di fatto per il film di Moretti, ha avuto alcune soddisfazioni: primo di tutti il premio al bel film di Jonas Carpignano, <i>A Chiara</i>, un intenso dramma famigliare ambientato a Gioia Tauro, con protagonista una quindicenne che scopre che il padre è coinvolto nelle attività della ’ndrangheta. Carpignano per interpretare i cinque membri della famiglia ha scelto una famiglia vera, quindi tutti attori non professionisti, ed è riuscito a dare un forte senso di verità alla messa in scena, costruendo comunque un dramma che dopo qualche lungaggine iniziale, nella seconda metà diventa asciutto e potente. Presentato alla <i>Quinzaine des Realizateurs</i> ha vinto il Premio come miglior film europeo di quella sezione.
Alcuni giornali hanno fatto notare – chi con soddisfazione, chi in modo negativo – la forte presenza di film con tema e/o personaggi omosessuali, transessuali o dalla identità incerta: non si è trattato solo di <i>Titane</i> (non a caso la regista nelle sue dichiarazioni ha inneggiato alla fluidità di genere), ma anche di molti altri film, in concorso e no. Per esempio entrambi i film in cui era impegnata la nostra Valeria Bruni Tedeschi (<i>La fracture</i>, e <i>Les amours d’Anais</i>) vedevano il suo personaggio in relazioni lesbiche; c’è stato poi il progettato scandalo del film di Verhoeven, <i>Benedetta</i>, accolto però da risate alla proiezione in sala ... In concorso c’era anche <i>Les Olympiades</i> di Jacques Audiard, con tre ragazze bianche e un ragazzo nero che si uniscono in varie combinazioni sessuali; non è al centro della storia, ma anche uno dei personaggi di <i>Stillwater</i>, in concreto la figlia di Matt Damon, aveva una relazione lesbica. Ma anche solo scorrendo le sinossi dei film delle sezioni collaterali, la sensazione è che ormai fosse quasi difficile trovare un film senza una storia d’amore omosessuale. Pare proprio che si sia innescato un circolo (vizioso o virtuoso a seconda dei punti di vista) per cui gli autori sanno che se c’è un certo tema, questo film verrà privilegiato dai selezionatori: ecco che sceneggiatori e registi (e produttori) vengono spinti sin dalla concezione a inserire ruoli omosessuali per avere una chance in più di entrare nei selezionati, con un effetto paradossale: quella che doveva essere una minoranza da rappresentare in senso anti discriminatorio sembra ormai diventata una maggioranza egemonica, almeno in alcuni contesti festivalieri.
Deve essere forse successo qualcosa di simile nella scrittura di <i>Piccolo corpo</i>, bel film di Laura Samani presentato alla <i>Semaine de la Critique</i>, dove la presenza di un personaggio dalla identità sessuale ambigua è totalmente staccato dal focus del film (sul rapporto fra una madre e una bimba morta) e questa dimensione sembra proprio un omaggio al <i>politically correct</i>. Se si andrà confermando la totale fluidità sessuale nei racconti che troviamo sugli schermi, una delle non poche conseguenze sarà quella di cancellare le dimensioni dell’amicizia più normale, specialmente fra adolescenti e fra giovani: verrà immediatamente tutto sessualizzato. Non è un caso che alcuni recensori americani abbiano interpretato in chiave Lgbt il film della Pixar <i>Luca</i>, che è invece una semplicissima storia di amicizia maschile fra due ragazzini (fra l’altro ispirata alla storia vera dell’amicizia dello stesso regista con un suo compagno di scuola).
Altri temi “caldi” del festival sono stati l’eutanasia e il “diritto a morire” (il film di Ozon con Sophie Marceau), così come una certa presenza di temi ed episodi che riguardano l’aborto (è centrato sul diritto ad abortire il film in concorso <i>Lingui</i>, ambientato in Ciad, ma ci sono episodi di aborto anche in altri film, come <i>Les amours d’Anais</i>, dove l’aborto viene trattato come una breve e innocua pratica da sbrigare). Per fortuna ci sono stati documentari interessanti come <i>Futura</i>, di Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher, dove si dà voce a giovani italiani che si fanno domande sul futuro, e il documentario di Oliver Stone sull’omicidio Kennedy, <i>Through the looking glass</i>, che fa il punto sulle acquisizioni – inquietanti– degli ultimi tre decenni, sulla differenza fra la verità “ufficiale” e le numerose prove emerse in questi ultimi decenni che la smentiscono.
Succedono poi cose un po’ paradossali nell’impegno “affermativo” che sembra aver preso piede nel mondo del cinema e della Tv contemporanea. Nel <i>Marché du film</i>, che accompagna il festival, era in distribuzione un numero speciale di <i>Deadline</i>, una testata hollywoodiana abbastanza recente, ma che negli ultimi anni si è ben sistemata accanto ai più blasonati <i>Variety</i> e <i>The Hollywood Reporter</i>. In un elenco di profili e interviste a <i>disruptors</i>, grandi innovatori, ce n’era uno dedicato a Ryan Murphy, che riportava una sua riflessione di quando in una riunione con altri <i>showrunner</i> si rese conto di essere l’unico gay nella sala: «Devo fare qualcosa per aumentare la nostra presenza », si disse. Non è chiaro a che anno si riferiva Murphy, che nella decina di serie Tv che ha creato (da <i>Nip/Tuck</i> a <i>Glee</i> a <i>Pose</i>) ha poi sempre portato avanti la promozione della cultura gay ...
Ma è ironico che solo poche pagine prima c’era il profilo di Greg Berlanti, celebrato perché nelle 15 serie che sta direttamente o indirettamente dirigendo, sta portando avanti la stessa battaglia culturale ... Ma l’elenco sarebbe potuto continuare a lungo, con Alan Ball (<i>American Beauty</i>, <i>Six Feet Under</i>), Kevin Williamson (<i>Dawson’s Creek</i>, <i>The Vampire Diaries</i> e molte altre), Darren Starr (<i>Beverly Hills 90210</i>, <i>Sex and the City</i>, <i>Emily in Paris</i> ecc.). Insomma, non si capisce bene a quale riunione abbia partecipato a suo tempo Murphy per sentirsi così solo ... </span></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">«Avvenire» del 27 luglio 2021</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-48557668027786974802021-07-16T17:12:00.000+02:002021-07-16T17:12:14.320+02:00Cuba nella nebbia<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Massimo Gramellini</span></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Un avventore del Caffè si domanda perché influencer e intellettuali nostrani non aprano bocca su quanto sta accadendo a Cuba. E aggiunge, non a torto, che se gli assalti ai forni e gli arresti di massa avessero la Budapest di Orbán come teatro, qui sarebbe tutto un fiorire di petizioni & indignazioni. Invece per chi detta l’agenda universale del bene e del male la dittatura cubana resta sempre un po’ meno dittatoriale delle altre, persino adesso che è passata dalla morsa inflessibile ma professionale dei fratelli Castro a quella di un certo Diaz Canel, a cui Che Guevara non avrebbe neanche lasciato spolverare il sellino della moto.
La tesi difensiva del regime è che al popolo non manca la libertà ma il pane, e il pane manca per colpa dell’embargo americano che Biden si guarda bene dall’ammorbidire. In realtà la libertà manca eccome: è che a pancia vuota la sua assenza si avverte ancora di più. Ma di tutto ciò non c’è traccia nel dibattito. Anzi, non c’è proprio il dibattito. La ragione ideologica del silenzio degli «impegnati»è nota, ma è possibile azzardarne anche una psicologica. Per i più giovani Cuba non significa nulla, mentre per i più anziani tutto. Significa la difesa dell’utopia della loro giovinezza: che il comunismo al potere sarebbe riuscito a cambiare la natura individualista dell’essere umano. La dolce nebbia dei ricordi continua ad avvolgere i contorni di un’isola che è sempre stato più rassicurante immaginarsi che vedere per com’era davvero.</span></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">«Corriere della sera» del 15 luglio 2021</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-24094181156397234102021-06-29T10:21:00.000+02:002021-06-29T10:21:04.259+02:00Leggere la Commedia sulle lapidi di Firenze<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Riccardo Michelucci</span></div>
<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;"><em>Il dantista Seriacopi ci guida nelle strade fiorentine dove le pietre parlano delle famiglie della città, spesso in lotta tra loro, che il Poeta celebra nelle tre Cantiche</em></span></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">«Sovra candido vel cinta d’oliva donna m’apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva». Basta alzare lo sguardo lungo il Corso, nel pieno centro di Firenze, per scorgere la lapide con i versi della Divina Commedia che descrivono il primo incontro tra Dante e Beatrice. Sono incisi nel marmo della facciata dell’antico palazzo dove un tempo sorgevano le case dei Portinari, la famiglia d’origine di Beatrice. Siamo nel XXX canto del <i>Purgatorio</i> e il sommo poeta sta assistendo a una processione con carri e canti di lode circondato da angeli e anime pie, quando vede una donna con un velo bianco sulla testa, una corona d’ulivo, una veste rossa e un manto verde. «I colori indossati da Beatrice sono un’allegoria delle virtù teologali, il bianco della fede, il rosso della carità e il verde della speranza, ai quali si somma la sapienza simboleggiata dall’ulivo, pianta sacra a Minerva», ci spiega il dantista Massimo Seriacopi, che ci accompagna in un percorso attraverso i luoghi fiorentini di Dante solcati dalle lapidi del suo poema monumentale.<i></i>
Sull’interpretazione allegorica di Beatrice sono state ideate e smontate molte teorie fino ad arrivare alla doppia concezione della donna: da una parte l’ideale stilnovista della bellezza che muove il cuore del poeta, dall’altra la rappresentazione della teologia cristiana. Nella <i>Divina Commedia</i> Beatrice sarà 'portatrice di Cristo' e la bellezza che si manifesta pienamente nella sua natura rivelatrice della verità e della carità è per Dante la via per accedere a Dio. Ripercorrere le strade e i vicoli della Firenze medievale è un modo per andare alla riscoperta dei più famosi luoghi danteschi e la partenza da via del Corso non è casuale perché qui si concentra il più alto numero di lapidi, gran parte delle quali raccontano le famiglie della Firenze del tempo di Dante. Quella degli Adimari con Filippo Argenti che sguazza nel fango della palude nel cerchio degli iracondi ( VIII canto dell’<i>Inferno</i>), quella dei Donati con Forese, che predice la futura rovina del fratello Corso Donati capo dei Guelfi neri - nel XXIV canto del Purgatorio, infine quella dedicata alla famiglia dei Cerchi (XVI canto del <i>Paradiso</i>). Basta fare pochi passi in direzione opposta rispetto al Duomo per imbattersi nei resti dell’antica chiesa di Santa Margherita dei Cerchi, risalente all’XI secolo, meglio nota come 'chiesa di Dante'. Qui, nel 1285, il poeta sposò Gemma Donati e si ritiene che alcuni anni prima, proprio al cospetto dell’altare, abbia visto per la prima volta la sua Beatrice.<br>
«In questa chiesa venne sicuramente sepolto Folco Portinari, il padre della giovane, e altri membri della sua famiglia ma è assai controversa l’ipotesi che vi sia anche il sepolcro di Beatrice, che più verosimilmente fu sepolta nella tomba della famiglia del marito, i Bardi, nel chiostro grande della basilica di Santa Croce», spiega Seriacopi, che è autore tra l’altro del recente saggio <i><b>Dante tra poesia e teologia</b></i> (ed. Setteponti). All’estremità opposta di via Santa Margherita si apre un piccolo slargo dove si trova la Casa di Dante, all’interno della replica ottocentesca di un’antica casa-torre. Istituita nel 1965 in occasione del settimo centenario della nascita del poeta, oggi ospita il museo omonimo che ne documenta la vita e le opere. Svoltato l’angolo siamo in via Alighieri, e una lapide indica il punto dove si presume sorgesse la vera casa natale del poeta. «Io fui nato e cresciuto / Sopra ’l bel fiume d’Arno alla gran villa», recita la pietra, riportando una citazione dal XXIII canto dell’Inferno.<br>
Sono versi che trasudano nostalgia: furono scritti dal poeta durante il sofferto esilio che lo tenne lontano da Firenze fino alla sua morte. Le strade e i vicoli medievali che separano il Battistero di San Giovanni e l’attuale piazza della Signoria furono il palcoscenico dell’infanzia e della giovinezza di Dante, oltre che il collegamento naturale tra il potere religioso e quello politico della città. A unire i due punti c’è via de’ Calzaioli al cui limitare, superata l’antica chiesa di Orsanmichele, una lapide è quasi nascosta in mezzo alle insegne luminose dei negozi. «Cita un verso dal X canto dell’Inferno - precisa Seriacopi -. Qui Dante dialoga con Cavalcante, padre di colui che nella Vita Nova aveva definito il suo primo amico, ovvero Guido Cavalcanti. Era anch’egli un grande poeta e se non fosse morto così presto avrebbe potuto oscurare lo stesso Dante». Proprio negli anni in cui veniva scritta la Divina Commedia, in piazza della Signoria era in corso la realizzazione di Palazzo Vecchio, che venne costruito sulle rovine dei palazzi di proprietà della famiglia ghibellina degli Uberti, cacciata da Firenze nel 1266. E proprio agli Uberti sono dedicate due delle tre lapidi dantesche affisse all’interno del cosiddetto 'primo cortile' di Palazzo Vecchio. Dante si trova adesso nel XVI canto del Paradiso e descrive la superbia che portò quella famiglia alla rovina, oltre a nuocere alla grandezza di Firenze («Oh quali io vidi che son disfatti / per lor superbia!»).<br>
«L’altra lapide - prosegue Seriacopi - cita invece l’episodio in cui il famoso capo ghibellino Farinata degli Uberti, rinchiuso tra gli epicurei nel sesto cerchio del-l’<i>Inferno</i>, racconta al poeta di aver difeso Firenze dopo la battaglia di Montaperti del 1260, opponendosi poi ai ghibellini senesi che erano intenzionati a distruggerla». Nessuno meglio di Dante riuscì a incarnare appieno lo spirito del suo tempo, quello di un’Italia drammaticamente divisa e faziosa, impegnata in lotte fratricide all’interno degli stessi comuni, e a portare alla luce delitti, passioni e storie oscure di quell’epoca, che altrimenti sarebbero finite nell’oblio. E nella Commedia non perde occasione per scagliarsi contro la civiltà fondata sul commercio e sulla circolazione del denaro, da lui vista come fonte di corruzione e di decadenza politico-morale. È quanto fa ancora più avanti, in via del Proconsolo, sulla lapide incisa accanto all’antica chiesa della Badia fiorentina, e poi di nuovo in via del Corso insieme a Cacciaguida, l’avo che incontra in Paradiso, tra le anime dei combattenti per la fede. «Dante era un uomo del Medioevo cristiano che riprendeva l’etica di Aristotele, per il quale la virtù consisteva nel giusto mezzo - conclude Seriacopi -. E Cacciaguida, che fu un guerriero della seconda crociata al seguito dell’imperatore Corrado III, riveste qui un’importante funzione morale. Attraverso di lui Dante esprime tutto il suo sdegno nei confronti della corruzione in cui è caduta Firenze, rievocando la purezza dei costumi antichi'».</span></div><br>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">«Avvenire» del 21 febbraio 2021</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-64450943515172025082021-03-08T15:45:00.002+01:002021-03-08T15:45:09.477+01:00Nuova serie di videolezioni dedicate a Tacito<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;"><em>Il grande storiografo latino</em></span></div>
<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Francesco Toscano</span></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Sul mio canale YOUTUBE puoi trovare una serie di video che illustrano diversi aspetti della vita e dellopera del grande storiografo latino Tacinto.<br>
Qui di seguito l'elenco:<br>
1) la vita e il rapporto con il potere <div class="separator" style="clear: both; text-align: right;"><iframe class="BLOG_video_class" allowfullscreen="" youtube-src-id="IJGSTg-Ru5A" width="200" height="166" src="https://www.youtube.com/embed/IJGSTg-Ru5A"></iframe></div></span></div>
2) l'"Agricola" <div class="separator" style="clear: both; text-align: right;"><iframe class="BLOG_video_class" allowfullscreen="" youtube-src-id="fvfxh4GBWGM" width="200" height="166" src="https://www.youtube.com/embed/fvfxh4GBWGM"></iframe></div>
3) la "Germania" <div class="separator" style="clear: both; text-align: right;"><iframe class="BLOG_video_class" allowfullscreen="" youtube-src-id="vrjY4vP31cQ" width="200" height="166" src="https://www.youtube.com/embed/vrjY4vP31cQ"></iframe></div>
4) il "Dialogus de oratoribus" <div class="separator" style="clear: both; text-align: right;"><iframe class="BLOG_video_class" allowfullscreen="" youtube-src-id="cG4OL9NDMoU" width="200" height="166" src="https://www.youtube.com/embed/cG4OL9NDMoU"></iframe></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Post dell'8 marzo 2021</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-20877000702641091272021-01-19T12:50:00.002+01:002021-01-19T12:51:18.740+01:00Tristezza mezza bellezza<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Alessandro D'Avenia</span></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Chi conosce la montagna sa che camminare in cresta è tanto bello quanto vertiginoso: ci si sente abbracciati dal panorama e padroni dell’orizzonte, ma stare sospesi tra due voragini è l’unica via per raggiungere la meta e, se non si sta attenti a dove poggiare il piede, l’abisso è a un passo. La tristezza è uno di questi sentieri sul crinale della vita, che spesso non vogliamo affrontare, perché la nostra cultura accetta solo il «positivo» e ci priva così del coraggio per vincere la paura del negativo. Eppure la tristezza è un sentimento «positivo», perché ci «pone» in condizione di guarire dal dolore che la genera: il nostro corpo si difende dalla malattia segnalandola proprio attraverso il sintomo di dolore. Noi invece vogliamo eliminare dalla vita tutto ciò che ci sembra «improduttivo», come macchine da cui ci si attende sempre una performance ineccepibile. Ma noi siamo vivi e dobbiamo rivendicare il nostro diritto alla tristezza come vita ferita che cerca di guarire.<br>
E così, qualche giorno fa, dopo l’ennesimo contraddittorio rinvio del ritorno a scuola in presenza (genitori e ragazzi si stanno ribellando con manifestazioni e ricorsi di cui vi racconterò la prossima settimana), sono stato colto da una profonda tristezza. Ero sanamente triste e questo era il sentiero su cui la vita mi chiamava a camminare con i miei ragazzi per non precipitare nei due abissi al lato del crinale della tristezza: l’indifferenza e la disperazione, che paralizzano l’iniziativa e l’impegno.<br>
La tristezza rende il dolore un sentiero che, affrontato con passi accurati e possibili, permette di resistere a un male inevitabile o alla privazione di un bene. La tristezza è risonanza autentica di fronte al mondo ferito e chiamata a trovare una cura, purché non la si usi come alibi per rimanere fermi, facendola precipitare in apatia o disperazione.<br>
E così ho dedicato un’ora intera a chiedere ai miei studenti quali aspetti positivi e/o negativi stavano sperimentando dopo mesi di Dad.<br>
Sono emerse idee interessanti e più costruttive di quanto credessi. Alla fine una di loro ha ringraziato per l’ora così trascorsa, perché l’aveva aiutata a guardare con meno paura e rassegnazione alla sua frustrazione. Tutti concordavano sul fatto che dare un nome preciso alle fatiche del momento (la lingua madre è madre anche per questo: dire bene le cose è benedirle) e sentire l’esperienza degli altri, anche di un adulto, li aveva sollevati e incoraggiati a non lasciarsi andare (ciò che ci accomuna tutti è la perdita di motivazione, la paralisi del desiderio).<br>
Anche io, grazie a questa vertiginosa camminata in cresta, mi sono ritrovato a riflettere con loro sugli effetti di questo periodo e ho scoperto che proprio la privazione della normalità mi sta aiutando a camminare in modo nuovo. La didattica in genere oscilla tra due metodi di apprendimento: <i>de-duttivo</i> (formulo un principio generale e lo verifico nel particolare) o <i>in-duttivo</i> (osservo il particolare e risalgo al principio che regola il fenomeno), poi si tratta di rendere i ragazzi il più partecipi possibile al processo.<br>
In Dad ho maturato un metodo più ricco e ampio che chiamerei, con Socrate, «maiuetico» o «co-duttivo». La lezione si fa insieme, come un’orchestra che esegue un pezzo: dopo aver reso «fisicamente presente» (data la incorporeità del mezzo di comunicazione) lo spartito (lettura condivisa ad alta voce di un passo dei <i>Promessi Sposi</i>, imparare a memoria una poesia...), l’energia sprigionata dalla materia attraversa tutti che ne diventato «con-duttori» (come per l’elettricità). Tutti sono chiamati a interpretare lo spartito rispettando il pentagramma e gli altri strumenti: la conoscenza somiglia così a una spirale che, giro dopo giro, si approfondisce ruotando attorno all’asse centrale; i singoli diventano una comunità di ricerca; la scoperta coinvolge come in una caccia al tesoro; io sono al servizio della musica della vita tanto quanto loro, ma come maestro d’orchestra.<br>
Non si tratta di un dibattito o di un’improvvisazione ma di una esecuzione che fa tesoro di quanto ognuno scopre, rimanendo nei limiti dettati dall’argomento (il mio compito è che quei limiti vengano rispettati: lo spartito è lo spartito) e la lezione diventa un «concertare», che significa non solo preparare un complesso di musicisti all’esecuzione di un pezzo, ma anche accordare fra loro gli strumenti.<br>
La «co-duzione» trasforma la Dad in un «concerto»: lo spartito crea accordi (con il vissuto personale) e legami (tra le persone). Alla fine della lezione ci sentiamo cresciuti perché, come dice Agostino: «nutre la mente soltanto ciò che la rallegra».<br>
Una gioia che è il risultato di una tristezza «ben vissuta»: un sentimento-sentiero, un sintomo che è inizio di guarigione, perché se un albero si secca, in un suolo che sembra arido, è perché non ha messo radici abbastanza in profondità.</span></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">«Corriere della sera» del 18 gennaio 2021</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-26909954598559826962021-01-17T10:54:00.003+01:002021-01-17T10:54:31.633+01:00Nuova serie di video sul Decadentismo<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;"><em>News</em></span></div>
<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Francesco Toscano</span></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Ho preparato una serie di videolezioni introduttive su uno dei movimenti più importanti della letteratura europea.<br><br>
- <a href="https://www.youtube.com/watch?v=VwXUmtvbSVE" target="_blank">Decadentismo: il quadro generale, reazione al Positivismo e i "maestri del sospetto"</a><br><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe class="BLOG_video_class" allowfullscreen="" youtube-src-id="VwXUmtvbSVE" width="200" height="166" src="https://www.youtube.com/embed/VwXUmtvbSVE"></iframe></div><br>
- <a href="https://www.youtube.com/watch?v=L1k2-mCay7Q" target="_blank">Decadentismo: la poetica</a><br><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe class="BLOG_video_class" allowfullscreen="" youtube-src-id="L1k2-mCay7Q" width="200" height="166" src="https://www.youtube.com/embed/L1k2-mCay7Q"></iframe></div><br>
- <a href="https://www.youtube.com/watch?v=LgzURUT6V_4" target="_blank">Decadentismo: temi ed eroi</a><br><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe class="BLOG_video_class" allowfullscreen="" youtube-src-id="LgzURUT6V_4" width="200" height="166" src="https://www.youtube.com/embed/LgzURUT6V_4"></iframe></div>
</span></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Post del 17 gennaio 2021</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-15138577073900154492020-12-28T11:48:00.000+01:002020-12-28T11:48:06.327+01:00Dante e i Fedeli d'Amore: soltanto fake news<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;"><em>La “setta” cataro-templare di cui avrebbe fatto parte Dante è il fortunato frutto di una mistificazione novecentesca Ma i filologi ignorano le lacune dantesche sul neoplatonismo</em></span></div>
<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Franco Cardini</span></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Nell’approssimarsi del 2021, “Anno Dantesco” – e nella speranza ch’esso ci porti in dono anche la liberazione dall’epidemia – , è utile auspicare che alcune questioni dantesche vengano definitivamente risolte; e che su alcuni equivoci si faccia finalmente piena luce. In tempi di trasformazione epocale della “cultura diffusa” in seguito alla crisi delle istituzioni tradizionali scolastiche e universitarie e del diffondersi dei social (con la conseguenza allarmante di un intensificarsi della confusione dei linguaggi e della perdita progressiva di ancoraggi culturali autorevoli sui quali fondarsi) stanno pericolosamente riemergendo questioni dalle quali speravamo di essere definitivamente usciti. Una delle più divertenti da un lato e angoscianti dall’altro, e che riguarda appunto Dante e il suo tempo, è quella dei “Fedeli d’Amore”. Una strana storia, un equivoco nato fra Otto e Novecento e in seguito bizzarramente trascinatosi in seguito all’affermarsi nella nostra cultura sia d’élite, sia “diffusa”, dell’interruzione di un dialogo che ha dato luogo a una sorta di schizofrenia, di dialogo tra sordi.<br>
Nel sonetto dantesco <i>A ciascun’alma</i>, il primo accolto nella <i>Vita Nova</i> (III), il giovane poeta c’informa di essere stato còlto nella sua stanza “da un soave sonno” dopo aver incontrato diciottenne (si era quindi verso il 1283) per la secondo volta “la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice”. Durante il sonno, egli narra di essere stato visitato verso l’alba da uno di quelli che Carl Gustav Jung avrebbe definito “sogni significanti”: svegliatosi, aveva composto un sonetto e lo aveva inviato alla ristretta cerchia di coloro che egli chiama “tutti li Fedeli d’Amore”– Guido Cavalcanti e Lapo Gianni principalmente –, pregandoli “che giudicassero la mia visione”. La quale era terribile: Dante aveva sognato il loro “signore”, cioè Amore personificato, in quale teneva fra le braccia “madonna” (cioè Beatrice) addormentata e in mano il cuore di Dante stesso, ardente; e, svegliatola, la costringeva spaventata a mangiarlo. Il “cuore ardente” e il “cuore mangiato” sono immagini archetipiche fondamentali nella nostra cultura, e anche in altre: ne parla anche il Boccaccio, nella nona novella della IV giornata del <i>Decameron</i>. L’ispiratore primario del giovane Dante era il poeta Guido Guinizzelli, il quale a sua volta era divenuto un celebre caposcuola per la sua canzone <i>Al cor gentil</i>, nella quale con efficace e affascinante chiarezza, ma sulla base di un’esile autocoscienza filosofica, aveva diffuso la lezione ripresa in pieno XII secolo dal trattato <i>De amore</i> di Andrea Cappellano, chierico al servizio di Maria di Champagne, figlia di Luigi VII di Francia e della grande Eleonora d’Aquitania, e pertanto sorella di Riccardo Cuor di Leone.<br>
Ora, Eleonora aveva fatto conoscere in Francia settentrionale, cioè nel “paese della lingua d’oïl”, la poetica di suo padre Guglielmo IX, duca d’Aquitania e celebre trovatore, fondata sul servizio dell’innamorato all’amata: il primo considerato vassallo (<i>fizel</i>, cioè <i>fidelis</i>) della seconda, che gli ha concesso in feudo il suo stesso cuore. Ma la dottrina di Andrea era una metafora del magistero relativo all’amore che risaliva a Platone e che, dopo aver animato tutto il neoplatonismo medievale, era giunto nella cristianità occidentale alla sua piena maturazione con il platonismo della scuola di Chartres, cui ha dedicato un “classico” Tullio Gregory con il suo <i>Anima mundi</i> (nuova edizione, Fondazione CISAM, Spoleto 2020). Il fatto è che l’aristotelismo scolastico di Tommaso d’Aquino, principale referente di Dante, aveva spazzato via un insegnamento senza il quale gli stessi Agostino e Boezio, capifila della filosofia cristiana medievale, risultavano quasi incomprensibili, e durante il secolo XIX Dante e il suo richiamo ai “Fedeli d’Amore” (ormai divenuto un gruppo penitenziale esclusivo e segreto) era stato reinterpretato in modo tanto originale quanto obiettivamente mistificatorio da un professore liceale di filosofia, Luigi Valli (1878-1931), il quale aveva reinterpretato il misticismo politico laicista “ghibellino” di Ugo Foscolo e di Dante Gabriele Rossetti ohimè legittimato dalla sterminata, equivoca erudizione di Giovanni Pascoli. Era così nata la “sètta” medievale dei “Fedeli d’Amore”, oscuramente collegata al catarismo, al templarismo e alla <i>Weltanschauung</i> massonica, alla quale avevano fornito credibilità gli stessi saggi dell’esoterista René Guénon. Il tutto era stato sigillato da un altro geniale pasticcione, Alfonso Ricolfi, anch’egli documentatissimo critico dei “Fedeli d’Amore” e delle “Corti d’Amore” in polemica col Valli. Bisogna dire che i professionisti della ricerca storico-filolgica dantesca, anziché replicare mostrando semplicemente gli equivoci generati dalle scarse cognizioni filologiche del giovane Dante (e anche di quello non più giovane) a proposito del neoplatonismo antico e medievale, si erano dottamente impegnati a sottolineare che i “Fedeli d’Amore” non erano mai esistiti con l’aiuto di ottimi documenti autentici, che per loro natura tutto potevano però provare meno che l’inesistente fosse mai esistito. Risultato di tutto ciò, un’incredibile follia schizofrenica: da una parte storici e filologi occupati a scomunicare – si leggano le pagine del Garin, del Viscardi e del Sapegno – l’inconsistenza e l’irrazionalismo dei seguaci del Rossetti e del Valli, dall’altra coloro che ne approfondiscono incuranti le tematiche.<br>
Il punto però è che entrambe le “scuole” – chiamiamole così – sono partite da Dante e hanno seguito le polemiche nate sui “Fedeli d’Amore” fino ai giorni nostri senza ascoltare mai l’altra campana. Sarebbe stato sufficiente che gli studiosi seri e i dantisti filologicamente attrezzati avessero ricostruito – e avrebbero potuto ben farlo – le lacune di Dante relative ai fondamenti neoplatonici dell’Amor cortese. Il Contini e il Vinay c’erano andati vicini; nel segno aveva colpito la scuola di Maria Teresa Beonio Brocchieri, che però non si era preoccupata di “disincantare” né il Pascoli né il Valli. Oggi, Franco Galletti torna sui “Fedeli d’Amore” con <b><i>La bella veste della verità</i></b> (Mimesis, pagine 602, euro 32,00), nel quale ricostruisce l’influenza della dottrina avviata (involontariamente) dal giovane Dante sui secoli successivi senza però nemmeno toccare “l’anello debole”, la sua inconsistente conoscenza del neoplatonismo del XII secolo che gli avrebbe fatto capir tutto; e sì che nel frattempo il capolavoro di Tullio Gregory è stato ristampato (esaminate il silenzio della sua bibliografia su alcuni autori a proposito di catari, di poesia francese medievale e di templari: capirete tutto). Quanto ad Alberto Ventura, che ha fornito al Galletti l’assistenza delle sue solide cognizioni islamologiche, egli parla certamente con ottime ragioni del sufismo musulmano, senza avvertirci (non era suo compito il farlo) che esso – pur essendo l’islam, col commento aristotelico di Averroè, alla base della scolastica tomista – non aveva mai reciso né dissimulato il rapporto con la tradizione neoplatonica. Insomma: un grazie a Rossetti che ha riportato la nostra attenzione sull’equivoco tardoromantico-esotericomassonico della lettura di Dante e un invito a tutti a riprendere in mano le cose dal principio. Cultura, alla fine e nella sostanza, è questo: avere il coraggio e l’energia di rimettersi in discussione.</span></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">«Avvenire» del 1° dicembre 2020</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-47594617693746055032020-12-28T11:32:00.001+01:002020-12-28T11:36:23.523+01:00Dietro le quinte del libro e delle sue "diavolerie"<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;"><em>Dalla fascetta al risvolto, dalla copertina alla dedica, Valentina Notarberardino in un volume ricco di citazioni, retroscena e curiosità viaggia nel "paratesto" di Genette</em></span></div>
<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Giuseppe Matarazzo</span></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">La fascetta (per le allodole) che promuove il curioso volume strilla su un cartoncino color giallo acceso il seguente “avviso”: «Tutti i segreti dei libri (bestseller e non)». Ma dopo aver letto <b><i>Fuori di testo. Titoli, copertine, fascette e altre diavolerie</i></b> di Valentina Notarberardino (Ponte alle Grazie, pagine 336, euro 18,50), ci permettiamo di comporne un’altra. Che potrebbe suonare più o meno così: «Attenzione, può nuocere gravemente alla lettura». Bibliofili e frequentatori delle librerie, fisiche e digitali, non si allarmino. Leggano senza paure questo prezioso volume sui libri e i suoi tanti backstage, ma consapevoli di un fatto, un pericolo “sano”: a furia di scoprire tutti i segreti dei libri finiranno per leggere con occhi diversi e per soffermarsi su tantissimi particolari a cui prima forse non avevano fatto caso. Fascette, appunto. E poi copertine, dediche, epigrafi, introduzioni, ringraziamenti, indici, risvolti, prefazioni, bandelle, note, ritratti ... Tutto quello che il nume tutelare dei margini libreschi Gérard Genette in un testo celebre, del 1987, che si intitola <i>Soglie</i>, ha raccolto nella grande categoria del “paratesto”. Ecco, Valentina Notarberardino, responsabile della comunicazione di Contrasto con una solida formazione editoriale alle spalle, prende tutti gli elementi del paratesto, tutti i margini, tutte le soglie e in maniera colta e brillante li passa in rassegna, spiegandoli e corredandoli di una infinità di citazioni, di aneddoti, di curiosità e retroscena. Il risultato? Un libro sui libri, una bibliografia sterminata e un sacco di sorprese editoriali.<br>
Una narrazione che segue anche guide d’eccezione che hanno accettato di svelare i segreti dei propri libri, come Edoardo Albinati, Diego De Silva, Melania G. Mazzucco, Giancarlo De Cataldo, Nicola Lagioia e tanti altri che l’autrice conosce, incontra e stuzzica. Ogni capitolo, ogni intrusione in un paratesto apre un mondo, genera una carrellata di titoli e di racconti. Margini di libro con cui l’autrice stessa si misura e “gioca”. Per cui la sua dedica è «a qualcuno, di sicuro», la post fazione è una frase («la casa editrice mi fa sapere che abbiamo finito lo spazio»), l’introduzione è un dialogo con il possibile lettore. «Mi sono divertita ad analizzare e ordinare le tendenze paratestuali italiane dei mirabolanti anni Duemila – scrive Notarberardino proprio in quelle pagine iniziali –. Protagonista assoluta è la narrativa: quindi vedrai le copertine di Paolo Giordano, i ringraziamenti di Sandro Veronesi, i ritratti di Andrea De Carlo, le fascette firmate da Andrea Camilleri, ma che un’insolita nota bibliografica di Andrea Mirabella, insieme alle misteriose Elena Ferrante, Valentina F. e altri pseudonimi. Sotto la mia lente d’ingrandimento spesso sono capitati anche gli anni d’oro dell’editoria italiana, con il carico di vari testi scritti da Italo Calvino per le quarte di copertina, uno spiazzante risvolto–stroncatura di Elio Vittorini al suo autore Beppe Fenoglio, una galeotta prefazione di Alberto Moravia per l’esordio di Dacia Maraini, un’inaspettata dedica di Pier Paolo Pasolini a suo padre. Camminando sui margini testuali ho incrociato talvolta grandi classici internazionali. Ecco che tra le pagine incontrerai anche la postfazione di Lolita, lo scarafaggio di Kafka, Il giovane Holden e qualche presa di posizione paratestuale di Louis–Ferdinand Céline».<br>
Un occhio di riguardo – non potrebbe essere diversamente – l’autrice dedica alle copertine («l’abito che fa il monaco ») e ai ritratti («faccia da libro»). Una panoramica di casi, dagli stili ben riconoscibili di Sellerio e Adelphi, alle più estrose e costruite, cercando di capire come nascono, con i protagonisti, come Riccardo Falcinelli che con il suo studio grafico produce trecento copertine l’anno per vari editori e per il suo volume appena uscito per Einaudi, Figure, dopo il bestseller Cromorama, ha preparato la bellezza di 220 bozze: «Stavo impazzendo, mi sembravano tutte sbagliate», ammette fra le righe. A finire in copertina, è spesso, in Italia e nel mondo una foto di Ferdinando Scianna (a cui ricorre peraltro l’autrice per la sua foto del risvolto): «Hanno usato una mia foto – racconta il fotografo di Bagheria, primo italiano ammesso in <i>Magnum Photos</i> – per almeno sette/otto edizioni internazionali della Ferrante. La cosa curiosa è che sono state usate molte mie foto di moda, probabilmente perché la mia fotografia di moda è di tipo narrativo», basti pensare al celebre servizio per Dolce&Gabbana con la modella olandese Marpessa Hennink fotografata in Sicilia, il cui volto appare su diverse edizioni straniere de <i>L’amica geniale</i>, romanzi ambientati però a Napoli. «Gli stranieri identificano il sud Italia come un meridione indefinito», dice Scianna, «fare una copertina con la mia foto siciliana serve a dare al lettore il profumo di quello che troverà dentro al libro».<br>
«Se è vero che la copertina non è il libro, è certo l’elemento su cui gli editori puntano di più - riprende Notarberardino -. Il primo criterio che li guida nella realizzazione, di fatto, è quello estetico. Foto a effetto, illustrazioni coloratissime, grafiche irresistibili ...». Al punto che Giorgio Manganelli invitò a considerare il libro come «un accessorio rispetto alla pagina di presentazione», e lo scrisse nel risvolto della prima edizione di Nuovo commento: «Vorremmo suggerire al lettore di considerare il libro in cui si imbatterà poco oltre in primo luogo come supporto per copertina ». D’altra parte già dalla fascetta, il “supporto” di Manganelli appare assai curioso e «disorientante »: «Il libro è altrove». Perché «il volume – spiega l'autrice – è la composizione di una serie di note a un’opera che non esiste. Le postille di un libro senza libro». Sotto la fascetta del tomo di Notarberardino a supporto della copertina, c’è invece un libro con centinaia di libri dentro. Tutti quelli citati e letti dall’autrice. E forse anche quelli che leggeranno in futuro i suoi lettori. Ma con uno sguardo assolutamente diverso. «Attenzione, può nuocere gravemente alla lettura». Lettore avvisato ... </span></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">«Avvenire» del 22 dicembre 2020</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-60520752420838299602020-11-14T19:50:00.008+01:002020-11-14T19:50:57.472+01:00Italo Calvino e Ariosto<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Introduzione inedita<em> del 1960 ai </em>Nostri antenati</span></div>
<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Italo Calvino</span></div>
<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Ora contenuta in <em>Romanzi e racconti</em>, Mondadori 1991</span></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Rileggo Ariosto. Mi è stato, in questi anni, tra tutti i poeti della nostra tradizione, il più vicino e nello stesso tempo il più oscuramente affascinante. Limpido, ilare, incredulo, senza problemi, eppure in fondo così misterioso, così abile a celare se stesso. Ariosto così lontano dalla tragica profondità che avrà Cervantes, ma con tanta tristezza pur nel suo continuo esercizio di levità cd eleganza. Ariosto così abile a costruire ottave su ottave con il puntuale contrappunto ironico degli ultimi due versi rimati, tanto abile da dare talora il senso d'una ostinazione ossessiva in un lavoro folle. Ariosto cosi pieno d'amore per la vita, così sensuale, così realista, così umano ...<br>
Il suo rapporto verso la letteratura cavalleresca è complesso: egli poteva veder tutto soltanto attraverso la deformazione ironica, eppure mai rendeva meschine le virtù fondamentali che la cavalleria aveva espresse, mai abbassa· va la nozione di uomo che aveva animato quelle vicende, anche se a lui non restava che tradurle in un gioco ritmico e colorato. Ma voleva, così facendo, salvare qualcosa d'esse, in un mondo che già le aveva date per perdute, qualcosa che poteva esser salvato sole in quel modo ... [...]<br>
È evasione, tenersi oggi all'Ariosto? No, ci insegna come l'intelligenza viva anche, e soprattutto, d'immaginazione-, d'ironia, d’accuratezza formale, e come nessuna di queste doti sia fine a se stessa ma come possano entrare a far parte d'una concezione del mondo, servire a meglio valutare virtù e vizi umani. Tutte lezioni attuali, necessarie oggi, nell'epoca dei cervelli demonici e dei voli spaziali. È un'energia volta verso il futuro, ne son certo, non verso il passato, quella che muove Orlando, Angelica, Ruggiero, Bradamante, Astolfo ...<br>
</span></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Postato il 14 novembre 2020</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-38911461755139469872020-11-14T17:10:00.003+01:002020-11-14T17:10:41.329+01:00Italo Calvino, La struttura dell’«Orlando» (1974)<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;"><em>Pubblicato in «Terzoprogramma», 2-3, 1974, pp. 51-58 (testo scritto di un intervento radiofonico andato in onda il 5 gennaio 1975)</em></span></div>
<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Italo Calvino</span></div>
<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;"><em>Riportato nel volume postumo <i>Perché leggere i classici</i> (1991)</em></span></div>
<div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">L’<i>Orlando Furioso</i> è un poema che si rifiuta di cominciare, e si rifiuta di finire. Si rifiuta di cominciare perché si presenta come la continuazione d’un altro poema, l’<i>Orlando Innamorato</i> di Matteo Maria Boiardo, lasciato incompiuto alla morte dell’autore. E si rifiuta di finire perché Ariosto non smette mai di lavorarci. Dopo averlo pubblicato nella sua prima edizione del 1516 in quaranta canti, continua a cercare di farlo crescere, dapprima tentando di dargli un seguito, che restò tronco (i cosiddetti <i>Cinque Canti</i>, pubblicati postumi), poi inserendo nuovi episodi nei canti centrali, cosicché nella terza e definitiva edizione, che è del 1532, i canti sono saliti a quarantasei. In mezzo c’è stata una seconda edizione del 1521, che testimonia d’un altro modo del poema di non considerarsi definitivo, cioè la politura, la messa a punto della lingua e della versificazione a cui Ariosto continua ad attendere. Per tutta la sua vita, si può ben dire, perché per arrivare alla prima edizione del 1516, Ariosto aveva lavorato dodici anni, e altri sedici anni fatica per licenziare l’edizione del 1532, e l’anno dopo muore. Questa dilatazione dall’interno, facendo proliferare episodi da episodi, creando nuove simmetrie e nuovi contrasti, mi pare spieghi bene il metodo di costruzione di Ariosto; e resta per lui il vero modo d’allargare questo poema dalla struttura policentrica e sincronica, le cui vicende si diramano in ogni direzione e s’intersecano e biforcano di continuo.<br>
Per seguire le vicende di tanti personaggi principali e secondari il poema ha bisogno d’un «montaggio» che permetta d’abbandonare un personaggio o un teatro d’operazioni e passare a un altro. Questi passaggi avvengono talora senza spezzare la continuità del racconto, quando due personaggi s’incontrano e il racconto, che stava seguendo il primo, se ne distacca per seguire il secondo; talora invece mediante tagli netti che interrompono l’azione nel bel mezzo d’un canto. Sono di solito i due ultimi versi dell’ottava che avvertono della sospensione e discontinuità nel racconto: coppie di versi rimati come questa:<br>
Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge:<br>
ma seguitiamo Angelica che fugge.<br>
oppure:<br>
Lasciànlo andar, che farà buon camino,<br>
e torniamo a Rinaldo paladino.<br>
o ancora:<br>
Ma tempo è omai di ritrovar Ruggiero<br>
che scorre il ciel su l’animal leggiero.<br>
Mentre queste cesure dell’azione si situano all’interno dei canti, la chiusa d’ogni singolo canto invece promette che il racconto continuerà nel canto successivo; anche qui questa funzione didascalica è assegnata di solito alla coppia di versi rimati che concludono l’ottava:<br>
Come a Parigi appropinquosse, e quanto<br>
Carlo aiutò, vi dirà l’altro canto.<br>
Spesso, per chiudere il canto, Ariosto riprende a fingersi un aedo che recita i suoi versi in una serata di corte:<br>
Non più, Signor, non più di questo canto;<br>
ch’io son già rauco, e vo’ posarmi alquanto.<br>
oppure ci si mostra – testimonianza più rara – nell’atto materiale dello scrivere:<br>
Poi che da tutti i lati ho pieno il foglio,<br>
finire il canto, e riposar mi voglio.<br>
L’attacco del canto successivo invece comporta quasi sempre uno slargarsi dell’orizzonte, una presa di distanza dall’urgere della narrazione, sotto forma o d’introduzione gnomica, o di perorazione amorosa, o di elaborata metafora, prima di riprendere il racconto al punto in cui è stato interrotto. E appunto in apertura di canto si situano le digressioni sull’attualità italiana che abbondano soprattutto nell’ultima parte del poema. È come se attraverso queste connessure il tempo in cui l’autore vive e scrive facesse irruzione nel tempo favoloso della narrazione.<br>
Definire sinteticamente la forma dell’Orlando Furioso è dunque impossibile, perché non siamo di fronte a una geometria rigida: potremmo ricorrere all’immagine d’un campo di forze, che continuamente genera al suo interno altri campi di forze. Il movimento è sempre centrifugo; all’inizio siamo già nel bel mezzo dell’azione, e questo vale per il poema come per ogni canto e ogni episodio.<br>
Il difetto d’ogni preambolo al Furioso è che se si comincia col dire: «è un poema che fa da continuazione a un altro poema, il quale continua un ciclo d’innumerevoli poemi», il lettore si sente subito scoraggiato: se prima d’intraprendere la lettura dovrà mettersi al corrente di tutti i precedenti, e dei precedenti dei precedenti, quando riuscirà mai a incominciarlo, il poema d’Ariosto? In realtà, ogni preambolo si rivela subito superfluo: il Furioso è un libro unico nel suo genere e può essere letto – quasi direi: deve – senza far riferimento a nessun altro libro precedente o seguente; è un universo a sé in cui si può viaggiare in lungo e in largo, entrare, uscire, perdercisi.<br>
Che l’autore faccia passare la costruzione di questo universo per una continuazione, un’appendice, una – com’egli dice – «gionta» a un’opera altrui, può essere interpretato come un segno della straordinaria discrezione di Ariosto, un esempio di quello che gl’inglesi chiamano understatement, cioè lo speciale spirito d’ironia verso sé stessi che porta a minimizzare le cose grandi e importanti; ma può pure essere visto come segno d’una concezione del tempo e dello spazio che rinnega la chiusa configurazione del cosmo tolemaico, e s’apre illimitata verso il passato e il futuro, così come verso una incalcolabile pluralità di mondi.<br>
Fin dall’inizio il <i>Furioso</i> si annuncia come il poema del movimento, o meglio, annuncia il particolare tipo di movimento che lo percorrerà da cima a fondo, movimento a linee spezzate, a zig zag. Potremmo tracciare il disegno generale del poema seguendo il continuo intersecarsi e divergere di queste linee su una mappa d’Europa e d’Africa, ma già basterebbe a definirlo il primo canto in cui tre cavalieri inseguono Angelica che fugge per il bosco, in una sarabanda tutta smarrimenti, fortuiti incontri, disguidi, cambiamenti di programma.<br>
È con questo zig zag tracciato dai cavalli al galoppo e dalle intermittenze del cuore umano che veniamo introdotti nello spirito del poema; il piacere della rapidità dell’azione si mescola subito a un senso di larghezza nella disponibilità dello spazio e del tempo. Il procedere svagato non è solo degli inseguitori d’Angelica ma pure d’Ariosto: si direbbe che il poeta, cominciando la sua narrazione, non conosca ancora il piano dell’intreccio che in seguito lo guiderà con puntuale premeditazione, ma una cosa abbia già perfettamente chiara: questo slancio e insieme quest’agio nel raccontare, cioè quello che potremmo definire – con un termine pregno di significati – il movimento «errante» della poesia d’Ariosto.<br>
Tali caratteristiche dello «spazio» ariostesco possiamo individuarle sulla scala del poema intero o dei singoli canti così come su una scala più minuta, quella della strofa o del verso. L’ottava è la misura nella quale meglio riconosciamo ciò che Ariosto ha d’inconfondibile: nell’ottava Ariosto ci si rigira come vuole, ci sta di casa, il suo miracolo è fatto soprattutto di disinvoltura.<br>
Per due ragioni soprattutto: una intrinseca dell’ottava, cioè d’una strofa che si presta a discorsi anche lunghi e ad alternare toni sublimi e lirici con toni prosastici e giocosi; e una intrinseca del modo di poetare d’Ariosto, che non è tenuto a limiti di nessun genere, che non si è proposto come Dante una rigida ripartizione della materia, né una regola di simmetria che lo obblighi a un numero di canti prestabilito e a un numero di strofe in ogni canto. Nel <i>Furioso</i>, il canto più breve ha 72 ottave; quello più lungo 199. Il poeta può prendersela comoda, se vuole, impiegare più strofe per dire qualcosa che altri direbbe in un verso, oppure concentrare in un verso quel che potrebbe esser materia d’un lungo discorso.<br>
Il segreto dell’ottava ariostesca sta nel seguire il vario ritmo del linguaggio parlato, nell’abbondanza di quelli che De Sanctis ha definito gli «accessori inessenziali del linguaggio», così come nella sveltezza della battuta ironica; ma il registro colloquiale è solo uno dei tanti suoi, che vanno dal lirico al tragico allo gnomico e che possono coesistere nella stessa strofa. Ariosto può essere d’una concisione memorabile: molti dei suoi versi sono diventati proverbiali: «Ecco il giudicio uman come spesso erra!» oppure: «Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!» Ma non è solo con queste parentesi che egli attua i suoi cambiamenti di velocità. Va detto che la struttura stessa dell’ottava si fonda su una discontinuità di ritmo: ai sei versi legati da una coppia di rime alterne succedono i due versi a rima baciata, con un effetto che oggi definiremmo di anticlimax, di brusco mutamento non solo ritmico ma di clima psicologico e intellettuale, dal colto al popolare, dall’evocativo al comico.<br>
Naturalmente con questi risvolti della strofa Ariosto gioca da par suo, ma il gioco potrebbe diventare monotono, senza l’agilità del poeta nel movimentare l’ottava, introducendo le pause, i punti fermi in posizioni diverse, adattando diverse andature sintattiche allo schema metrico, alternando periodi lunghi a periodi brevi, spezzando la strofa e in qualche caso allacciandone una all’altra, cambiando di continuo i tempi della narrazione, saltando dal passato remoto all’imperfetto al presente al futuro, creando insomma una successione di piani, di prospettive del racconto.<br>
Questa libertà, questo agio di movimenti che abbiamo riscontrato nella versificazione, dominano ancor più a livello delle strutture narrative, della composizione dell’intreccio. Le trame principali, ricordiamo, sono due: la prima racconta come Orlando divenne, da innamorato sfortunato d’Angelica, matto furioso, e come le armate cristiane, per l’assenza del loro campione, rischiarono di perdere la Francia, e come la ragione smarrita dal folle fu ritrovata da Astolfo sulla Luna e ricacciata in corpo al legittimo proprietario permettendogli di riprendere il suo posto nei ranghi. Parallela a questa si snoda la seconda trama, quella dei predestinati ma sempre procrastinati amori di Ruggiero, campione del campo saraceno, e della guerriera cristiana Bradamante, e di tutti gli ostacoli che si frappongono al loro destino nuziale, finché il guerriero non riesce a cambiare di campo, a ricevere il battesimo e a impalmare la robusta innamorata. La trama Ruggiero-Bradamante non è meno importante di quella Orlando-Angelica, perché da quella coppia Ariosto (come già Boiardo) vuol far discendere la genealogia degli Estensi, cioè non solo giustificare il poema agli occhi dei suoi committenti, ma soprattutto legare il tempo mitico della cavalleria con le vicende contemporanee, col presente di Ferrara e d’Italia. Le due trame principali e le loro numerose ramificazioni procedono dunque intrecciate, ma s’annodano alla loro volta intorno al tronco più propriamente epico del poema, cioè gli sviluppi della guerra tra l’imperatore Carlo Magno e il re d’Africa Agramante. Questa epopea si concentra soprattutto in un blocco di canti che trattano l’assedio di Parigi da parte dei Mori, la controffensiva cristiana, le discordie in campo d’Agramante. L’assedio di Parigi è un po’ come il centro di gravità del poema, così come la città di Parigi si presenta come il suo ombelico geografico:<br>
Siede Parigi in una gran pianura<br>
ne l’ombilico a Francia, anzi nel core;<br>
gli passa la riviera entro le mura<br>
e corre et esce in altra parte fuore:<br>
ma fa un’isola prima, e v’assicura<br>
de la città una parte, e la migliore;<br>
l’altre due (ch’in tre parti è la gran terra)<br>
di fuor la fossa, e dentro il fiume serra.<br><br>
Alla città che molte miglia gira<br>
da molte parti si può dar battaglia;<br>
ma perché sol da un canto assalir mira,<br>
né volentier l’esercito sbarraglia,<br>
oltre il fiume Agramante si ritira<br>
verso ponente, acciò che quindi assaglia;<br>
però che né cittade né campagna<br>
ha dietro (se non sua) fin alla Spagna.<br>
(XIV, 104 sg.)<br><br>
Da quanto ho detto si potrebbe credere che nell’assedio di Parigi finiscano per convergere gli itinerari di tutti i personaggi principali. Ma ciò non avviene: da quest’epopea collettiva è assente la maggior parte dei campioni più famosi; solo la gigantesca mole di Rodomonte torreggia nella mischia. Dove si sono cacciati tutti gli altri?<br>
Occorre dire che lo spazio del poema ha anche un altro centro di gravità, un centro in negativo, un trabocchetto, una specie di vortice che inghiotte a uno a uno i principali personaggi: il palazzo incantato del mago Atlante. La magia d’Atlante si compiace d’architetture illusionistiche: già al canto IV fa sorgere, tra le giogaie dei Pirenei, un castello tutto d’acciaio e poi lo fa dissolvere nel nulla; tra il XII e il XXII canto vediamo elevarsi, non lontano dalle coste della Manica, un palazzo che è un vortice di nulla, nel quale si rifrangono tutte le immagini del poema.<br>
A Orlando in persona, mentre va in cerca di Angelica, capita di restare vittima dell’incantesimo, secondo un procedimento che si ripete pressoché identico per ognuno di questi prodi cavalieri: vede rapire la sua bella, insegue il rapitore, entra in un misterioso palazzo, gira e gira per androni e corridoi deserti. Ossia: il palazzo è deserto di quel che si cerca, ed è popolato solo di cercatori.<br>
Questi che vagano per logge e per sottoscale, che frugano sotto arazzi e baldacchini sono i più famosi cavalieri cristiani e mori: tutti sono stati attratti nel palazzo dalla visione d’una donna amata, d’un nemico irraggiungibile, d’un cavallo rubato, d’un oggetto perduto. E ora non possono più staccarsi da quelle mura: se uno fa per allontanarsene, si sente richiamare, si volta e l’apparizione invano inseguita è là, la dama da salvare è affacciata a una finestra, che implora soccorso. Atlante ha dato forma al regno dell’illusione; se la vita è sempre varia e imprevista e cangiante, l’illusione è monotona, batte e ribatte sempre sullo stesso chiodo. Il desiderio è una corsa verso il nulla, l’incantesimo d’Atlante concentra tutte le brame inappagate nel chiuso d’un labirinto, ma non muta le regole che governano i movimenti degli uomini nello spazio aperto del poema e del mondo.<br>
Anche Astolfo capita nel palazzo, inseguendo – ossia: credendo d’inseguire – un contadinello che gli ha rubato il cavallo Rabicano. Ma con Astolfo non c’è incantesimo che valga. Egli possiede un libro magico dove è spiegato tutto sui palazzi di quel tipo. Astolfo va dritto alla lastra di marmo della soglia: basta sollevarla perché tutto il palazzo vada in fumo. In quel momento viene raggiunto da una folla di cavalieri: sono quasi tutti amici suoi, ma invece di dargli il benvenuto gli si parano contro come se volessero passarlo a fil di spada. Cos’era successo? Il mago Atlante, vedendosi a mal partito, era ricorso a un ultimo incantesimo: far apparire Astolfo ai vari prigionieri del palazzo come l’avversario inseguendo il quale ciascuno di loro era entrato là dentro. Ma ad Astolfo basta dar fiato al suo corno per disperdere mago e magia e vittime della magia. Il palazzo, ragnatela di sogni e desideri e invidie, si disfa: ossia cessa d’essere uno spazio esterno a noi, con porte e scale e mura, per ritornare a celarsi nelle nostre menti, nel labirinto dei pensieri. Atlante ridà libero corso per le vie del poema ai personaggi che aveva sequestrato. Atlante o Ariosto? Il palazzo incantato si rivela un astuto stratagemma strutturale del narratore che, per l’impossibilità materiale di sviluppare contemporaneamente un gran numero di vicende parallele, sente il bisogno di sottrarre, per la durata di alcuni canti, dei personaggi all’azione, di mettere da parte delle carte per continuare il suo gioco e tirarle fuori al momento opportuno. L’incantatore che vuol ritardare il compiersi del destino e il poeta-stratega che ora accresce ora assottiglia le fila dei personaggi in campo, ora li aggruppa e ora li disperde, si sovrappongono fino a identificarsi.<br>
La parola «gioco» è tornata più volte nel nostro discorso. Ma non dobbiamo dimenticare che i giochi, da quelli infantili a quelli degli adulti, hanno sempre un fondamento serio: sono soprattutto tecniche d’addestramento di facoltà e attitudini che saranno necessarie nella vita. Quello d’Ariosto è il gioco d’una società che si sente elaboratrice e depositaria d’una visione del mondo, ma sente anche farsi il vuoto sotto i suoi piedi, tra scricchiolii di terremoto.<br>
Il XLVI e ultimo canto s’apre con l’enumerazione d’una folla di persone che costituiscono il pubblico a cui Ariosto pensava nello scrivere il suo poema. È questa la vera dedica del Furioso, più della riverenza d’obbligo al cardinale Ippolito d’Este, la «generosa erculea prole» a cui il poema è indirizzato, in apertura del primo canto.<br>
La nave del poema sta arrivando in porto, e ad accoglierla trova schierati sul molo le dame più belle e gentili delle città italiane e i cavalieri e i poeti e i dotti. È una rassegna di nomi e rapidi profili di suoi contemporanei e amici, quella che Ariosto traccia: è una definizione del suo pubblico perfetto, e insieme un’immagine di società ideale. Per una specie di rovesciamento strutturale, il poema esce da se stesso e si guarda attraverso gli occhi dei suoi lettori, si definisce attraverso il censimento dei suoi destinatari. E a sua volta è il poema che serve da definizione o da emblema per la società dei lettori presenti e futuri, per l’insieme di persone che parteciperanno al suo gioco, che si riconosceranno in esso.<br>
</span></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">Postato il 14 novembre 2020</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-27940030.post-70387142211179519612020-11-01T16:39:00.001+01:002020-11-01T22:06:20.627+01:00Rispetto o libertà? Il dilemma della satira<div align="center"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">di Giuseppe Dalla Torre</span></div><div align="justify"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">È trascorso un tempo sufficiente dai tragici fatti di “Charlie Hebdo” per affrontare, con il dovuto distacco, una questione delicata e complessa. Sia chiaro subito: non sono assolutamente condivisibili le posizioni di chi, all’indomani dei fatti, si è lasciato sfuggire espressioni come «se la sono cercata». La vita umana è sacra, sempre, comunque; anche nel caso dei reati più efferati non è ammissibile il ricorso alla pena di morte. In una società civile non è ammissibile che chi si senta leso dal comportamento altrui, anche qualora fosse nel giusto, si faccia giustizia da sé. Uno dei cardini del contratto sociale che dà vita alle moderne democrazie è, infatti, il trasferimento all’autorità dello Stato dell’esercizio del potere di giudicare e di irrogare sanzioni.<br>
Ciò detto, la vicenda parigina che ha tanto coinvolto l’opinione pubblica merita qualche considerazione. Occorre soffermarsi in particolare sulla libertà di professione della fede religiosa. Questo diritto strutturalmente postula una dimensione pubblica e non meramente privata del fatto religioso. La protezione della manifestazione dell’appartenenza religiosa ha senso specialmente nella pubblica agorà, dove in concreto può essere minacciata da altre posizioni religiose o ideologiche, siano esse portate dalla pubblica autorità o da poteri privati. Può essere lesiva della libertà religiosa un’ideologia della laicità che è in realtà laicismo: vale a dire una concezione contraria alla religione, che combatte la religione ritenuta come favola o mito da cui liberare la società. Ciò può avvenire con le armi della violenza fisica, come accaduto in tante dolorose esperienze di Stati che avevano posto l’ateismo tra i propri valori fondanti; ma ciò può avvenire anche con le armi della violenza morale e psicologica.<br>
La tradizione francese, anche se conosce diverse concezioni della laicità, è decisamente segnata da una prettamente ideologica: la famosa <i>laïcité de combat</i>. È da domandarsi se l’ideologia laicista, laddove non rimanga espressione di una tra le tante identità esistenti nel corpo sociale, ma assurga ad un potere di fatto intimidatorio anche attraverso il dileggio e lo scherno, non possa sconfinare talora in una ingiusta violenza nei confronti dei credenti, che si concretizza in una violazione della libertà religiosa.Una seconda considerazione attiene alla libertà di manifestazione del pensiero. Non si può non cogliere oggi una certa degenerazione dell’antico (e nobile) genere della satira: da attacco agli abusi di chi è al potere (anche religioso) ai vizi individuali, a fatti specifici, a individui o gruppi determinati, tende a divenire strumento per colpire in forma caricaturale intere categorie di persone per il mero fatto della loro appartenenza, religiosa o etnica. Si tratta di un fenomeno che porta a tradire il ruolo critico, quindi positivo, della satira, facendo pericolosamente pendere questa verso forme di provocazione gratuite, senza finalità costruttive. Non si vede come irridere ferocemente persone e simboli venerati in una religione, o valori identificanti un popolo, possa essere una manifestazione di pensiero critico, costruttivo, volto al bene della società.<br>
Una terza considerazione attiene al tema della violenza. In uno Stato democratico l’uso della forza è riservato alla pubblica autorità ed eccezionalmente al privato; questi può ricorrere legittimamente alla forza nei soli casi previsti in maniera tassativa dalla legge (si pensi alla legittima difesa). Ma violenza è solo quella fisica? Riflettendo la verità del reale, il diritto ha sempre conosciuto anche la violenza psichica o morale, e l’ha sempre considerata come un fatto civilmente e penalmente illecito, in quanto lesivo della libertà individuale o collettiva. La violenza non fisica, quella contenuta in espressioni del pensiero come talora nella satira, può considerarsi pienamente legittima? Se rientra nei compiti dello Stato bandire la violenza, in qualsiasi forma essa si manifesti nella società, non è mai ammissibile una tutela del sentimento individuale e collettivo contro manifestazioni di pensiero che incarnino violenza?<br> In una intervista concessa al “Corriere della Sera” del 3 febbraio 2015 Patrick Pelloux, il medico urgentista che il 7 gennaio fu il primo a soccorrere gli amici di “Charlie Hebdo” falciati dalle armi dei terroristi Saïd e Chérif Kouachi, ha tra l’altro affermato: «Rivendichiamo il nostro diritto alla blasfemia, che non è insulto, ma volontà di emancipazione dell’intelligenza». Ora che la blasfemia non sia insulto è quantomeno discutibile, ma certamente essa può concretarsi in una offesa; quanto poi alla “emancipazione dell’intelligenza”, si tratta di espressione che può tradire una volontà, tipicamente laicista, diretta a sradicare la religione anche attraverso la violenza di un pensiero offensivo.Quali conclusioni trarre da tutti gli interrogativi posti? Non certo l’auspicio di un ritorno a forme di censura, inammissibili in una società democratica; né si può confidare nei soli strumenti giuridici, che pure ci sono, di tutela giudiziale nei casi e nelle forme previste dalla legge. Il punto centrale è da rinvenire sul piano culturale ed etico. Appare necessario promuovere una cultura sensibile al fatto che, in una realtà sociale a pluralismo accentuato, la “casa comune” si costruisce non attraverso l’offesa, il vilipendio, l’aggressione sia pure solo “verbale”, sibbene attraverso un pensiero, anche critico, ma rispettoso e sostanzialmente solidale. Occorre comprendere che la satira non è uno strumento innocente; che essa, come ogni strumento, può essere utilizzata bene o male. Chi fa satira dovrebbe sempre chiedersi quali effetti essa può produrre sull’opinione pubblica, se di salutare critica al potere o non piuttosto di odio o dileggio nei confronti di determinate categorie di persone. In questo secondo caso essa può convertirsi in una silenziosa ma reale minaccia per la democrazia, disseminando semi di violenza e di discriminazione nella sua fragile costituzione. Anche in questo ambito, dunque, un impegno formativo e di sensibilizzazione si impone.</span></div>
<div align="right"><span style="font-family:verdana;font-size:85%;">«Avvenire» del 13 maggio 2015</span></div>F.T.http://www.blogger.com/profile/03815705381699588340noreply@blogger.com0