01 novembre 2018

Giacomo, facci l'autografo

di Matteo Motolese
È una pergamena bianca perfettamente conservata in cui, con una scrittura elegante e posata, un notaio, nel giugno del 1233, a Catania, conferma un privilegio imperiale al monastero di San Salvatore, vicino a Messina. Deve essere stata scritta in modo lento, con attenzione a ogni singola lettera: chi scriveva sapeva d'altronde che stava scrivendo per conto dell'imperatore. Un buco pochi centimetri dopo la fine del testo mostra il punto esatto in cui era stato posto il sigillo d'oro, portato via chissà quando, che rendeva l'atto ufficiale.
A prima vista sembrerebbe uno dei tanti documenti del Medioevo siciliano giunti fino a noi. Ma a guardare con attenzione il testo si comprende che chi ha scritto la pergamena non era solo un funzionario imperiale di alto rango ma era anche il primo grande poeta italiano. Nelle ultime righe della pergamena si legge infatti che l'atto è vergato "per manus Iacobi de Lentino Notarij et fidelis nostri"; in cui quel "nostri" si riferisce a Federico II di Svevia; e quel "Iacobi da Lentino" altri non è che Giacomo da Lentini, massimo poeta della Scuola siciliana e inventore della più longeva delle forme poetiche europee, il sonetto.
Si tratta del primo documento interamente autografo del poeta della corte di Federico II. Lo ha trovato Giuseppina Brunetti, ricercatrice di Filologia romanza all'Università di Bologna, a cui si devono altre scoperte eccezionali in questo campo (anni fa ha scovato, a Zurigo, la più antica testimonianza della poesia siciliana; e si veda qui accanto il suo racconto di questo nuovo avventuroso ritrovamento).
Stupor mundi e la sua corte. Federico II di Svevia sul trono regge i simboli del potere, mentre gli si fanno intorno i suoi dignitari (affresco del duomo di Salerno).Per oltre trecento anni questa pergamena del Duecento ha conservato il segreto della propria eccezionalità nella quiete della fondazione Casa Ducale di Medinaceli, a Toledo, in Spagna. Ma non ha avuto sempre una vita così tranquilla. È il gennaio 1679 quando il viceré spagnolo decide di infliggere una punizione esemplare alla città di Messina a séguito di una rivolta filofrancese. Fa prelevare dalla torre vicina alla cattedrale le carte che conservano le memorie cittadine e ordina poi di buttare giù la torre; fa rompere la campana della cattedrale e poi ne fonde i pezzi per farne una statua del re di Spagna. Poco tempo dopo spedisce per nave tutto quello che ha fatto prendere dalla torre prima di cannoneggiarla: venti sacchi di documenti che vengono inviati in Spagna, per mare. In uno di essi, stipata insieme a mille altri pezzi, ha lasciato l'Italia anche la pergamena scritta da Giacomo.
Quello della Brunetti è un ritrovamento importante: non solo ci testimonia la scrittura autografa di un poeta del XIII secolo (cosa di per sé già estremamente rara), ma proviene da un mondo - quello della Scuola poetica siciliana - di cui abbiamo perso praticamente tutto. I protagonisti della prima stagione poetica italiana sono, per noi, poco più che ombre: sappiamo a malapena i loro nomi, qualche sparso dato biografico; la loro stessa poesia ci è arrivata quasi solo attraverso riscritture toscane, tanto che la lingua letteraria da loro usata è ancora, in buona parte, un mistero.
Anche di Giacomo da Lentini sappiamo molto poco: ignoriamo la data di nascita come quella di morte; ma la trentina di componimenti che ci sono giunti ci dicono che era un poeta capace di una delle scritture più alte della nostra letteratura. A lui si deve l'invenzione della misura aurea della poesia occidentale, il sonetto: quella piccola gabbia metrica che permette colpi d'ala da voliera in cui si sono cimentati Dante e Shakespeare, Baudelaire e Caproni. E in cui lo stesso Giacomo ha saputo sillabare versi di rara bellezza: "A l'aire claro ò vista ploggia dare, / ed a lo scuro rendere clarore; / e foco arzente ghiaccia diventare, / e freda neve rendere clarore" in cui gli opposti atmosferici diventano il riflesso minore di una passione amorosa: "Ed ò vista d'Amor cosa più forte / ch'era feruto e sanòmi ferendo, / lo foco donde ardea stutò con foco; / la vita che mi dè fue la mia morte...".
Era un maestro della misura breve, Giacomo. Ma anche nelle canzoni più distese sapeva imprimere al verso un'intensità rimasta intatta dopo secoli. Non a caso a lui è dedicato uno dei tre volumi della splendida edizione dei Poeti della scuola siciliana uscita l'anno scorso nei Meridiani Mondadori (lo ha curato Roberto Antonelli, tra i massimi studiosi dei Siciliani).
Ma la pergamena di Toledo va al di là dell'emozione feticistica di essere dinanzi alla scrittura di uno dei più importanti poeti italiani antichi. Ci permette soprattutto di guardare meglio all'interno della corte in cui è scoccata la prima scintilla della migliore poesia italiana. Il fatto che rechi sul retro una scritta in greco ci rimanda, ad esempio, a una delle caratteristiche più note di quell'ambiente: l'incontro tra lingue e culture diverse. Lo stesso Federico era visto dai contemporanei come in grado di passare dal latino al greco, al tedesco, all'arabo oltre che ovviamente al siciliano; nella biblioteca che portava con sé nei suoi spostamenti i testi della medicina araba trovavano posto accanto ai codici della letteratura provenzale. Non solo. Il fatto stesso che la scrittura di Giacomo, in quanto notaio, potesse valere giuridicamente come quella dell'imperatore ci offre la testimonianza più evidente di quella saldatura tra corte, potere politico e letteratura che - a meno di cinquant'anni dal crollo della dinastia sveva - Dante vedeva già come qualcosa di mitico a cui ritornare.
Ex priore bandito da Firenze, costretto ad elemosinare ospitalità nell'Italia settentrionale, Dante sapeva bene infatti che i poeti attorno a Federico II erano stati, prima di tutto, alti funzionari. Sapeva che il loro era uno status ben diverso da quello dei trovatori che ancora vagavano per le corti settentrionali per allietare il pranzo dei signori locali. Erano giudici (come Guido delle Colonne), grandi cancellieri (come Pier delle Vigne), notai (come lo stesso Giacomo ma anche Mazzeo di Ricco). Lo sapeva anche perché i manoscritti due-trecenteschi toscani che tramandano la loro poesia registrano con scrupolo le singole professioni: lo stesso Giacomo da Lentini è sempre indicato come "Notaro Giacomo". Così, d'altronde, lui stesso si firmava non solo nei documenti imperiali ma anche nel chiedere l'amore in coda a una delle sue poesie più celebri: "Lo vostro amor, ch'è caro, / donatelo al notaro / ch'è nato da Lentino".
«Il Sole 24 ore» del 17 gennaio 2010