14 settembre 2017

Il prof ai ragazzi: «Cercate la vita: Nel latino ce n'è più che sul web»

Ivano Dionigi, già Magnifico rettore e direttore del Centro studi «La permanenza del Classico» dell’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna, scrive ai liceali sull’attualità di studiare i classici
di Ivano Dionigi
Cosa dire a te che oggi, tra molte speranze e qualche timore, inizi l’avventura della Scuola superiore? Una gran bella età la tua, che ti spalanca le porte del mondo e del futuro; una gran bella opportunità il Liceo, che ti fa conoscere nuovi professori, nuove amicizie, nuove materie: una in particolare, il latino. Vorrei farti capire i vantaggi che questa lingua ti offre, la dote che ti porta, l’eredità che ti lascia. Il latino ti insegna l’importanza della parola. Noi oggi parliamo male e abbiamo bisogno di ecologia linguistica. Simili agli abitanti di Babele, rischiamo di non capirci più; vittime di una comunicazione frettolosa, malata e talvolta anche violenta, smarriamo il vero significato delle parole. Il latino, lingua madre del nostro italiano, ci consente di risalire al significato originario delle parole, di riconoscere il loro volto, di ripercorrere la loro storia: perché le parole, come le persone, hanno un’origine, un volto, una storia. A cominciare dalla parola «comunicare» che — derivata dal latino communicare (cum, «insieme», e munus, «dono», «missione») — significa condividere con gli altri un regalo, un privilegio, una funzione. E alla comunicazione, «arte del parlare» (ars dicendi), i Romani affidavano il triplice compito di «affascinare» (delectare), «insegnare» (docere), «mobilitare le coscienze» (movere). Quello che dovrebbe fare la nostra scuola.
Il latino ti insegna il valore della comunità. In un momento in cui sempre più marcata si fa l’attenzione sull’io a scapito del noi, gioverà la lezione di una lingua e cultura che metteva al centro l’uomo come cittadino (civis), che sapeva distinguere e coniugare la città architettonica dei muri e delle mura (urbs) con la città della convivenza civile e politica (civitas), che ha elaborato e trasmesso i codici sociali ed etici del bene pubblico (res publica). Pensiamo anche a parole-chiave quali humanitas, pietas, religio, significati e valori che vanno al di là dei nostri «umanità», «pietà», «religione». Il latino ti insegna la dimensione del tempo. Lingua madre delle lingue neolatine dal Mar Nero all’Atlantico e per oltre venti secoli lingua europea della politica e dell’Impero (Imperium), della religione e della Chiesa (Ecclesia), della cultura e della scienza (Studium), il latino ci mette in relazione con la storia; e ci dice che la cultura, come la vita, è un patrimonio comune e perenne che varca l’oggi e appartiene non solo a noi ma anche ai trapassati e ai nascituri.
Forse questa è l’eredità più preziosa, perché oggi tu — connesso con l’immensa rete del mondo (www) — rischi di sperimentare solo la dimensione spaziale e di rimanere schiacciato dall’eterno presente: senza cognizione del tempo, l’unica dimensione che ci consente di conoscerci e di progettare. La lingua e cultura latina ci apre il tempio del tempo e ci fa entrare in quello che Sant’Agostino chiamava il palazzo della memoria. Là, in compagnia di Lucrezio, potrai confrontarti con l’uomo cosmico; in compagnia di Cicerone, con l’uomo politico; in compagnia di Seneca, con l’uomo interiore. Soprattutto — e sarà la sorpresa più bella — incontrerai scrittori che parleranno a te e di te, perché interpretano le contraddittorie ragioni del cuore: entusiasmi e delusioni, vittorie e sconfitte, gioie e sofferenze. Che lo studio del latino ti appassioni e ti arricchisca; e che tu in questi cinque anni possa condividere con i tuoi amici e professori la bellezza stupenda e tremenda di quella cosa che chiamiamo vita.
«Corriere della sera» del 14 settembre 2017

11 settembre 2017

Se nella sfida sui «diritti» alla fine vince l’egoismo

Come mostra Vittorio Possenti, la cultura occidentale non riconosce che la stagione dei diritti umani è alla fine, distrutta dai suoi stessi beneficiari
di Carlo Cardia
Il dibattito sul relativismo, che ha finito con il coinvolgere i diritti umani, muove sempre dai grandi principi, ma le ricadute negative sulla persona si sono di recente moltiplicate in modo impressionante. Per due momenti essenziali del cammino percorso si possono citare la posizione di Norberto Bobbio sulla storicità dei diritti, in opposizione alla loro naturalità, e l’approdo del filosofo americano Charles E. Larmore, che decreta la radicale scissione tra etica e diritto. Sono posizioni diverse, non sovrapponibili, perché per Bobbio i diritti nascono nella storia, e «il problema di fondo è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli», tuttavia per lui l’ispirazione etica del diritto rimane forte. Con Larmore siamo alla pienezza del relativismo, visto che con serenità cancella ogni base morale delle leggi dal concetto aristotelico di vita buona. Infatti, non c’è gerarchia tra tipi di vita che possono scegliersi: «Lo Stato dovrebbe rimanere neutrale, e non dovrebbe promuovere alcuna concezione particolare della vita buona per via della sua presunta superiorità». Quasi avvertendo l’assurdità proposta, Larmore ammette che esistano scelte più agevoli, «quantomeno, chi desidera fare una vita da ladro, non avrà vita facile». Ma la conclusione produce angoscia: «Se i liberali devono rispettare lo spirito del liberalismo, devono anche escogitare una giustificazione neutrale della neutralità politica», cioè elaborare «principi politici che siano essi stessi neutrali » senza dover tutelare alcun bene. Una legge ridotta a procedura, una vita da condurre come piace a ciascuno. Tra questi poli si compie il cammino che allontana l’uomo da una visione forte dei diritti, provoca la loro dissoluzione attraverso diverse tappe, alcune proposte con levità da intellettuali di varia estrazione.
Conviene richiamarne una che, con la fine della vita buona, prefigura la distruzione della famiglia e il trionfo di un edonismo prossimo al libertinismo d’altre epoche. È quella di Jacques Attali, per il quale la famiglia monogamica «è solo un’utile convenzione sociale». Secondo l’economista francese, andiamo «verso una concezione radicalmente nuova di relazione sentimentale e amorosa. Nulla ci impedisce di innamorarci di più di una persona contemporaneamente. Il fatto di avere più partner e vite multiformi renderà palese l’ipocrisia della società. Ciò non avverrà senza conflitti. Tutte le Chiese cercheranno di impedire una cosa del genere, soprattutto alle donne. Per un po’ resisteranno, ma alla fine trionferà la libertà individuale». Il pensiero di Attali è come il trait-d’union tra l’esaltazione teorica della libertà di fare ciò che si vuole e la sua traduzione pratica, che porterà al deserto dei valori etici e dei diritti umani. Colpisce il fatto, nella sua riflessione, che i figli scompaiano, come scompare la figura femminile, senza che si parli dei loro diritti, dei doveri nei loro confronti, della dimensione affettiva della persona. Venuto meno il carattere teleologico dell’agire umano, la deriva relativistica prosegue e ferisce l’intima natura relazionale dei rapporti tra persone.
Questo cammino teorico e pratico è oggetto del recente libro di Vittorio Possenti (Diritti umani. L’età delle pretese, Rubbettino 2017) di cui Avvenire ha già fornito ampia anticipazione, e che ha, tra i suoi pregi, quello di introdurci dentro l’opera di dissolvimento della stagione dei diritti, iniziata per dare all’umanità un nuovo Decalogo, e che tende invece verso i predominio dei più forti, con l’asservimento dei più deboli. Possenti ripercorre l’itinerario che ha portato filosofia e diritto ad abbandonare i valori fondanti e approdare alla mutazione dei diritti in realtà contingenti, frutto di leggi posi- tive mutevoli, espressione della volontà individuale, chiusi in una gerarchia presieduta dall’io sovrano, l’arbitrio del singolo. Dentro ci sono tante cose che conosciamo ormai per esperienza diretta: i diritti si moltiplicano, i fondamentali non si distinguono più dai secondari, i doveri si dissolvono e si spezza il rapporto con l’umanesimo occidentale, da Aristotele a san Tommaso, da Montesquieu a Maritain, al diritto si sostituisce il desiderio, poi la «pretesa», fino a sfociare nella guerra tra diritti a tutto danno dei soggetti che ancora non sanno e non possono difendersi. Tre movimenti meritano un’attenzione speciale. L’abbandono del concetto di natura umana, confusa con la fisicità, porta alla «rinuncia aprioristica degli impegni ontologici», soprattutto del valore assoluto della persona che, secondo il pensiero di Jeanne Hersch, sente di avere diritto a qualcosa proprio e solo in quanto è persona, mentre per Giuseppe Capograssi «parlare di diritti dell’uomo significa che esistono diritti che appartengono all’essenza dell’uomo e che sono a lui connaturali, e quindi inalienabili».
Un altro passaggio sta nell’azzeramento del concetto di «dignità umana », che pure è a base delle prime Dichiarazioni e Convenzioni internazionali. All’universalità della dignità umana si sostituisce un nuovo paradigma: l’autodeterminazione assoluta dell’uomo che segna, con le parole di Felice Balbo, «l’ora di Barabba» nella storia, «intimamente connessa con la superba deificazione dell’immanenza».
Oggi, l’immanenza deificata ha un altro nome, si chiama «la divina autonomia dell’uomo», tutti i diritti si riducono ad uno solo, «quello dell’autodeterminazione », che non conosce confini, perché la trascendenza è stracciata dai secolarismi, né esistono più doveri verso gli altri, anzi non esistono più gli altri: ognuno vuole realizzarsi appieno, come un «uomo aumentato» che innesta nel paniere dei diritti ogni desiderio, ambizione, pretesa. L’ultimo passaggio segna il movimento dalla teoria alla pratica, investe una serie amplissima di eventi e situazioni, nonché il complesso delle relazioni sociali. Si adattano con disinvoltura svolte storiche decisive all’odierno nichilismo, e si sostiene che il politeismo etico avrebbe oggi lo stesso fondamento del politeismo religioso introdotto dalla Riforma. Di qui, la conseguenza che ne trae Uberto Scarpelli, per il quale «nell’etica non c’è verità», anzi «l’etica è nei suoi principi arbitraria». Si converrà allora con H. Tristram Engelhardt, per il quale «non resta che derivare l’autorità (morale) dagli individui». Le conseguenze sono inevitabili.
Aveva ragione ad es. Danilo Zolo, secondo cui «la tesi del fondamento filosofico e della universalità normativa dei diritti dell’uomo è un postulato dogmatico (…) che manca di conferma sul piano teorico», e il consenso che i diritti umani ottengono nel mondo «non giustifica alcuna pretesa universalistica e alcune intrusività missionaria». Ridotti a merce dell’Occidente, i diritti umani subiscono un’ulteriore relativizzazione interna ai nostri territori, che falcidia i valori più alti costruiti dall’umanesimo, il rispetto degli altri, la solidarietà, la difesa dei più deboli, a cominciare da chi nasce e non può difendersi dal dominio degli adulti e delle loro pretese. Si legittima così l’eterologa, senza mai chiedersi se per il donatore non viga più alcun principio di responsabilità, se il figlio non abbia il diritto di conoscere il genitore naturale, che invece rimane nascosto per il resto dei giorni. Si ammette la filiazione per due persone che abbiano lo stesso sesso, senza chiedersi se il figlio non abbia il diritto naturale di avere un padre e la madre per ragioni morali, fisiche, psicologiche, sociali, conosciute da tutti. Si accetta perfino il ricorso alla maternità surrogata per dare dei figli a chi non può averne, anche se dello stesso sesso, perché se nell’etica non c’è verità si può cancellare il cammino moderno di emancipazione della donna: si può sfruttare il suo corpo, farne commercio secondo convenienza, e strumento per soddisfare desideri altrui, nasconderla al figlio che partorisce e nascondere lei al figlio nato. La guerra dei diritti assume forme impensabili, proprie del multiculturalismo senza cuore, come quando un intellettuale dichiarò che per la difesa dei diritti delle donne (musulmane o d’altra religione) sui nostri territori noi non possiamo intervenire, dobbiamo lasciare che siano esse a organizzarsi per rivendicare le proprie esigenze. S’è provocata così la risposta, tagliente e insuperabile, di Luigi Ferrajoli per il quale «sarebbe un segno di eurocentrismo» negare i diritti umani «a quanti hanno la ventura di appartenere a popoli che non hanno compiuto il nostro percorso storico»; ad esempio, «le donne afghane dovrebbero attendere, per la liberazione, che padri e mariti compiano la loro “rivoluzione francese”».
La riflessione di Possenti s’inserisce, così, in un dibattito che sta investendo la cultura occidentale ed europea, ancora restia a riconoscere che la stagione dei diritti umani può volgere al termine, distrutta dai loro stessi beneficiari, nonostante sia inscritta nelle più belle Carte Internazionali prodotte dall’epoca delle prime rivoluzioni democratiche della modernità.
«Avvenire» del 18 luglio 2017

Alberto Manguel, leggendo Borges riaffiora Dante

Nel racconto del direttore della Biblioteca Nacional a Buenos Aires al segretario generale della Società Dante Alighieri l’intreccio delle due grandi della letteratura
di Alessandro Masi
Gli argentini di Buenos Aires lo chiamano inverno. Per noi italiani è poco meno che una primavera. Nelle giornate di vacaciones di fine luglio, le signore passeggiano per le vie eleganti della Recoleta avvolte da lunghe sciarpe di lana e cappotti di mezza taglia, mentre le loro cameriere le seguono trascinando cani, pacchi e pacchetti vestite solo di un grembiulino rosa. Il sole risplende sul verde dei prati e dei grandi alberi del viale che da Avenida Del Libertador sale su verso Calle Agüro, in cima alla collinetta dove poggia massiccia la Biblioteca Nacional.
Il direttore Alberto Manguel ci riceve con garbo affettuoso e senza grandi cerimonie. È un nobile pratico. Sa che abbiamo fatto un lungo viaggio per incontrarlo e non vuole che si perda altro tempo per parlare di un argomento che gli sta molto a cuore: Dante e Borges.
Nel luglio del 2018 la Società Dante Alighieri terrà a Buenos Aires un grande convegno latinoamericano sul futuro della lingua italiana e per l’occasione Manguel sarebbe felice di poter ricordare l’autore dei Nove saggi danteschi (1982) e dell’Aleph (1942), racconti liberamente ispirati alla Divina Commedia.
«Come ricordo nel mio ultimo libro Con Borges (Siglo Ventiuno Editores) – racconta senza enfasi il direttore – lo scrittore argentino amava anche molti altri autori italiani come Croce, Calvino, Pirandello e De Chirico, ma Dante per lui era un grande classico, al pari di Shakespeare».
E chi meglio di Manguel può testimoniarlo? È uno scrittore noto in tutto il mondo, ha ricevuto molti premi, è poliglotta e ha viaggiato tanto, ha letto migliaia di libri per sé ma soprattutto per Borges. Difatti, nel 1964, a sedici anni, lavorava come commesso alla libreria Pygmalion di Buenos Aires quando vide entrare un signore distinto, alto, dai capelli bianchi e dall’andatura incerta, aiutato da un bastone di legno nodoso. Si aggirava sicuro tra gli scaffali chiedendo notizie degli ultimi arrivi, ma era cieco! Fu da quell’incontro che Alberto Manguel divenne uno dei pochi lettori ammessi nella casa del grande scrittore argentino, almeno fino al 1968. Un destino!
Come Borges anche Manguel è diventato direttore di quell’immenso labirinto di libri che è la Biblioteca Nacional di Buenos Aires, una gigantesca astronave poggiata su enormi piloni di cemento che sembrano le zampe di un insetto. A disegnarla nel 1971 fu l’architetto napoletano naturalizzato argentino Clorindo Testa, esponente della corrente brutalista e a inaugurarla, vent’anni dopo, nel 1992 ci pensò il presidente Carlos Menem. «A mio giudizio – confessa mostrandoci rare edizioni della Divina Commedia custodite gelosamente in un’ala protetta della Biblioteca – Dante suona con una marcata eco borgiana. Mi ricorda la strofa del quinto canto del Purgatorio che descrive Buonconte “fuggendo a piede e ’nsanguinando il piano”. Per me queste sono frasi coniate proprio per Borges».
Dante è inevitabile direbbe Ismail Kadare. Anche Alberto Manguel in Una storia naturale della curiosità (Feltrinelli), lascia che sia Dante a guidare l’umanità alla ricerca della giusta rotta verso un percorso rivelatore. E Borges il suo percorso lo aveva compiuto con la Commedia in mano nel lento tragitto in tranvai tra la sua casa e la biblioteca in cui lavorava. Il Direttore richiude una preziosa edizione dantesca stampata a Venezia sul finire del ’400 e lo sguardo malinconico va alla scrivania del suo maestro lì conservata.
Prima di congedarci, Manguel ricorda: «L’ultima volta che vidi Borges fu nel 1985 all’Hotel de París. Mi parlò delle città che considerava sue, Ginevra, Montevideo, Nara, Austin, Buenos Aires e in quali di queste avrebbe voluto morire. Scartò Nara, in Giappone, dove aveva sognato una terribile immagine di Buddha. Mi disse: “non quiero morir en un idioma que no puedo intender” (non voglio morire in una lingua che non posso capire). Forse come Dante anche lui presagiva che la sua città natale non avrebbe ospitato le sue ossa». Dal 1986, difatti, riposa al Mortuaire de Plainpalais di Ginevra, in Svizzera, dove l’inverno è davvero inverno.
«Avvenire» del 13 agosto 2017

Prof e ragazzi patto anti-noia

di Alessandro D'Avenia
Ho un nipote di 9 anni, curioso e attivo, sempre in esplorazione. Quando gli si indica qualcosa di nuovo la sua reazione è binaria: «Mi interessa» e rimane coinvolto fino a superare la passione di chi propone.
«Non mi interessa», e niente potrà fargli cambiare idea. Ha quello che chiamo «l’istinto dell’interessante» che lo aiuta a percepire subito se quell’attività conoscitiva, ludica, sociale lo farà crescere. Credo sia proprio di tutti i bambini aperti alla vita.
Questo è un nodo dell’educazione, l’interesse, qualcosa che è già nei ragazzi e che noi abbiamo il compito di agganciare alla realtà. L’alternativa è la noia, cioè costringere a fare qualcosa che non fa crescere, fino sentirsi rinchiusi nella vita come in una stanza delle torture. In un momento in cui le emozioni, nutrite da immagini e messaggi di conferma narcisistica del proprio io, ostacolano l’esplorazione reale del mondo a causa dell’apporto ipercalorico di ciò che soddisfa in modo effimero, ma nel profondo affama, l’interesse è cruciale nell’educazione e quindi nell’insegnamento.
Educare è aiutare a crescere, l’interesse non è quindi il frutto di effetti speciali più o meno tecnologici (quanta noia in un film senza storia ma traboccante di effetti), ma la conseguenza del fatto che gli oggetti che presentiamo all’attenzione dei ragazzi hanno ragione di bene, di vero e di bello, e i ragazzi vi si aggrappano come un bambino alla mammella, perché sanno, anzi sentono prima di saperlo, che questo li aiuterà a crescere. Crescere è infatti, a qualsiasi età, l’unico modo che l’uomo ha per guadagnare tempo, cioè per dare scacco alla morte portando a compimento il progetto di vita che è. Non si guadagna tempo facendo più cose o in meno tempo o in gran quantità, come si illude la cultura delle prestazioni (vedi i programmi di scuola, grandi corse verso cosa?).
Una lezione è noiosa perché non aiuta a crescere, cioè perché non è vera, bella, buona, innanzitutto per noi che la stiamo facendo. Quando entriamo in un ristorante pretendiamo un piatto buono, da un amico vogliamo che sia sincero, ci innamoriamo di qualcuno perché ne abbiamo scorto la bellezza. Noi siamo presi dalla realtà non perché abbia effetti speciali, ma per quelle tre cose che ci fanno vivere relazioni profonde e quindi crescere: verità, bene, bellezza.
Non serve una scuola divertente, ma una scuola interessante. Interesse vuol dire essere (esse) dentro (inter), essere sorpresi e quindi presi da qualcosa che per via esperienziale (cioè con tutto l’essere) percepiamo come vitale, perché coinvolge il nostro essere dalle fondamenta, così da metterlo in movimento esplorativo della realtà. Le nostre lezioni diventano poco interessanti non perché non conosciamo la materia, ma perché non facciamo lo sforzo di far sì che quel contenuto abbia presa sulla sostanza vitale dell’uomo o della donna in formazione, cioè non diamo ragione che vitale lo è innanzitutto per noi.
Leopardi diceva dei libri che non avevano posto in lui qualcosa che già non ci fosse, ma avevano semplicemente accelerato il processo di maturazione di qualcosa già presente in lui: acceleratori di crescita. Come mi spiego un anno in classifica del libro di una collega sul perché amare il greco o del mio su Leopardi? Perché quello che vi si racconta è interessante ed è interessante non perché gli autori siano dei fenomeni, ma perché quello che raccontano riguarda una ricerca vitale propria, che le persone sentono comune alla loro esistenza. La noia della scuola di oggi dipende dalla sua impostazione museale: presentiamo gli oggetti come morti, e non perché lo siano, ma perché non servono a vivere, non servono a crescere, innanzitutto a noi che li raccontiamo.
In che modo Leopardi, la termodinamica, la tavola periodica, la fotosintesi, le disequazioni, Kant, la guerra del Peloponneso sono interessanti? Nella misura in cui mi aiutano a crescere, cioè se sono soggetti attivi nella vita interiore dell’insegnante, che mostra durante la lezione in che modo quell’argomento non sia un oggetto del programma quantificabile in una valutazione, ma un pezzo (bello, buono, vero) di mondo, necessario a orientarsi nella realtà di se stessi e di ciò che ci circonda. Questo, indipendentemente dalle doti personali, lo comunicano il corpo, gli occhi, le mani, le parole, l’essere tutto dell’insegnante che vibra nel tentativo di trasmettere il suo «essere dentro». Niente c’è di interessante, se quegli argomenti non hanno cambiato, cambiano, e continueranno a cambiare il mondo interiore di chi li racconta, tanto che continua ad approfondirli, e non si limita a ripetere stancamente il programma. Come farò a meravigliare con quello che insegno se non mi meraviglio di quello che insegno? Non possiamo interessare, se non siamo interessati: a ciò che insegniamo e soprattutto alla vita dei ragazzi.
«La stampa» dell'11 settembre 2017